massimo coltrinari
"Non più reticolati nel mondo" Lo studio dell' Internamento come strumento per contrastare la violenza e la violenza bellica, in ogni tipo di società del secolo breve e del secolo in corso.. Come base di studio per affrontare il problema delle migrazioni e dello spostamento di massa delle popolazioni. E' spazio di ricerca su questi temi del CESVAM - Istituto Nastro Azzurro ( Massimo Coltrinari) info:centrostudicescam@istitutonastroazzurro.org
Traduzione
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venerdì 15 dicembre 2017
venerdì 20 ottobre 2017
Ebrei:una storia italina. I prime mille anni
Oltre duecento oggetti – molti preziosi e rari –, fra i quali venti manoscritti, sette incunaboli e cinquecentine, diciotto documenti medievali, provenienti in gran parte dalla Genizah del Cairo (un significativo archivio dell’ebraismo medievale riscoperto nella capitale egiziana), quarantanove epigrafi di età romana e medievale e centoventuno tra anelli, sigilli, monete, lucerne, amuleti, poco noti o mai esposti prima, prestati da musei italiani e stranieri di primo piano. E un percorso espositivo coinvolgente, ricco di immagini, ricostruzioni ed esperienze offerte al visitatore.
La mostra “Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni”, che di fatto costituisce il primo segmento del percorso permanente del MEIS, comunica in modo originale l’unicità della storia dell’ebraismo italiano, descrivendo – per la prima volta con tale ampiezza – come la presenza ebraica si sia formata e sviluppata nella Penisola dall’età romana (II sec. a.e.v.) al Medioevo (X sec. d.e.v..) e come gli ebrei d’Italia abbiano costruito la propria peculiare identità, anche rispetto ad altri luoghi della diaspora.
Attraverso cinque grandi divisioni, il percorso curato da Anna Foa, Giancarlo Lacerenza e Daniele Jalla, con l’allestimento dello studio GTRF Tortelli Frassoni Architetti Associati, individua le aree di provenienza e dispersione del popolo ebraico, ripercorre le rotte della diaspora e dell’esilio verso il Mediterraneo occidentale, dopo la distruzione del Tempio. Documenta la permanenza a Roma e nel sud Italia, parla di migrazione, schiavitù, integrazione e intolleranza religiosa, in rapporto sia al mondo pagano che a quello cristiano. Segue la fioritura dell’Alto Medioevo e poi, in un clima politico segnato dalle dominazioni longobarda, bizantina e musulmana, il precisarsi di una cultura ebraica italiana, anche a nord. Fino alle Crociate, agli eccidi, alle conversioni forzate che segnano le comunità ebraiche tedesche, mentre quelle italiane godono ancora di una notevole stabilità e relativa convivenza con l’ambiente circostante, come testimonia l’ebreo Beniamino da Tudela nel suo “Libro di viaggi”.
mercoledì 11 ottobre 2017
Attività per il 2018
Giorno della Memoria 2018
In questa occasione, il MEIS promuove una serie di incontri focalizzati sulla discriminazione e le persecuzioni subite dagli ebrei in Italia a seguito delle leggi razziali
Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah - MEISHOP
Via Piangipane, 81 - Ferrara
Presentazione dello spettacolo multimediale Con gli occhi degli ebrei italiani da parte dei curatori Giovanni Carrada e Simonetta Della Seta. È presente Anna Maria Quarzi, Presidente dell'Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara
Presentazione del libro di Michele Sarfatti Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell'elaborazione delle leggi del 1938 (Zamorani, 2017), alla presenza dell’autore
lunedì 18 settembre 2017
Ebrei in Italia
La vicenda degli ebrei italiani è parte integrante della storia d’Italia e dei suoi snodi, ed è significativa di una realtà oggi attualissima: quella della convivenza tra culture diverse e del rapporto tra l’identità di maggioranza e quelle minoritarie.
L'ebraismo è una delle culture più antiche che vivono in Italia, dove la sua presenza ininterrotta è documentata fin da prima che comparisse il cristianesimo. E anzi, per certi versi, ne costituisce la premessa. La storia della comunità ebraica italiana affonda, infatti, nel II secolo prima dell’era volgare (a.C.), come testimoniano reperti archeologici di lapidi tombali e iscrizioni dedicatorie. I primi ebrei arrivarono a Roma grazie agli intensi scambi commerciali nel bacino del Mediterraneo e già nel I secolo e.v. (d.C.) la comunità ebraica romana era fiorente e stabile, tanto che poté riscattare gli ebrei fatti schiavi durante l'assedio di Gerusalemme del 70, quando il generale Tito, futuro imperatore, distrusse il Tempio per ordine del padre Vespasiano. Da Roma gli ebrei si sparsero presto lungo tutta la penisola: a sud, dove raggiunsero fino al dieci per cento della popolazione, e a nord, soprattutto lungo le coste.
Gli ebrei italiani sono quelli che vivono in Italia o hanno ascendenze italiane o, in senso più ristretto, appartengono all'antica comunità di rito italiano (minhag italkì), diversamente dalle comunità risalenti all'epoca medievale o moderna, che fanno riferimento al rito sefardita (praticato dagli ebrei provenienti dalla Spagna e dal bacino mediterraneo) o askenazita (degli ebrei provenienti dalla Germania e dal nord Europa).
L’ebraismo italiano accolse e integrò, dopo il 1492, gli ebrei espulsi dalla Spagna, dal Portogallo e dai territori di dominio spagnolo, oltre a molti ebrei in fuga dal centro Europa. Alla loro fioritura vennero tuttavia messi continui limiti. A Venezia, nel 1516, fu fondato il primo ghetto della storia, una forma di segregazione in seguito istituita anche a Roma e in quasi in tutte le città italiane.
Solo dopo Napoleone gli ebrei italiani cominciarono ad essere emancipati e parteciparono numerosi sia al processo risorgimentale che portò all’Unità d’Italia, sia alla prima guerra mondiale, per difendere la patria.
Nel 1938, le leggi razziali emanate da Mussolini segregarono e discriminarono nuovamente gli ebrei fino a provocarne la persecuzione, la deportazione e la morte (circa 9.000 furono arrestati in territorio italiano e uccisi durante il fascismo e l’occupazione nazista).
Solo con la nascita della Repubblica e la firma della Costituzione è stata riconosciuta agli ebrei l’appartenenza di diritto all’identità dell’Italia, un Paese che hanno contribuito a fondare.
mercoledì 26 luglio 2017
A Ferrara
Nasce il portale “Ebraismo in pillole”
È nato oggi “Ebraismo in pillole”, il portale dell’Associazione di cultura ebraica Hans Jonas, sostenuto dalla Fondazione Pincus per l’educazione ebraica nella Diaspora e dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
L’obiettivo è quello di aiutare gli studenti della scuola superiore (ma anche le persone un po’ più grandi) a saperne di più sulla cultura, la religione e le tradizioni ebraiche – tanto presenti in rete e sui mezzi di informazione -, perché è innanzitutto attraverso la conoscenza che vanno combattuti il pregiudizio antisemita, l’intolleranza e il razzismo. Spesso si ha paura di ciò che si ignora e spesso si ignora ciò che ci è prossimo. In questo senso, il portale vuole rappresentare un piccolo contributo alla costruzione di una società aperta, plurale e sicura.
Accanto ad articoli di ricostruzione storica e di attualità, e a una sezione dedicata ai pregiudizi sugli ebrei, il sito tratta alcuni argomenti-base e li approfondisce sotto forma di nove percorsi, curati da Micol Temin e Daniele Toscano: Dio nell’ebraismo, Il calendario ebraico, La Diaspora, La libertà e i suoi limiti, Ebrei e società civile, Rapporti ebrei-cristiani, L’antisemitismo, Il sionismo, Lo Stato d’Israele. Ciascuno di questi percorsi può essere utile agli studenti della scuola media superiore – destinatari prioritari del materiale presente sul sito -, per preparare ricerche o tesine.
Tobia Zevi si è occupato del coordinamento e Saul Meghnagi della direzione scientifica. Alla realizzazione del portale hanno, poi, collaborato Rav Roberto Della Rocca, Simone Bedarida, David Bidussa, Simonetta Della Seta, Anna Foa, Mario Toscano e Claudio Vercelli.
domenica 9 luglio 2017
Ricerca in Corso. Prigionia I Guerra Mondiale
E' attivata una ricerca in merito ai prigionieri austroungarici di lingua italiana in mano del regio Esercito
In particolare si chiede di:
1) reperire la lista dei nominativi dei prigionieri austro-ungarici presenti nel campo di Servigliano (FM) dall'agosto 1916 alla fine del 1918;
2) reperire la lista dei "soldati italiani redenti" di origine trentina (o friulana) presenti nel campo di Servigliano, per la "rieducazione" agli ideali nazionali, dall'inizio del 1919 al 1920;3) prendere visione di ogni documentazione utile per la piena ricostruzione della storia del campo di Servigliano nelle epoche in oggetto.In particolare uno degli obiettivi della ricerca consiste nel reperire i nominativi dei trentini (ma anche dei friulani, e/o giuliano-dalmati) "rieducati" nel 1919 all'interno del campo di Servigliano per risalire, attraverso i cognomi e nomi dei prigionieri e i borghi di nascita/origine, ad una mappatura delle valli e delle zone dalle quali provenivano, e ad una eventuale ricerca che permetta di rintracciare le loro famiglie in Trentino (e nelle altre regioni).La ricerca è particolarmente valida anche per ricostruire, oltre ad aspetti sconosciuti della prima guerra mondiale, la storia di molte regioni italiane e la storia della nostra italianità nel corso del tempo.
