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giovedì 6 novembre 2014

Pistoia. 8 Novembre 2014 Convegno. La terza fase

LE RAGIONI DI UN CONVEGNO

La Terza fase: La scoperta dei figli e nipoti e la loto volontà di preservare la memoria.

Questa terza fase, che rappresenta le ragioni del congresso di Pistoia, inserito in un programma quadriennale di studi e ricerche, ebbe origine dalla constatazione che era emersa una volontà di andare oltre la presenza del testimone e continuare le ricerche. Nel 2013 a Cesena, in occasione della presentazione del Volume “Il Gran Rifiuto” da parte dell’Istituto Vittorio Emanuele Giuntella, si decise in modo non certamente pomposo o manicaemente formale, di proseguire le ricerche anche in onore di chi fu protagonista, nel caso specifico Pietro Vaenti. Su questo si innestò altre personalità come Cosimo Finiguerra e la sua passione per ricordare gli avvenimenti, attestata dalle ricerche in Russia e in Albania, i Gruppi Associativi di diversa configurazione a Foligno, Spoleto, Ancona, Roma ecc, l’attività messa in essere dai discendenti che, in gran parte all’oscuro delle vicende di cui fu protagonista il proprio familiare, volevano saperne di più. Ovvero l’attività della Sig. Tosi qui a Pistoia e da ultimo quella di Loretta Galli a Firenze.
La somma di tutto questo sta a significare che può partire, se non è partita, una terza fase di ricerche, che, da un lato si ripromette di divulgare quanto fino ad ora acclarato e documentato nella prima e nella seconda fase, dall’altro sviluppare altre ricerche ed approfondimenti per documentare meglio quegli anni in Italia ma soprattutto all’estero, in particolar modo in Albania. I temi di ricerca, messi in sistema con quelli della Prigionia Militare, quinto fronte della Guerra di Liberazione, al momento sono quelli che precedentemente sono stati affrontati in modo generale:
-          la guerra partigiana condotta dall’E.L.N.A., Esercito di Liberazione Nazionale Albanese, nella sua interezza, in modo sistematica e secondo le dottrine di guerriglia e controguerriglia del tempo;
-          l’attività delle Missioni Militari Alleate, oltre a quelle Britanniche ed Americane, anche e soprattutto quelle Sovietiche.
-          i rapporti tra il Partito Comunista Albanese ed il Partito Comunista Jugoslavo, sia sul piano ideologico che si quello militare
-          i rapporti tra la Resistenza Albanese e quella Greca ( ove anche qui vi erano militari italiani) soprattutto per l’area della Ciamuria, contesa tra le due Nazioni;
-           l’attività collaborazionista, sia da parte albanese (Il Balli Kombetar e la sua politica, i rapporti con gli altri partiti ecc) e quella svolta da Soldati Italiani che avevano aderito alla vecchia alleanza;
-           La questione degli ebrei scampati alle persecuzioni nel resto d’Europa che avevano trovato in Albania, territorio italiano, un sicuro rifugio.
-          La gestione amministrativa dei territori liberati prima del novembre 1944
-          La situazione morale e materiale degli oltre 40.000 che non poterono essere inseriti nelle unità combattenti dell’E.N.L.A e che vivevano nascosti e braccati su tutto il territorio albanese
-          Il problema del Rimpatrio dei soldati Italiani e le vicende ad esse connesse.
-          Da ultimo, una ricostruzione del perché i protagonisti non vollero al loro ritorno parlare e rendere edotti tutti delle loro vicende e, quindi, una analisi della preservazione della memoria durante i quaranta anni di oblio.


Un agenda abbastanza fitta che, si ripete, rappresenta le ragioni del convegno di Pistoia. Convegno organizzato e voluto attraverso la lente delle vicende dei Soldati Pistoiesi e Toscani in genera, della Divisone “Firenze” che possono essere tranquillamente presentati come un esempio di tutto quello che accadde agli altri soldati italiani in Albania all’indomani della crisi armistiziale del 1943.

Pistoia. 8 Novembre 2014. La Seconda fase

LE RAGIONI DI UN CONVEGNO

La II Fase: l’approccio della Guerra di Liberazione: una guerra su cinque fronti.

