Il Rimpatrio fu
doloroso. Nell’Italia del secondo dopoguerra, divisa dalla lotta fra i vincitori
della guerra, tra il comunismo e la comunità atlantica, nel mare delle macerie,
soprattutto morali oltre che materiali, gli Internati Militari in Germania e
negli altri paesi europei non trovavano accoglienza. Nessuna forza politica
voleva avere a che fare con loro. Nell’accusa velata erano tutti espressione di
quella Gioventù Italiana del Littorio che sostanzialmente aveva sostenuto il
Fascismo nella sua fase più cupa del regime. In più, come una cappa di piombo,
cadeva su di loro l’inespressa accusa: perchè non avete resistito in massa al
tedesco nella crisi armistiziale del settembre 1943?.Perchè cedere senza
resistere le armi in cambio di promesse facilmente intuibili che mai sarebbero
state mantenute? La delusione e la stanchezza della guerra non erano
considerate giustificazioni valide. Non rientrò in questa situazione la
reazione avuta al momento di prendere coscienza della realtà, e di opporsi al
tedesco non aderendo alla Repubblica Sociale Italiana, preferendo l’inferno dei
lager al rientro in Italia. Tutto allora era in divenire e la realtà troppo
viva per articolarsi in forme superiori di accettazione. Gli Internati, dopo il
rimpatrio, si chiusero in un silenzio sdegnato e impenetrabile e vissero i loro
giorni tra tristezze, rancori e incomprensioni, tutti consci di aver speso la
loro giovinezza in modo assurdo.
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