Paolo Giunta La Spada
Direttore Scientifico Casa della Memoria di Servigliano
338 571 571 6paologls@yahoo.it
In particolare si chiede di:
1) reperire la lista dei nominativi dei prigionieri austro-ungarici presenti nel campo di Servigliano (FM) dall'agosto 1916 alla fine del 1918;
2) reperire la lista dei "soldati italiani redenti" di origine trentina (o friulana) presenti nel campo di Servigliano, per la "rieducazione" agli ideali nazionali, dall'inizio del 1919 al 1920;3) prendere visione di ogni documentazione utile per la piena ricostruzione della storia del campo di Servigliano nelle epoche in oggetto.In particolare uno degli obiettivi della ricerca consiste nel reperire i nominativi dei trentini (ma anche dei friulani, e/o giuliano-dalmati) "rieducati" nel 1919 all'interno del campo di Servigliano per risalire, attraverso i cognomi e nomi dei prigionieri e i borghi di nascita/origine, ad una mappatura delle valli e delle zone dalle quali provenivano, e ad una eventuale ricerca che permetta di rintracciare le loro famiglie in Trentino (e nelle altre regioni).La ricerca è particolarmente valida anche per ricostruire, oltre ad aspetti sconosciuti della prima guerra mondiale, la storia di molte regioni italiane e la storia della nostra italianità nel corso del tempo.
Paolo Giunta La Spada
Direttore Scientifico Casa della Memoria di Servigliano
338 571 571 6paologls@yahoo.it
giovedì 25 maggio 2017
Casa della Memoria Servignano
Informazioni sulla Casa della Memoria di Servigliano:I
l campo di prigionia di Servigliano, con la ex-stazione ferroviaria, oggi Casa della Memoria, è un luogo dove si sono consumate le grandi tragedie italiane del Novecento:
- la prigionia dell'epoca della prima guerra mondiale;
- la prigionia della seconda guerra mondiale; - la persecuzione, l'internamento e la deportazione degli ebrei nei campi di sterminio; - la profuganza giuliano-dalmata.Il percorso storico del campo di Servigliano racchiude per intero l'identità del nostro territorio e svela vicende di prigionieri e ospiti che vanno scoperte, indagate, conosciute, al fine di mostrare alle giovani generazioni quali conseguenze terribili rechino le guerre di ogni genere, e quanto sia necessario sviluppare ogni giorno, e in ognuno di noi, il rifiuto delle ideologie totalitarie e di ogni razzismo.
L'Associazione storica Casa della Memoria di Servigliano, è da anni impegnata nella ricerca storica e nella formazione, a partire dalle vicende del campo di prigionia di Servigliano, sui temi della storia d'Italia del Novecento. E' in contatto con università, enti culturali e istituti storici in Europa che lavorano sul tema della ricostruzione della memoria e dell'educazione alla pace. Collabora con Escape Lines Memorial Society (ELMS), il Monte San Martino Trust, l'Eden Camp, nel Regno Unito; l'Associazione Rosa Bianca di Monaco di Baviera, in Germania; la Maison d’Izeu, in Alta Provenza, Francia. In Italia collabora con l'A.N.P.I., con il Museo della Resistenza di Roma, con l'Istituto Storico del Movimento di Liberazione di Fermo, con l'Istituto Storico del Movimento di Liberazione di Ascoli, con le aree museali dell'ex-campo di Fossoli e di Villa Emma, con il Laboratorio di Storia di Rovereto, con il Museo della Memoria di Assisi, con il Comando Esercito Marche, con scuole di tutta Italia e con numerose Università.
Collabora con l'Associazione Venezia Giulia e Dalmazia e con la Società di Studi Fiumani. Ha esperienza di organizzazione e gestione tecnico-didattica di numerose conferenze, seminari di studio, presentazione di libri e ricerche. Ha curato corsi di formazione sulla storia della Shoah e dei genocidi. Ha curato seminari di studio sul tema della prigionia nel Novecento. Produce libri, saggi, film, video, documentari sui temi della storia d'Italia nel Novecento e sulle vicende del campo di Servigliano e ha costituito un archivio storico di documenti e reperti.
Cura e guida ogni anno le visite al campo di docenti e scuole che provengono da tutta la regione Marche e, in alcuni casi, da tutta Italia. L'Associazione si avvale della ex-stazione ferroviaria, adiacente all'ex-campo di Servigliano, attrezzata come aula multimediale e corredata di numerosi schermi e monitor.
sabato 13 maggio 2017
venerdì 5 maggio 2017
"Il Mio magone albanese" di Aldo Terrusi. Poesia
Albania terra natia
(sul campo di Burrel)
Terra natia,
accogliente e crudele.
Terra di fede e d’onore.
Terra di eroi e di martiri,
di eccidi e vendette.
Terra conquistata, straziata, sconvolta, liberata.
Terra amara, custode matrigna delle spoglie di mio
padre!
Terra benedetta e maledetta,
rendimi le sue ossa, vittima innocente di una
dittatura infame!
Padre, hai condiviso con i tuoi amici Angjel e Petrit *,
per sette anni, le torture dei vigliacchi carnefici,
lo sgomento della morte,
la speranza del futuro,
sei stato sepolto in questo arido campo.
Io so che sei qui,
accanto al ciliegio, saturo di sangue dei morti,
che ti protegge nella pietosa ombra.
Il vento sibila tra gli arbusti incolti,
porta le voci confuse e i lamenti delle anime erranti.
Tu padre fammi sentire la tua voce,
indicami la via per riportarti in patria!
Nell’oblio mortale, un grido di dolore ed una lacrima,
un pensiero per Aurelia ed Aldo
sono stati l’ultimo atto della tua vita terrena.
Un grido che ora esplode in me,
accompagnato da un pianto infinito:
perché, perché?
Perché il Dio degli uomini permette che uno di essi
sia padrone di
vita e di morte sugli altri?
Burrel, marzo 1993
Aldo
Renato Terrusi
* Angjel Kokoshi, Petrit Velai
compagni di cella a
Burrel
mercoledì 26 aprile 2017
All'indomani del 25 aprile 2017
Se coloro
che sono stati nei campi di concentramento nazisti
avessero immaginato che 72 anni dopo
in Italia
si fosse svolta una giornata come quella di ieri,
quale sarebbe stato il loro comportamento?
Sono proprio valsi tutti i sacrifici sopportati per dei posteri di tal fatta?
Al rientro in Italia perchè non si è svolto un processo, come quello di Norimberga in Germania e quello di Tokio in Giappone, per chiamare alla sbarra a rispondere delle loro decisioni chi fu causa di tanti sacrifici?
Conversando con un Internato, 26 aprile 2017
Massimo Coltrinari
mercoledì 19 aprile 2017
.“Wannsee”. La soluzione finale del popolo ebraico
Continuando
la nostra trattazione partita dalla passione per l’occultismo dei gerarchi
nazisti, andiamo ad analizzare alcuni legami tra questa e le soluzioni pratiche
adottate dagli stessi, in particolar modo Hitler, Himmler e Heydrich. La
maggior parte delle riunioni programmatiche dei capi nazisti, infatti,
avvenivano seguendo un rituale settario, come si evince dai diari pervenutici,
soprattutto per l’argomento che andiamo a trattare.
È
interessante notare come la “soluzione finale del popolo ebraico” fosse stata
“varata” durante la famosa riunione del 20 gennaio 1942, in una palazzina della
periferia di Berlino, e di come la decisione concludesse il progetto elaborato
piano piano di passare dalla deportazione ebraica lontano dallo spazio vitale
tedesco, all’isola del Madagascar.
Essendo
tutto questo evidentemente troppo dispendioso, i gerarchi nazisti furono
“costretti” a pensare ad una soluzione più pratica e quindi allo sterminio.
Conosciamo
i dettagli dell’operazione da un personaggio molto preciso che ha fatto stilare
un dettagliato diario degli eventi, Reinhard Heydrich. Abilissimo manager,
aveva saputo fondare i servizi segreti delle SS nel 1931, aveva assunto la
direzione della polizia politica e aveva messo a punto una sorta di Ministero
del terrore tra il 1936 e il 1937, tramutato nel 1939 nel Reichssicherheitshauptamt o Ufficio Centrale per la Sicurezza del
Reich.