 Il fascismo e il nazismo hanno segnato la storia dell’Europa nella prima metà del Novecento; se, in modo succedaneo, si accettano elementi che ancora sopravvivono di queste esperienze in Europea o in Italia, o addirittura si abbracciano queste ideologie, si deve negare in modo chiaro che non si può parlare né di Resistenza, in Europa, né di Guerra di Liberazione, in Italia. Lo spartiacque di questa impostazione è quello al di qual del quale non si accettano né fascismo né nazismo; al di là li si accettano, pur nella esperienza di oltre 60 anni  di vita repubblicana ed unitaria in Europa. Se si è al di qua di detto spartiacque allora si può parlare di Resistenza, intesa come la lotta dei popoli europei, in generale, ed italiano, in particolare,  contro i predetti e fascismo e nazismo. In Italia, secondo il nostro approccio, emerge nella sua reale dimensione la crisi seguita alla  dichiarazione dell’armistizio dell’8 settembre, in cui arrivò alla sua naturale soluzione la crisi del nostro Paese dovuta al fallimento morale e materiale del fascismo culminata il 25 luglio 1943 con la destituzione di Mussolini e la cancellazione con tre decreti leggi del fascismo come regime.[1] Questo è l’ulteriore spartiacque che occorre segnare per comprendere, a noi Italiani, perché il fascismo ha fallito. Occorre riprendere alla mano tutte le fonti, alzare il velo della ideologia e del vittimismo e giustificazionismo e capire, con documenti alla mano, perché si arrivò a quel grande disastro materiale che fu la seconda guerra mondiale (1940-1943) ove collezionammo una serie di sconfitte e umiliazioni, oltre al discredito ed al disprezzo di nemici e alleati, a cominciare dal principale alleato del fascismo, la Germania nazista. I Nazisti disprezzarono, in generale, l’alleato fascista, in particolare, e diedero nuova linfa al disprezzo risorgimentale ed antiunitario verso gli Italiani nutrito dalle popolazioni germaniche. Comprendere perché non conquistammo la loro fiducia, stima e considerazione, almeno in campo militare. Si può vincere e si può perdere, ma forse è più importante il come si vince e il come si perde. Noi su questo punto fummo sempre deficitarii. L’unico che ebbe una qualche ammirazione per noi, per il Duce,in particolare, fu Hitler, che lo manifestò fino alla fine. Ma i vertici nazisti, basta leggere i Diari di Himmler e di Goebbels per averne un riscontro diretto. Himmler aveva donato alla Milizia 36 carri Tigre, con istruttori tedeschi, e la Divisione di Camicie Nere stanziata a Chiusi doveva essere un serio baluardo contro i nemici del fascismo. Il 25 luglio non si mosse, come non si mossero i Moschettieri del Duce, la guardia scelta che avrebbe dovuto essere l’ultimo baluardo, fino all’estremo sacrificio della vita, ad ogni minaccia. Tutti fini in un fallimento prima morale e poi materiale. Quando nel 1922 il Fascismo andò al potere, l’Italia era una nazione agricolo-pastorale, divisa tra Nord e Sud, povera e sottosviluppata, ma che si era convinta che aver vinto la Grande Guerra e la conquista di Trento e Trieste di aver risolto tutti i suoi problemi, molti secolari altri recenti. Il Fascismo andò al potere trainato da un gruppo di uomini decisi, impreparati ideologicamente, lontani da filosofie, digiuni di ogni preparazione di alto livello. Si mise all’opera per fare dell’Italia una Potenza, e nelle apparenze, agli inizi degli anni trenta presentò ad una Europa più sorpresa che attonita, una Italia diversa. Un Italia che l’Europa conosceva come disordinata, portata per abitudine al compromesso ed all’inganno, alla frode spicciola e al raggiro di bassa lega, con un tessuto sociale friabile, messa la camicia nera era diventata in pochi anni ordinata, precisa  degna di proporre all’Europa stessa qualcosa di diverso, di rivoluzionario, sotto la guida del “Duce”. Mussolini creò quello che poi sono stati definiti gli anni del consenso. Con ordini perentori dall’alto “metteva in riga” il popolo italiano. Presentava la  Grande Guerra come una vittoria Italiana  ove marginalmente francesi, belgi, britannici, americani presero parte, era il protagonista della Storia, e con il concordato l’”uomo della provvidenza”. Di fronte a lui tutti si inchinarono: scrittori, giornalisti, uomini di cultura, preti di alto e basso clero, insegnati e professori, il popolo tutto. L’opposizione si ridusse a pochissimi uomini che dovettero andare in esilio, ed anche lì perseguitati dall’OVRA, e da poche centinaia di migliaia di “mormoratori”. Al tempo dell’Impero, a metà degli anni trenta, l’adesione, il “consenso” fu massiccio. Con la vittoria in Abissina, contro un avversario finto, il popolo italiano, credeva di poter piegare il mondo. Il 9 maggio 1936, giorno in cui fu proclamato l’Impero,  fu il trionfo del fascismo, ma anche l’inizio del suo declino. Avviatisi sulla strada delle conquiste, il popolo italiano doveva diventare un popoli di soldati, invece si sentiva ed era un popolo di operai e di contadini. Chi doveva sostenere questa azione, questa trasformazione era il Partito Nazionale Fascista, il P.N.F. Il suo compito era quello di tenere legati i milioni di italiani che dovevano essere trasformati in soldati, in conquistatori. Il P.N.F. arruolò, in questo immane compito, tutti, dai neonati agli ultra ottantenni, e mise tutti in divisa, in camicia nera, in un orgia di militarismo ossessivo e ossessionante che non vide ne prima ne poi alcun paragone in Italia.