Fu,
dunque, uno dei principali artefici della gestione pratica della politica anti
ebraica del Terzo Reich, fino alla sua uccisione a Praga, per mano di due
partigiani cecoslovacchi, nel 1942. Eppure, la descrizione della riunione che
ha portato alla decisione finale, scritta per ordine di Heydrich da Adolf
Eichmann, non convince pienamente, se si pensa che alla data del gennaio 1942 le
operazioni delle Waffen SS e degli Einsatzgruppen avevano già comportato il
massacro di centinaia di migliaia di ebrei, mentre il centro di sterminio di
Chelmno era già in funzione e si stava costruendo quello di Belzec. La riunione
di Wannsee doveva convincere tutti i gerarchi nazisti della necessità di una
soluzione finale già avviata da Hitler da mesi, eppure tanti aspetti della
questione non sono stati trascritti nel resoconto di Eichmann per rispettare il
segreto di Stato. Allo stesso tempo, ci si chiede perché, se le decisioni di
Hitler non si discutevano, c’era bisogno di indire riunioni di convincimento,
mentre lo stesso Heydrich voleva fare rivedere le leggi di Norimberga al fine
di includere nella soluzione finale anche chi aveva soltanto uno dei genitori o
dei nonni ebrei.
Hitler
fu profeta, come lui stesso più volte si definirà, quando, in un discorso del
30 gennaio 1939, a celebrazione del sesto anniversario della salita al potere,
ipotizzò una guerra dovuta alla consorteria ebraica, quel nemico che agitava
davanti agli occhi dei suoi ascoltatori dal 1919.
Gli
ebrei, come abbiamo letto nell’articolo precedente, erano diventati il vero
centro dell’attenzione hitleriana e per essi i fiumi di pagine e di parole furono
molti, a indicare tre tappe fondamentali della politica nazista. La
proclamazione dell’intenzione di cancellare gli ebrei dallo spazio vitale
germanico, il periodo necessario a iniziare il processo e ad elaborarne le fasi
di sviluppo e, infine, la soluzione finale del popolo ebraico al quale per
certi versi i nazisti finsero di essere stati costretti ad arrivare.
Eppure,
pare che quasi nessuno avesse preso sul serio le parole del dittatore. Disse
egli stesso: “Al momento della conquista del potere, soprattutto è stato il
popolo ebreo che ha riso delle mie profezie, quando annunciavo che avrei
assunto il comando dello Stato, e dunque del popolo in Germania, e che allora
avrei risolto il problema ebraico”.
Nemmeno
le potenze mondiali avevano tenuto conto delle sue intenzioni: alla conferenza
di Evian del luglio 1938, indetta per raggiungere un’intesa sull’accoglienza
degli ebrei espulsi dal Reich, i Paesi occidentali compresi gli Stati Uniti (dove
solo il dieci per cento dei trecentomila ebrei richiedenti asilo avrebbe
trovato accoglienza alla fine dello stesso anno), non erano pronti a larga
generosità e, nel novembre dello stesso anno, meno della metà degli ebrei
tedeschi e austriaci aveva lasciato il territorio tedesco. Tanto da fare dire
ad Hitler: “è uno spettacolo assolutamente vergognoso vedere che le democrazie,
da un lato, sbavano di pietà per il povero popolo ebreo e, dall’altro, si fanno
di ghiaccio quando si tratta di compiere il dovere che a loro evidentemente
spetta, cioè aiutare quello stesso popolo”.
In
ogni caso, colpa degli ebrei era tutto quanto accaduto dalla fine della prima
guerra mondiale, dalla perdita coloniale, all’inflazione, alla miseria tornata
dopo la crisi economica americana, fino alle soluzioni dovute e da loro stessi
sempre causate (sempre secondo l’ottica nazista), come la Notte dei Cristalli
del novembre 1938.
La
situazione intorno a quella terribile notte, è da ricondurre alla volontà di
ogni accolito di Hitler di dimostrargli il proprio zelo. Il 26 ottobre Himmler
aveva ordinato di arrestare tutti gli ebrei di nazionalità polacca e di
ricacciarli in Polonia prima del 29 dello stesso mese. Contemporaneamente, un
decreto polacco cercava di mettere un freno a tutti gli ebrei che chiedevano di
entrare in Polonia per sfuggire alla persecuzione tedesca. Molti ebrei vennero
così fermati alla frontiera polacca. Un uomo, i cui genitori avevano cercato
rifugio in Polonia, ma erano stati ricacciati in Germania, sparò ad un
diplomatico dell’ambasciata tedesca a Parigi. Questo fu il pretesto atteso per
ribadire che era in atto un’ennesima cospirazione ebraica ai danni dei tedeschi
e per offrire a Himmler la possibilità di iniziare quella politica di
antisemitismo lontana dall’emotività, come chiedeva Hitler stesso, secondo la
quale i pogrom non bastavano più e non erano adatti al popolo tedesco.
Bisognava agire in modo organizzato, senza dare spazio all’emozione momentanea.
Così l’8 novembre vennero riunite le squadre delle SS alle quali Himmler
annunciò che la questione ebraica avrebbe acquisito sempre più importanza negli
anni a venire, mentre il 9 venne annunciata la morte del funzionario tedesco
dell’attentato parigino. Hitler diede il via libera a Goebbels per agire,
mentre pronunciava un discorso nel quale si dissociava dalla punizione di
partito degli ebrei colpevoli dell’attentato, ma non avrebbe impedito al popolo
tedesco di vendicare la morte del proprio compatriota.
Himmler
rimase stupefatto del fatto che Hitler appoggiasse il vero e proprio pogrom che
ne scaturì, senza che ci fosse intervento delle SS, proprio perché in quel modo
il partito sarebbe rimasto neutro nei confronti di un’azione attuata di fatto
dal capo della propaganda. La Gestapo doveva arrestare tra le venti e le
trentamila persone ebree e vegliare sulla rabbia dei cittadini tedeschi che,
finalmente, avrebbero smesso di applaudire Hitler come colui che aveva salvato
la pace. Non doveva esserci pace. Soprattutto contro gli ebrei. La Notte dei
Cristalli permise, inoltre, di affidare alle SS, la nuova forma di stato che si
andava organizzando, la gestione razionale della questione ebraica.
Proprio
il 9 novembre 1938, Hitler aveva espresso a Göring l’intenzione di
riposizionare gli ebrei in Madagascar, e quell’idea doveva diventare un accordo
con le potenze mondiali comodo agli ebrei stessi, perché poteva diventare per
loro merce di scambio per ottenere i salvacondotti. Nel frattempo, gli ebrei
continuavano ad essere il nemico, non soltanto della Germania, ma di tutti i
popoli, assieme ai loro alleati, spesso ebrei anch’essi, bolscevichi.
Nemici
da combattere e annientare, nell’ipotesi non tanto lontana di una guerra. Se,
allora, le potenze mondiali non avessero aiutato la Germania hitleriana a
risolvere la questione ebraica, Hitler ci avrebbe pensato in Europa, in modo da
spazzarli via inesorabilmente. Le intenzioni erano chiare, dunque, mentre
soprattutto Francia e Gran Bretagna speravano che non sarebbero mai state messe
in atto. Un prendere tempo che si rivelerà fatale. All’interno dei Reich
cominciò ad essere praticata l’Operazione Eutanasia già dall’autunno 1939,
utilizzando soprattutto lo schedario messo a punto da Heydrich, fissando al 20%
le eliminazioni dei soggetti “indesiderati”.
Era
evidente che, anche se l’operazione di spostamento degli ebrei fuori dallo
spazio vitale tedesco fosse riuscita, rimanevano gli ebrei nel resto dei
territori europei. Con l’inizio della guerra data dall’invasione della Polonia
del primo settembre 1939, divenne poi evidente ai tedeschi, anche ai gerarchi
nazisti meno propensi a pensare di eliminare sistematicamente interi gruppi di
persone, che il numero di ebrei che si sarebbe dovuto gestire con
l’appropriarsi di buona parte della Polonia, sarebbe stato immensamente alto.
Fu così sempre più chiaro che si doveva trovare una soluzione definitiva della
questione ebraica in Europa.
Se
Hitler non aveva pensato di aggredire immediatamente gli ebrei europei con i
propri gruppi d’assalto, era soltanto per evitare di fare alimentare una
propaganda antitedesca internazionale che avrebbe soltanto nuociuto alla
Germania. Infatti, Himmler gli sottoponeva ogni decisione riguardante le
persecuzioni, proprio per evitare ripercussioni internazionali. Allo stesso
tempo, Hitler era consapevole che non tutti erano davvero pronti ad accettare
la necessaria soluzione eliminatoria definitiva degli ebrei, pertanto era
opportuno essere cauti anche con la truppa e con tutti i reparti dell’esercito,
in modo che arrivassero alla convinzione della giustezza delle decisioni e che
fossero pronti a metterle in atto. Spesso, infatti, i nazisti venivano
paragonati ai bolscevichi in quanto ad azioni violente, repressive e
sanguinose, tanto che in discorsi del 1940, Himmler e Heydrich parleranno dei
metodi nazisti come estranei alla metodologia bolscevica. Bisognava adottare
metodi più “umani” di eliminazione delle sole elite, come infatti avvenne nelle
prime settimane di settembre, quando in Polonia le squadre tedesche eliminarono
circa settantamila persone, delle quali almeno ventimila delle classi
superiori. Tuttavia, il metodo tedesco di selezionare per razza e deportare lo “scarto”
era di gran lunga preferibile, come aveva infatti proclamato Hitler, così la
selezione razziale prese avvio dall’autunno 1939. Dal 27 settembre di
quell’anno, Heydrich raccomandò che le città vedessero la deportazione degli
ebrei, che dovevano essere al più presto incamminati verso la Polonia assieme
ai circa trentamila zingari presenti nel Reich. Per farlo dovevano essere
utilizzati vagoni ferroviari per trasporto merci. Entro un anno doveva essere
portato a termine il progetto di trasformare le vecchie provincie germanofone
in veri distretti tedeschi, mentre chi non era di lingua tedesca doveva
confluire nel distretto per la popolazione non tedesca che aveva come capitale
Cracovia. Il progetto dovette essere modificato nel giro di pochissime
settimane perché, mentre il territorio di deportazione si restringeva, il
numero degli ebrei da deportare era triplicato in sole tre settimane. E i
soldati si opponevano alla creazione di una riserva vicino a Cracovia, su
modello delle riserve degli indiani d’America. Allo stesso tempo, lo
spostamento della popolazione doveva garantire che, nell’imminenza della guerra
contro l’URSS, alcune popolazioni tedesche non rimanessero intrappolate e
ostaggio del nemico. Insomma, lo spazio diventava sempre più esiguo e le
persone che “davano fastidio” sempre di più, quindi i responsabili nazisti
locali erano sempre più impazienti di sbarazzarsi di tutta quella gente. Il 10
ottobre 1939 fu necessario tranquillizzare il commissario del Reich a Vienna
che non vedeva l’ora di fare partire gli ottantamila ebrei che ancora
risiedevano in Austria, ad esempio. La programmazione delle deportazioni
seguiva un programma ferreo che doveva essere rispettato a qualsiasi costo,
malgrado le proteste che si levavano continuamente per varie motivazioni,
comprese quelle di ordine organizzativo pratico.
I
gerarchi nazisti erano consapevoli che i loro progetti e il loro programma
spesso erano fallimentari, come si può leggere in alcuni diari nazisti scritti
a seguito di riunioni notturne che non mancavano di un certo rituale settario,
anche se dalla parte delle vittime tutto sembrava organizzato alla perfezione.
La deportazione di circa un milione di ebrei era davvero problematica e
necessitava di continui aggiustamenti dei piani d’azione. Soprattutto se, in
tutto questo, Hitler si rifiutava di agire e di prendere decisioni, senza le
quali era impossibile procedere con l’attuazione pratica. Negli ultimi mesi del
1939 e nei primi mesi del 1940, allora, molti governatori locali si
“arrangiarono” cercando di provocare la morte degli ebrei, oppure facendo loro
sparare, in modo da eliminarli dalle zone tedesche ma, soprattutto, da
togliersi il problema della loro gestione sempre più problematica. Nella
primavera del 1940, Hitler si complimentò con i suoi perché l’attuazione di una
serie di ordini aveva fatto sì che in Polonia non si stesse costituendo un
sentimento polacco, sentimento nazionale che sarebbe stato molto pericoloso e
difficile da gestire, possibile causa di rivolte.
La
violenta repressione contro gli ebrei andava di pari passo con le conquiste
belliche: già prima della possente avanzata tedesca della primavera 1940, c’era
stato un aumento negli eccidi, per preparare il terreno alla gestione di un
numero sempre maggiore di “nemici” ebrei. Il 13 maggio 1940, un decreto di
Hitler vietava di punire, salvo in rari casi, la violenza dei militari contro i
civili. Nel marzo 1941, Himmler ordinò l’apertura di un secondo campo ad
Auschwitz, accanto a Birkenau, ma ancora non era un campo di sterminio: gli
ebrei erano necessari come forza lavoro; ben presto vi ci sarebbero stati
trasferiti anche migliaia di sovietici. Con l’Operazione Barbarossa, infatti,
le cose si complicarono ulteriormente per la gestione non solo degli ebrei da
deportare, quanto anche dei bolscevichi che dovevano essere eliminati. La lotta
continua contro il tempo che sembrava essere stata ingaggiata dai gerarchi
nazisti, era soprattutto incentrata ad impedire l’avanzata del comunismo
perché, secondo Hitler, proprio il tempo avrebbe giocato a suo favore. Nel
pieno svolgimento della seconda guerra mondiale che, rispettando le profezie
del Führer, era stata scatenata nuovamente dalla consorteria ebraica ai danni
della Germania, la parte profetica che prevedeva l’annientamento degli ebrei
andava mantenuta, come sembrava infatti, così come si doveva non dare requie
all’annientamento comunista bolscevico.
Già
nell’estate del 1941, Eichmann parla della preparazione dell’imminente
soluzione finale e dal settembre, infatti, la situazione degli ebrei europei va
peggiorando a seguito della decisione di Hitler di deportarli dai territori del
Reich all’Est europeo.
Dirà
Himmler: “Il Führer desidera che, al più presto, il Vecchio Reich e il
Protettorato siano liberati dai loro ebrei, procedendo da ovest verso est”. Era
sua intenzione alloggiare entro l’inverno sessantamila ebrei nel ghetto di Lodz
perché gli avevano riferito che c’era ancora posto. Sempre secondo Himmler, la
deportazione verso l’Unione Sovietica, che sarebbe stata il coronamento della
deportazione generale, doveva iniziare nella primavera del 1942. Heyndrich
precisò il programma, suggerendo di mandare gli ebrei nei campi di
concentramento di Stalin perché erano stati costruiti da ebrei, come suggeriva
Goebbels, pertanto era da ritenersi assolutamente “naturale” che venissero
“popolati da ebrei”.
Gli
storici Jäckel e Burrin hanno affermato praticamente entrambi che il lungo
dibattimento sulla “soluzione finale” dal punto di vista per lo meno teorico,
dovesse avere avuto luogo durante i lunghi momenti trascorsi insieme tra
Hitler, Himmler e Heydrich tra il 21 e il 24 settembre 1941.
A
seguito delle decisioni prese, tra il 15 ottobre e il 5 novembre 1941 furono
organizzati 24 trasporti verso Lodz, comprendenti diecimila vittime tedesche,
cinquemila dal protettorato Boemia-Moravia e cinquemila da Vienna; vennero
stipati nel ghetto in attesa di essere inviati più ad Est. Secondo Heydrich, i
deportati avrebbero dovuto essere cinquantamila entro dicembre. Numeri che non
vennero rispettati per mancanza di convogli di trasporto, anche se i dati e i
numeri delle deportazioni variano da zona a zona.
Allo
stesso tempo, dalle zone di deportazione arrivavano rapporti che
sottolineavano, ovviamente dal punto di vista nazista, alcuni problemi
organizzativi. Non essendo riusciti ad impossessarsi delle risorse alimentari
sovietiche, i tedeschi vedevano eccessive pressioni sulle proprie riserve di
provviste, pertanto era un problema pensare di cibare tutti quegli ebrei che
venivano inviati ad Est. Le truppe cominciavano a dare segni di nervosismo, di
insonnia e allucinazioni dopo migliaia di esecuzioni di persone, operate in
vario modo, pertanto era “necessario” pensare ad altre soluzioni.
La
tecnica della gasatura era già stata sperimentata, ad esempio, sugli alienati
mentali e gli handicappati, circa settantamila persone, nella stragrande
maggioranza tedeschi, tra il 1939 e il 1941, in quella che venne nominata
operazione T4. Si trattava, dunque, di applicare le tecniche di eutanasia
all’eliminazione degli ebrei.
L’operazione
avveniva con grande riservatezza, per impedire che ci fosse la ribellione e la
protesta dei cristiani praticanti che di certo non avrebbero accettato
l’eliminazione programmata dei “malati incurabili” o degli “indesiderati”.
Comunque, cominciò a diffondersi il principio della camera a gas, sperimentata
in presenza di Himmler nel 1939, contemporaneamente alla sperimentazione dei
camion a gas. Durante l’operazione T4, vennero eliminati anche degli ebrei non
appartenenti alle categorie delle quote di eliminazione regionale per
eutanasia. Ancora, però, non si procedeva secondo un piano programmatico e
sistematico, quello che ricordiamo come Shoa.
Nello
stesso periodo, si utilizzavano le paludi del Pripjet per sbarazzarsi degli
ebrei, mentre Hitler cominciava a pensare ad un’altra terra inospitale dove
spedire gli ebrei, come la Siberia o il Circolo Polare. Hitler sosteneva che
“d’altra parte non è male che l’opinione pubblica ci attribuisca l’intenzione
di sterminare gli ebrei. Il terrore è una cosa salutare”.
Si
passò tra il 25 ottobre 1941 e il 20 gennaio 1942, data della conferenza di
Wannsee, all’organizzazione da parte di Himmler e Heydrich, di un genocidio non
più lento e “alla spicciolata”, ad un progetto di eliminazione su vasta scala.
Heydrich
aveva conteggiato 11 milioni di ebrei in Europa che non andavano più deportati
e lasciati morire, ma eliminati direttamente. Hitler, direttamente o
indirettamente, appoggiava il progetto, affermando ad esempio, come fece il 5
novembre in un discorso privato con Himmler, che non avrebbe potuto oltre
tollerare che la sana gioventù hitleriana morisse al fronte, permettendo di
vivere alla popolazione criminale, cioè a quegli ebrei che avevano rubato la
vittoria alla Germania nel 1918.