 Per gestire le masse, non puntò, e questo forse il campo di ricerca più interessante, ai Quadri, a coloro che dovevano gestire e orientare queste masse di popolo in camicia nera, a coloro che, attraverso la selezione meritocratica dovevano diventare la dirigenza del Partito, a cui affidare il raggiungimento degli obbiettivi primari. Puntò invece all’esterno dell’uomo, alla apparenza, trascurando i cervelli, favorendo i mediocri, i più controllabili, i più guidabili, creando baronie a tutti i livelli, con una proliferazione di gerarchi, gerarchetti, gerarchicini servili, forti con i deboli e deboli con i forti, una sconfinata schiera di “yes man”, che non riuscirono a far altro che impantanare la Nazione in una ossessiva burocrazia di ordini, fogli d’ordini, disposizioni, ordinanze, precetti, circolari, ordini del giorno ecc. Achille Storace, segretario del PNF dal 1930 al 1940 fu protagonista e l’animatore di tutto questo. Il Partito fallì nell’impresa di forgiare il nuovo italiano. Le piaghe di sempre non scomparvero, la mafia e la camorra operavano in silenzio, la corruzione correva come sempre ha corso, le tangenti la facevano da padrone, gli scandali si susseguivano agli scandali, anche se era vietato parlarne, in un orgia di retorica inconcludente e vuota e stantia, con una “intellighenzia” che si prostituiva in modo tanto vergognoso quanto criminale.
Con la Guerra di Spagna, il popolo Italiano capì che ci si era incamminati su cose più grande di Lui. L’Alleanza con la Germania sempre più stretta, inorgogliva ma impauriva, vedendo i tedeschi sempre come tedeschi. Con le leggi razziali il cammino divenne arduo e gli interrogativi aumentarono, Monaco fu un sollievo, ma di breve durata. Ma dove il fallimento del PNF fu più marcato fu la preparazione alla guerra. Un partito che predicava il combattimento come suprema sfida e stile di vita, non curò la preparazione militare della Nazione e la ragione era semplice: perché non era capace. Quel coacervo di etnie che è il nostro Paese, lì dove si fabbricano 400 tipi di pasta, che è il piatto nazionale,  aveva abitanti che non possedevano la stoffa del Protagonista, del dominatore della scena mondiale, deboli di carattere, carenti di volontà, con forte inclinazione all’individualismo inconcludente e prativo, all’indisciplina, alla incapacità di rimanere saldi nei momenti di crisi e di difficoltà. Il PNF si presentò alla prova della Guerra Europea, lì dove si dovevano decidere i destini del futuro, vuoto e morto. Un Partito che era tutto apparenza, in gigante dai piedi d’argilla, ma che non era in grado di affrontare le grandi prove. I famosi reggimenti d’acciaio, la Gioventù Italiana del Littorio forgiata dal maglio della rivoluzione fascista, non esisteva; le piazze erano piene, ma di scheletri, di pupazzi in divisa, corpi senza cuore. Quando il popolo italiano seppe che l’Italia non entrava in guerra nel settembre 1939, tirò un sospiro di sollievo e ringraziò la buona stella. Quando il 10 giugno 1940 seppe che la guerra era iniziata, si raccomandò al buon stellone d’Italia e sperò che Mussolini avesse visto giusto. Ma ben presto si vide che una Nazione che doveva essere rigenerata dalla rivoluzione fascista, non lo era. Già la campagna delle