Le
riunioni di Hitler con i suoi più stretti e fidati collaboratori avvenivano
spesso di notte, iniziando a cavallo della mezzanotte, seguendo una sorta di
rituale che ci fa avere dichiarazioni e affermazioni del Führer, ad esempio,
nella notte tra il 9 e il 10 agosto 1941, o nella notte tra il 19 e il 20 dello
stesso mese: “Se mi si rimprovera d’aver sacrificato cento o duecentomila
uomini a causa della guerra, posso rispondere che, grazie alla mia attività, la
nazione tedesca ha guadagnato fino a oggi più di due milioni e cinquecentomila
esseri umani”, intendendo l’inserimento dei tedeschi etnici.
Dai
diari degli accoliti che partecipavano alle riunioni, si evince il clima spesso
etereo che si respirava alla presenza del Führer il quale curava nei dettagli
posti assegnati ai presenti, parole, intenzioni, molte delle quali poi, come
abbiamo scritto, venivano interpretate dai suoi gerarchi alla luce
dell’emulazione che volevano mettere in atto del loro capo, oppure della
volontà di compiacerlo, anche quando egli non pronunciava discorsi consoni a
quanto essi avevano in mente.
In
ogni caso, è bene sottolineare come ogni organizzazione, compresa la riunione
del 20 gennaio 1942, preparata con l’invio degli inviti da parte di Heydrich
dal 29 novembre 1941, dovesse servire a convincere il personale dello Stato che
il genocidio che si andava decidendo fosse una decisione di Hitler presa
durante un piano precedente, come si usava spesso retrodatare decisioni per
fini politico-militari. E che la direzione del progetto dovesse essere
interamente nelle mani delle SS, autorità suprema dell’operazione.
A
seguito della conferenza di Wannsee, il 25 gennaio 1942 Hitler dirà che:
“L’ebreo deve sloggiare dall’Europa” perché con la sua presenza, ogni intesa
tra europei sarebbe stata impossibile essendo “L’ebreo che blocca tutto”.
Sarà
la morte di Heydrich a scatenare l’accelerazione dell’operazione decisa a
Wannsee; la sera del funerale di Heydrich, nel giugno 1942, infatti, Himmler
incaricò di sterminare gli ebrei sotto il dominio diretto del Reich entro un
anno. Iniziò l’operazione Reinhard soprattutto nei centri di Belzec, Sobibor e
Treblinka dove morirono un milione e settecentocinquantamila persone entro
l’ottobre 1943.
La
morte di Heydrich non aveva fermato il progetto nazista, perché ogni gerarca
agiva per prestigio e per decisione personale, spesso mettendo in atto rituali
che non erano di pura emulazione, pertanto molti nomi volevano emergere agli
occhi di Hitler e dell’opinione pubblica futura per la loro azione di sterminio
programmato, continuandolo com’era stato ipotizzato, nominando, ad esempio,
Auschwitz il maggior campo di sterminio in Europa.
Alla
fine, per credenze, politica, ossessioni, i nazisti avevano messo in atto la
più mostruosa organizzazione possibile in Europa: eliminare, o cercare di
eliminare, la coscienza morale dell’Europa stessa e dell’Occidente, eliminando
gli ebrei.
Comm. Alessia
Biasiolo
Vice Presidente Federazione di Bresca
Istituto del Nastro Azzurro
Bibliografia essenziale
Edouard
Husson: “Endlösung. Soluzione finale”, San Paolo, Cinisello Balsamo, Milano,
2007
Arno
Mayer: “Soluzione finale: lo sterminio degli ebrei nella storia europea”,
Mondadori, Milano, 1990
Hans
Mommsen: “La soluzione finale. Come s’è giunti allo sterminio degli ebrei”, il
Mulino, Bologna, 2005
Mark
Roseman: “Il protocollo di Wannsee. La soluzione
finale”, Corbaccio, Milano, 2002
mercoledì 29 marzo 2017
Da Duce a Prigioniero
di
Alessa Biasiolo*
Sbarcati
gli anglo-americani in Sicilia, la scelta alleata fu quella di uccidere
Mussolini, in modo che, fuori gioco il Duce, gli italiani si sarebbero resi
conto che il fascismo non poteva continuare ad essere la scelta politica giusta
per il Paese. Le missive segrete o segretissime correvano da un comando all’altro
e, mentre gli Americani erano convinti di continuare a bombardare Roma allo
scopo di arrivare non solo a piegare la resistenza dei nervi degli Italiani, ma
anche a radere al suolo, possibilmente, Palazzo Venezia e Villa Torlonia,
Churchill era perplesso sulla necessità di una soluzione così drastica. Poco
importava ai comandanti come Harris di dover distruggere monumenti storici
unici al mondo, perché in quel momento risultava imperativo soltanto piegare la
dittatura italiana. Churchill si consultò con il ministro degli Esteri Anthony
Eden che, il 14 luglio 1943, gli rispose di non essere d’accordo
sull’operazione denominata “Dux”, in quanto non era sicuro che Mussolini sarebbe
stato nei suoi due siti (Palazzo Venezia e la Villa), non era certo che il
bombardamento ne avrebbe causato la morte e, in caso l’operazione non fosse
riuscita, si rischiava di tramutare la causa dei problemi in un idolo
ulteriore. Il rischio, inoltre, di causare pesanti danni al patrimonio storico
di Roma senza successi militari e politici, oltre all’estrema sofferenza
inferta alla popolazione civile, avrebbe tramutato i “liberatori” in nemici
assoluti del popolo italiano. Questo era il clima dei nemici, mentre Mussolini
e Hitler si incontravano a Feltre e, come abbiamo letto, i bombardamenti su
Roma non smettevano. Infatti, se si fermavano a terra gli aerei inglesi,
recuperavano terreno quelli americani, che a loro volta organizzarono
bombardamenti sulla Città Eterna per il 19 luglio, pur senza l’intento di
colpire Mussolini, fatto comunque inutile, dato che era a Feltre per l’incontro
con l’alleato tedesco. I risultati furono, invece, di distruggere numerosi
siti, in modo particolare intorno a Ciampino, mentre i quartieri civili
distrutti furono molti, inutilmente. Gli anglo-americani, inoltre, avevano
abbandonato l’operazione “Brimstone” sulla Sardegna, per concentrarsi
nell’avanzata verso Napoli e Salerno. Alternativamente, inglesi e americani organizzavano
incursioni aeree che sfiancavano la resistenza italiana, sia sul piano militare
che psicologico.
Rientrato
a Roma, Mussolini si trovò a dover affrontare un clima pessimo. Il generale Vittorio
Ambrosio si era già incontrato con il Re prima dell’incontro di Feltre, per
discutere della destituzione di Mussolini. Ambrosio era convinto che, a fronte
dell’iniziativa di sganciarsi dall’alleato tedesco, sostituendo all’occorrenza
Mussolini con Badoglio o Caviglia, sarebbe riuscito a convincere il Duce a
dichiarare una pace separata con gli aglo-americani, ma dopo l’incontro di
Feltre, rivelatosi infruttuoso, era evidente che l’unica soluzione possibile
era destituire Mussolini. Nel frattempo, un’iniziativa simile venne presa dal
Partito Fascista, nella persona dei componenti del Gran Consiglio del Fascismo.
Vittorio Ambrosio dal 20 luglio 1943 seppe che, essendo stato vano ai fini
delle mire reali l’incontro con Hitler, Vittorio Emanuele III voleva
sostituirlo con il Maresciallo Badoglio, ma non seppe rompere gli indugi fino
alla decisione del Gran Consiglio.
Il
20 luglio, Mussolini si recò a visitare le zone di Roma colpite dai
bombardamenti soprattutto americani del giorno prima. Al mattino verificò gli
esiti del raid aereo all’aeroporto del Littorio e all’Università, nel
pomeriggio all’aeroporto di Ciampino, dove non mancarono manifestazioni in suo
favore. Quindi dovette recarsi dal Re a riferirgli dei colloqui di Feltre con
l’alleato. Il clima non era dei migliori. Trovò il Re accigliato, nervoso, gli
disse che la situazione era tesa e: “Non può più a lungo durare”. La Sicilia
perduta, il morale delle truppe scaduto, tanto che gli avieri di Ciampino erano
fuggiti a Velletri durante l’attacco, sostenne: “I Tedeschi ci giocheranno un
colpo mancino”, ma del resto era stato chiesto loro di inviare truppe per
contenere l’avanzata nemica. Aggiunse: “L’attacco dell’altro giorno io l’ho
seguito da Villa Ada, sulla quale le ondate sono passate. Non credo che fossero
come si è detto quattrocento gli apparecchi incursori. Erano la metà. Volavano
in perfetta formazione”, ciò a dire che nessuno li aveva in qualsiasi modo
infastiditi, contrastati da terra. “La storia della ‘città santa’ è finita.
Bisogna porre il dilemma ai Tedeschi…”. Questo fu l’ultimo colloquio di lavoro
tra il Re e Mussolini, che si incontravano regolarmente due volte la settimana
dal novembre 1922 al Quirinale, il lunedì e il giovedì, Mussolini accompagnato
dal Sottosegretario alla Presidenza. Altri incontri avvenivano in altre
giornate, e in estate praticamente tutti i giorni, come quel mercoledì; il
rapporto tra i due era cordiale, ma non divenne mai amichevole. Vittorio
Emanuele III si era sempre dimostrato restio nelle scelte di guerra, tranne per
la dichiarazione del 1940, da come ne scrisse Mussolini. Quello stesso
mercoledì, a mezzogiorno, il segretario del partito Scorza portò a Mussolini
l’ordine del giorno del Gran Consiglio del Fascismo di Grandi. Il Duce lo lesse
e lo considerò inammissibile e vile. Scorza parlò a Mussolini di un “giallo”,
ma non fu ben chiaro. Nel pomeriggio, Mussolini ricevette Grandi che trattò
diversi argomenti, ma non affrontò quello dell’ordine del giorno.
L’indomani,
Scorza parlò ancora a Mussolini di giallo in corso, ma sempre senza
precisazioni, tanto che di nuovo il Duce pensò si trattasse di una delle solite
voci di cambio ai vertici; verso sera, Grandi ipotizzò di rinviare la riunione
del Gran Consiglio, come manovra ennesima e, forse, tentativo di crearsi un
valido alibi, ma Scorza non ebbe conferma del rinvio quando telefonò a
Mussolini. Questi sostenne che, ad inviti diramati e giorno fissato, si doveva
arrivare ad un chiarimento. E così fu.
La
riunione del Gran Consiglio ebbe luogo a Palazzo Venezia il 24 luglio, sabato,
alle ore 17, alla presenza di 28 membri, su ordine del giorno di Grandi che
recitava queste parole, dattiloscritte: “Il Gran Consiglio del Fascismo
riunendosi in questi giorni di supremo cimento, volge innanzi tutto il suo
pensiero agli eroici combattimenti d’ogni arma che, fianco a fianco con la
fiera gente di Sicilia in cui più alta risplende l’univoca fede del popolo
italiano, rinnovano le nobili tradizioni di strenuo valore e l’indomito spirito
di sacrificio della nostre gloriose Forze Armate.
Esaminata
la situazione interna e internazionale e la condotta politica e militare della
guerra:
proclama
il
dovere sacro per tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l’unità,
l’indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi
di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l’avvenire del
popolo italiano:
afferma
la
necessità dell’unione morale e materiale di tutti gli italiani in quest’ora
grave e decisiva per i destini della Nazione;
dichiara
che
a tale scopo è necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali,
attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle
Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi
statutarie e costituzionali;
invita
il
Governo a pregare la Maestà del re, verso il quale si rivolge fedele e
fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché Egli voglia per l’onore e per
la salvezza della Patria assumere con l’effettivo comando delle forze armate di
terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5° dello Statuto del Regno,
quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui
attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il
retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia”.
Seguono
la data e le firme dei partecipanti: Grandi, Presidente della Camera; Federzoni, Presidente dell'Accademia; De
Bono, quadrumviro; De Vecchi, quadrumviro; il genero di Mussolini Ciano, membro
a titolo personale; De Marsico, Ministro della Giustizia; Acerbo, Ministro
delle Finanze; Pareschi, Ministro dell'Agricoltura; Cianetti, Ministro per le
Corporazioni; Balella, della Confederazione dei Datori di Lavoro
dell'Industria; Gottardi, Confederazione dei Lavoratori dell'Industria;
Bignardi, Confederazione degli Agricoltori; De Stefani, Alfieri, Rossoni,
Bottai membri a titolo personale; Marinelli, ex-segretario amministrativo del
Partito fascista; Albini, Sottosegretario agli Interni; Bastianini,
Sottosegretario agli Esteri. Albini e Bastianini erano stati invitati, pur non
appartenendo al Gran Consiglio. Mentre Farinacci, membro a titolo personale non
firmò, ma si astenne anche di presentare il suo ordine del giorno in difesa del
regime. Non firmarono il documento Scorza, Segretario del Partito fascista;
Biggini, Ministro dell'Educazione; Polverelli, Ministro della Cultura Popolare;
Tringali Casanova, Presidente del Tribunale Speciale; Frattari, della
Confederazione dei Datori di Lavoro dell'Agricoltura; Buffarini, membro a titolo
personale; Galbiati, Comandante della Milizia. Si astenne il Presidente del
Senato Suardo. Anche l’ordine del giorno di Scorza, che voleva difendere
l’operato del regime, non venne preso in considerazione.
In realtà, il documento
riporta il principale ruolo italiano al Re, ma senza citare la cancellazione
del regime. Sembra che i membri del Gran Consiglio non si fossero resi conto
che, volendo deporre Mussolini come scelta per cercare di migliorare le sorti
dell’Italia, sarebbero stati strumento del Re che aveva già preso le sue
decisioni e che non aspettava fors’altro che il momento opportuno per attuarle.
Sembra che ognuno riponesse fiducia in ciò che doveva fare qualcun altro,
nell’intento forse di creare un triunvirato o di cercare il modo di salvare il
partito e l’Italia, sacrificando soltanto la posizione di Mussolini. Il quale
viene messo in minoranza dal Gran Consiglio per 19 voti a sfavore, 8 a favore e
1 astenuto. Sono quasi le tre di notte del 25 luglio. L’ordine del giorno
Grandi viene approvato, Mussolini deve rimettere il mandato al Re. Cianetti
cambiò idea di lì a poche ore, ma il risultato non cambiava lo stesso. Grandi
affidò al Ministro della Real Casa Pietro d’Acquarone, lo stesso portavoce tra
il re e il generale Ambrosio, il compito di informare il Re della decisione del
Gran Consiglio.
Cos’era
accaduto? Intanto, la riunione si doveva tenere come al solito alle 22, e
invece era stata debitamente anticipata, prevedendo che la discussione sarebbe
stata lunga. Negli intenti di Mussolini, doveva essere quasi una riunione
segreta per chiarirsi tra loro, invece tutti i membri del Gran Consiglio erano
puntuali, in uniforme, la classica sahariana nera. Non mancava nessuno. Il
discorso iniziò da Mussolini, che espose una serie di documenti.
Mussolini
dichiarò che la guerra era giunta ad una fase critica, dato che l’ipotesi che
sembrava assurda di invasione del territorio metropolitano si era avverata. La
vera guerra era iniziata dalla perdita di Pantelleria.
“In
una situazione come questa tutte le correnti ufficiali, non ufficiali, palesi e
sotterranee ostili al Regime fanno massa contro di noi e hanno già provocato
sintomi di demoralizzazione nelle stesse file del Fascismo, specialmente tra
gli ‘imborghesiti’, cioè fra coloro che vedono in pericolo le loro personali
posizioni”.
E
aggiunse: “In questo momento io sono certamente l’uomo più detestato, anzi
odiato in Italia, il che è perfettamente logico, da parte della masse ignare,
sofferenti, sinistrate, denutrite, sottoposte alla terribile usura fisica e
morale dei bombardamenti ‘liberatori’ e dalle suggestioni della propaganda
nemica”.
Egli
era il responsabile della guerra ed era anche stato delegato al comando delle
Forze Armate dal Re, ma su idea di Badoglio. A quel punto, Mussolini ricordò le
varie fasi della decisione del Re, la volontà di Badoglio di avere un ruolo di
primo piano nel conflitto, e molti altri dettagli della sua attività politica
ultima, mettendo infine in chiaro che l’ordine del giorno Grandi sarebbe stato
un pericoloso passo per l’esistenza del Fascismo stesso. Grandi prese la parola
con notevole violenza, come volesse sfogarsi da tempo per ruoli interni. La
discussione divenne accesa, fino a quando, verso mezzanotte, il Segretario
Scorza propose il rinvio, che venne negato, e anche Mussolini era di
quell’avviso. Dopo una pausa di un quarto d’ora, necessaria alla lettura dei
telegrammi dalle zone operative, la seduta riprese, continuando la discussione,
che finì con le parole di Mussolini stesso, alla lettura dell’esito della
votazione dell’ordine del giorno Grandi da parte di Scorza: “Voi avete
provocato la crisi del regime. La seduta è tolta!”. Dispensò anche i presenti
dal saluto al Duce che Scorza voleva chiamare e si ritirò nel suo studio, dove
venne raggiunto dai membri del Gran Consiglio che avevano votato in suo favore.
Mussolini lasciò Palazzo Venezia verso le 3, accompagnato a Villa Torlonia da
Scorza stesso.
La
mattina della domenica, 25 luglio, Mussolini si recò come al solito al lavoro a
Palazzo Venezia, dove arrivò per le 9. Alle 11 gli portarono il mattinale con
la brutta notizia del bombardamento di Bologna. Arrivò notizia del ripensamento
di Cianetti, mentre Grandi era irreperibile e Albini venne interrogato
direttamente dal Duce circa la decisione di votargli contro, fatto non
concesso, dato che non era membro del Gran Consiglio, e Albini, tra le scuse e
il rossore, ammise solo l’ipotetico errore, ma anche l’assoluta fedeltà. In
realtà elemosinerà un posto a Badoglio nel giro di poco tempo.
Mussolini
incaricò quindi il suo segretario particolare di telefonare al generale Puntoni
per chiedere quando il Re sarebbe stato disposto a riceverlo, in abiti civili.
L’appuntamento venne fissato a Villa Ada per le 17 dello stesso giorno.
Alle
13, incontrò l’ambasciatore giapponese Hidaka, al quale riferì l’incontro di
Feltre, quindi si recò in visita al quartiere Tiburtino, particolarmente
colpito dal bombardamento del 19 luglio. Rientrò a Villa Torlonia per le 15,
dove, alle 16.50, giunse il segretario particolare che lo accompagnò a Villa
Ada.
Il
suo animo era tranquillo, pensava di riferire sui fatti della notte e di
rimettere il comando delle Forze Armate, se il Re lo avesse richiesto, o forse
anche lo stesso, come pensava di fare da tempo. Il Re lo aspettava sulla porta
della Villa, vestito da maresciallo; in giro un rinforzo di Carabinieri. Lo
fece accomodare in salotto, il volto teso, e gli disse: “Caro Duce, le cose non
vanno più. L’Italia è in tocchi. L’esercito è moralmente a terra. I soldati non
vogliono battersi. Gli alpini cantano una canzone nella quale dicono che non
vogliono più fare la guerra per conto di Mussolini”, e canticchiò dei versi
della canzone in dialetto piemontese. Aggiunse che a Mussolini non era rimasto
altro amico che lui stesso, con la rassicurazione che lo avrebbe fatto
proteggere. L’uomo della situazione, in quel momento, era il maresciallo
Badoglio che avrebbe cominciato a formare un Ministero di funzionari per
l’amministrazione e avrebbe continuato la guerra. Tutti si attendevano un
cambiamento, essendo venuti a conoscere della notte del Gran Consiglio e si
sarebbe visto cosa sarebbe accaduto di lì a sei mesi. Mussolini mise davanti al
Re le sue perplessità sulla scelta politica e militare, che avrebbe significato
la sensazione di una vittoria per i nemici e per gli italiani l’idea che la
guerra stava finendo, ma il Re lo congedò, livido in volto. Erano le 17.20.
Mussolini, andando verso la sua automobile, venne avvicinato da un carabiniere
che gli comunicò la volontà del Re di proteggere la sua persona, e lo fece
salire su un’ambulanza. Si unirono il segretario De Cesare, un capitano, un
tenente, tre carabinieri e due agenti in borghese. Erano armati di mitra. Dopo
mezz’ora di tragitto, l’ambulanza si fermò ad una caserma dei carabinieri
circondata da sentinelle con fucili a baionetta innestata; dopo una sosta di
un’ora, venne portato alla caserma degli allievi carabinieri.
Ancora
convinto di essere sotto protezione, Mussolini ricevette la visita di alcuni
carabinieri che gli dimostravano simpatia, ma non toccò cibo. Di notte, arrivò
un messaggio di Badoglio che scriveva: “Il sottoscritto Capo del Governo tiene
a far sapere a V. E. che quanto è stato eseguito nei Vostri riguardi è
unicamente dovuto al Vostro personale interesse essendo giunte da più parti
precise segnalazioni di un serio complotto contro la Vostra Persona. Spiacente
di questo, tiene a farVi sapere che è pronto a dare ordini per il Vostro sicuro
accompagnamento, con i dovuti riguardi, nella località che vorrete indicare. Il
Capo del Governo: Maresciallo d’Italia Badoglio”.
Implicitamente,
si voleva rassicurare Mussolini che il regime continuava, dato che Badoglio ne
faceva parte, avendone anche ricoperto ruoli importanti, allo stesso tempo rassicurando
che la parola del Re veniva mantenuta.
All’una
di notte del 26 luglio, Mussolini rispose al Maresciallo, dopo averlo
ringraziato, che l’unica residenza di cui poteva disporre era la Rocca delle
Caminate, dove era disposto a trasferirsi anche immediatamente. Assicurava
anche, in nome della collaborazione avuta precedentemente, che non avrebbe
posto al lavoro di governo di Badoglio, alcuna difficoltà.
Aggiunse
che era contento della decisione presa di continuare la guerra con gli alleati
tedeschi, riconoscendo il grave ruolo che Badoglio aveva assunto per ordine e
in nome del Re “del quale durante 21 anni sono stato leale servitore e tale
rimango”. Al Re non mandò alcuna missiva.
Forse
ingenuamente, Mussolini credeva che la politica di Badoglio non sarebbe
cambiata, sia per quanto riguardava la politica interna, mantenendo il fascismo,
sia con gli alleati tedeschi contro gli anglo-americani. La partenza che
sembrava sempre imminente, tardò fino al 27 luglio, quando un carabiniere, dopo
le 20, comunicò all’oramai ex Duce che
dovevano partire.
Accompagnato
da alcuni ufficiali, Mussolini era sempre convinto di essere portato a Rocca
delle Caminate, invece, da uno spiraglio del finestrino dell’auto, vide che la
direzione non era verso la Flaminia, ma verso l’Appia. Soltanto all’imbocco
della strada per Albano chiese dove stessero andando.
La
risposta l’ebbe da colui che era stato comandato di accompagnarlo, il generale
Polito, diventato generale da ispettore di Polizia per equiparazione di grado.
Era una vecchia conoscenza, noto per avere arrestato a Campione Cesare Rossi e
aver sgominato la banda Pintor in Sardegna, e tanti altri aneddoti raccontò a
Benito durante il viaggio, che evidentemente aveva altra meta dall’immaginata.
Mussolini, infatti, era stato inviato all’isola di Ponza, passando da Gaeta e
dal Molo Ciano, quasi un’ironia della sorte. Dal molo, l’ammiraglio Maugeri
accompagnò l’illustre ospite alla corvetta “Persefone” che salpò all’alba.
* Comm.
Alessia Biasiolo, Vice Presidente della Federazione di Brescia dell'Istituto del Nastro Azzurro
mercoledì 22 marzo 2017
"Il Mio Magone albanese" di Aldo Terrusi. Una pseudo testimonianza
Un Commissario politico albanese, non
meglio identificato, fornisce la sua deposizione scritta al Consiglio del
Tribunale Militare di Valona accusando Giuseppe ed altri civili di vari
“misfatti” (App. 1).
Circolare
1 (App.1)
Riguardo ai movimenti di alcuni
italiani a Valona, la situazione si presenta nel modo seguente: a Valona si
trovano più di 20 individui e tra questi
si distinguono come i più pericolosi:
1,
D’Andrea, venditore di radio a Valona, 2, Belluzzi, ex Vice Console a Valona
con il grado di Tenente Colonnello, 3, Terrusi, Direttore della Banca Nazionale
a Valona, che ha consegnato il contante della banca ai tedeschi per non farlo
prendere all’Esercito di Liberazione Nazionale (1*). Molto pericoloso. 4, Sinopoli,
intermediario vicino al Clero Cattolico, 5, altri due Cattolici. Tutti loro
sono molto legati gli uni con gli altri, hanno promosso, tra gli italiani di
Valona, riunioni con obiettivi politici reazionari, 6, Monai e Verdi sono
pericolosi e subdoli, lavorano in incognito, 7, Orlandi, molto pericoloso e
manipolatore fa il doppio gioco, al momento aiuta l’Esercito di Liberazione
Nazionale in modo apparentemente trasparente, è uno di quelli che seguono
l’ideologia fascista. Per alcuni di loro è arrivato l’ordine, da parte del
Generale Bonomi (2*), di arrestarli
come criminali di guerra per i crimini che hanno commesso sulle spalle del
popolo italiano. Il motivo per cui non sono stati arrestati e sono stati lasciati liberi è stato per poter
aiutare Verdi, ex Capitano di SIMI, a propagandare il fascismo. Tutti coloro
sono alleati reazionari e molto dannosi per noi, altri italiani li accusano
degli stessi reati, un totale di 24
dichiarazioni che vengono allegate (3*).
Tra queste dichiarazioni alcune contengono i
misfatti nel distretto di Valona evidenziando gli abusi che sono stati
perpetuati. Gli italiani che hanno rilasciato questi rapporti sono i sotto
elencati: l’Ing. Delogu, l’impiegato bancario Chilovi, l’impiegata bancaria Marina Piceci (4*).
Tutti
e tre sono intellettuali e odiano gli imputati. Sono persone amanti della
libertà e chiedono con insistenza di prendere misure restrittive contro di
loro. Gli imputati sono reazionari e molto dannosi per la situazione odierna e
soprattutto nel distretto di Valona, questi devono essere arrestati e devono
essere trasferiti per un breve periodo in un altro luogo; l’allontanamento dal
distretto di Valona cambierebbe totalmente la situazione riattivando il popolo
italiano del Fronte Nazionale Comunista per la Liberazione.
Francesco
e Rosati Diego (infermieri), il Maggiore Granata Raffaele e il Capitano dei
Carabinieri Verdi (rappresentante dell’esercito), il Commissario Vasta Giuseppe
per l’assistenza tra gli italiani, si sono riuniti negli uffici del Capitano
Verdi e di Vasta, in accordo con Terrusi, Belluzzi e Giudice. Tutti loro hanno
fatto parte delle file fasciste con alti incarichi di responsabilità. Nessuno
di loro, tranne un amico e un partigiano, aveva un potere limitato o era un
operaio (5*).
Quel
Comitato si è riunito per fondare il Circolo Garibaldi (6*) (7*).
(1*) Come prova dell’odio di Giuseppe verso i
tedeschi esistono tre lettere autografe, private, indirizzate alla sorella
Chiara in Italia, già citate nel presente volume, che portano date anteriori
alla carcerazione, nelle quali è palese l’avversione di Giuseppe verso il
nazismo e l’occupazione tedesca dell’Albania. Ovviamente essendo Giuseppe,
Direttore di una Banca importante, la denuncia più ovvia ed infamante è quella
di aver consegnato spontaneamente dei soldi al nemico.
E’ evidente come, certe accuse,
miravano a distorcere e rovesciare la realtà dei fatti con ipotesi perverse
senza il supporto di alcuna documentazione.
Lettera ( a )
Valona
22 ottobre 1944… Siamo stati liberati da circa 10 giorni e i briganti tedeschi
sono andati via vergognosamente....
Lettera ( b )
Valona
27 novembre 1944… I vigliacchi tedeschi ne hanno combinate di tutti i colori e
commesso tutte le atrocità possibili: abbiamo passato giorni di incubo e di
terrore e anch’io sono stato sul punto di essere confinato…
Lettera ( c ) è inserita in originale
(App.17).
Valona
8 gennaio 1945…Dal giorno della liberazione di Valona da parte delle truppe
partigiane che hanno messo in fuga i briganti tedeschi (briganti nel senso
peggiore), voglio sperare che tutti ve la passiate in buona salute e che quanto
prima ci si possa riabbracciare…
(2*) Il riferimento è al “Protocollo
preliminare di intesa” concluso il 2 agosto 1920 tra Italia ed Albania che
stabiliva un’amnistia reciproca per reati di tipo militare. In particolare è
completamente falsa e fuorviante l’accusa del presuntuoso Commissario politico.
(3*) Le dichiarazioni allegate che
vedremo più avanti, non sono atti di accusa ma piuttosto di merito per
Giuseppe...tranne una evidentemente prezzolata!
(4*) Il rapporto del Commissario si
basa anche sulle informazioni fornite dell’Ing. Delogu, dell’impiegato bancario
Chilovi e dell’impiegata bancaria Marina Piceci, che sono tutte testimonianze
per “sentito dire”.
Non ha alcuna importanza chi siano i
“testimoni”, come agiscono, da che parte stanno, l’importante che denuncino.
(5*) Per l’informatore è importante
sostenere le accuse: sono intellettuali italiani, quindi fascisti, pertanto
sono “pericolosi e dannosi” a prescindere. Gli albanesi amici degli italiani, sono
collaborazionisti perciò meritano la stessa sorte.
Il fantomatico giustiziere parla di
Delogu, Chilovi e Piceci di “persone amanti della libertà” perché testimoni in
favore delle proprie tesi, contrapponendole al gruppo che lui aveva individuato
come “persone pericolose”.
Il poveretto non immagina nemmeno
quanto la sua gente soffrirà i 50 anni della utopistica e fanatica dittatura di
Enver “amante della libertà”, e quanti lutti colpiranno le famiglie albanesi!
Chilovi e Piceci confermano l’accusa
solo a voce, senza firmare le loro dichiarazioni che sono sostanzialmente
basate su ciò che hanno sentito. Essi indecisi e insicuri, privi di prove
concrete, inducono il Commissario a chiedere al tribunale l’allontanamento del
Direttore Terrusi e del Vice Direttore Belluzzi dalla Banca di Valona “per
motivi di ordine pubblico” e “per qualche tempo”.
Tale richiesta è
evidentemente legata ai difficili rapporti personali tra loro e la direzione
della Banca e non ha nulla a che fare con le questioni politiche e militari
albanesi.
(6*) L’informatore inoltre indica il
Circolo Garibaldi quale covo nel quale si riuniscono persone “per l’assistenza
agli italiani” da cui deduce il reclutamento di soldati italiani. Inoltre,
afferma, che gli atti di pietà intrapresi dal Circolo, sono “dannosi per la
comunità”, e che i soci, “fanno riunioni con obiettivi politici reazionari”.
In seguito alla furibonda e bestiale
ritorsione nazista dopo il famigerato 8 settembre 1943, una grande gara di solidarietà ebbe luogo tra gli abitanti
di Valona: grazie a essa molti militari italiani portarono a casa la pelle,
salvandosi dai rastrellamenti e dalle deportazioni.
Il
Circolo Garibaldi di Valona, nato con scopi ricreativi e culturali, che Emma
Covi, moglie di Vitaliano Poselli, aveva fondato nel 1939 e ne era stata eletta
presidente, aveva cambiato volto, era diventato una succursale per la
sopravvivenza di molti militari italiani ed albanesi disperati al fine di proteggerli
dalle persecuzioni, dai rastrellamenti e dalle deportazioni che si stavano
perpetuando nei loro confronti dai nazisti.
Tutto ciò veniva fatto solo per umana pietà e carità cristiana e nulla aveva a
che fare con azioni di guerriglia, spionaggio o reclutamento.
Vennero
organizzate raccolte di fondi per acquistare vestiti, scarpe, ecc. nonché per
soccorrere, alimentare e curare tanti giovani sbandati che erano rimasti
letteralmente senza niente.
Due
di essi, in particolare gli ufficiali dei carabinieri Nino Tagliani e Mario
Verdi, trovarono, per qualche tempo,
ospitalità nella cantina della villetta che Emma occupava con il marito
Vitaliano, geniale imprenditore, che si trovava accanto alla Banca Nazionale
di cui Giuseppe Terrusi era il direttore. Le loro armi: spade e pistole furono
nascoste nel pozzo della villetta. La spola dei due capitani tra la villetta e la Banca (attraverso un
passaggio nel giardino) avveniva a secondo delle modalità di perquisizione
delle truppe tedesche.
Per la generosità e l’abnegazione
dimostrata, Emma ottenne in seguito un riconoscimento ufficiale dalle autorità
italiane.
(7*) I
due Capitani dei carabinieri, Tagliani e Verdi, accomunati nel loro tragico
destino, rimasero in contatto con la nostra famiglia, protetti dagli amici del
Circolo “Garibaldi”, fino ad ottobre del 1949 quando ci rimandarono in Italia
come profughi, avvisati della partenza della nave “Stadium” per l’Italia, si
presentarono all’imbarco in abiti civili ma riconosciuti furono fermati. Da
notizie filtrate dagli amici albanesi: dopo la loro cattura furono deportati in
un campo di concentramento. Sospettati come spie, furono incarcerati e
condannati a lunghi anni di detenzione durante i quali vennero sottoposti ad
umiliazioni e torture. Pur ridotti in pietose condizioni fisiche, i carnefici
albanesi, non riuscirono mai a piegare la loro fierezza e il loro ammirevole
esempio di fedeltà. Essi sono tra i tanti militari italiani di cui si sono
perse le tracce.
A questo proposito è molto
interessante la lettera autografa del Capitano Orombelllo G.Battista all’amico,
Maresciallo Dibilio Salvatore:
Due comunicazioni ufficiali avevano comunicato la mia
morte “Catturato dai Tedeschi in Albania e dagli stessi fucilato”. Dopo che ci
siamo separati in seguito al pericoloso sbandamento del gennaio 1944, vissi
molte ore gravissime e rischiose. Con una banda catturai il presidio tedesco
del Ponte Drayote sulla Vaiussa (presso Tepelenë), rendendo così possibile il
passaggio dell’intero Raggruppamento di Battaglioni verso Argirocastro,
salvandolo dall’accerchiamento. In combattimenti immediatamente successivi,
trovandomi con la retroguardia in seguito a grave contusione al ginocchio
sinistro, tenni a bada i Tedeschi e salvai ancora il Raggruppamento (col quale
procedevano i capitani Verdi e Tagliani, ma fui catturato per la terza volta,
assieme a 24 partigiani albanesi, e dopo due giorni di gravi sevizie, che mi
costarono alcuni denti, perché comandante militare di partigiani, perché
persistetti a non voler collaborare coi Tedeschi, perché trovata una pistola
vicino al posto della mia terza cattura, perché non volli svelare i nomi dei
capi Partigiani né l’itinerario che il Raggruppamento seguiva, né i depositi
dei Partigiani, fui, il 31 gennaio 1944, condotto al posto di fucilazione
contro un muro di Tepelenë.
Per miracolo mi sottrassi all’esecuzione, o meglio per
premio alla mia assoluta fermezza di fedeltà al giuramento. Quella stessa
fermezza che ebbi anche nell’ottobre 1943 quando, come ricorderà, nella valle
di Ramitza-Smokina, appena ricevuto l’invito del generale Azzi, vi dissi che
era una “questione di onore e di dignità nazionale andare a combattere col
Comando Truppe Italiane della Montagna contro i Tedeschi”. E tutti mi avete
seguito; anche Lei, che rinunziò ad andare, coi venti compagni, ad Himara per
tentare l’imbarco per l’Italia meridionale. Perché vi era l’onore d’Italia da
difendere!
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