Alpi occidentali mostrò tutti i limiti e le manchevolezze e da qui partì quella serie di sconfitte, incapacità di operare, di essere sconfitti con dignità, di non riuscire a condurre una operazione vittoriosa, che segno 39 mesi di guerra. Giunsero ben presto le sconfitte in Africa settentrionale, in A.O.I e la disastrosa Campagna di Grecia, che chiarì in modo inequivocabile che l’Italia non era quella che appariva. Non facciamo altro che ricordare delle sconfitte: El Alamain, Nikolajevka, tutto ammantando di frasi retoriche: “mancò la fortuna, non il valore” si scrisse nel momento migliore delle nostre fortune in Africa settentrionale. Questo va bene per loro, per i Bersaglieri. Per l’Italia, occorre aggiungere che oltre alla fortuna mancarono tante altre cose, prima la benzina, poi i mezzi, poi l’equipaggiamento adeguato, e, in genere,  tutta la logistica necessaria a condurre una guerra mondiale, poi l’azione di comando, poi la strategia operativa, poi la strategia. Il Fascismo portò l’Italia, mese dopo mese, dal 1940 al 1943 alla distruzione e le conseguenze di questo disastro si ripercuoteranno per generazioni.
Il Fascismo cadde e nei 45 giorni seguenti in cui il nostro vertice Politico doveva gestire la nostra uscita dalla guerra contribuì con errori, alcuni davvero madornali, in sequenza , uno dopo l’altro fino alla suprema follia della gestione dell’armistizio  e la conseguente gestione della crisi armistiziale. Il popolo italiano di fronte a tanto disastro, quando lo stesso concetto di Unità Nazionale fu messa in discussione, si trovò costretto a scegliere. E la genesi  dei fronti della Guerra di Liberazione. I  fronti, che nel nostro approccio  individuati sono i seguenti:
- Quello dell'Italia libera, ove gli Alleati tengono il fronte e permettono al Governo del Re d'Italia di esercitare le sue prerogative, seppure con limitazioni anche naturali per esigenze belliche. Il Governo del Re è il Governo legittimo d'Italia che gli Alleati, compresa l'URSS., riconoscono.
- Quello dell'Italia occupata dai tedeschi. Qui il fronte è clandestino e la lotta politica è condotta dal C.L.N., composti questi dai risorti partiti antifascisti. E' il grande movimento partigiano dei nord Italia.
- Quello della resistenza dei militari italiani all'estero. E' un fronte questo non conosciuto, dimenticato, caduto presto nell'oblio. E' la lotta dei nostri soldati che si sono inseriti nelle formazioni partigiane locali per condurre la lotta ai tedeschi (Jugoslavia, Grecia, Albania).
- Quello della Resistenza degli Internati Militari Italiani, che opposero un deciso rifiuto di aderire alla R.S.I., di fatto delegittimandola.
- Quello della Prigionia Militare Italiana della seconda guerra mondiale.
Se vediamo il singolo militare, il singolo cittadino atto alle armi vediamo che alla guerra parteciparono per varie vie, spesso seguendo scelte le più disparate: chi come rifiuto di consegnarsi ai tedeschi; chi, catturato, finì nei campi di concentramento in Germania e in Polonia; chi entrò nelle file partigiane e prese le armi; chi rientrò in Italia del Sud e nella stragrande maggioranza entrò nelle file dell'Esercito dei Re; chi visse, senza cedere, sui monti in Italia e all'Estero per  non consegnarsi ai tedeschi e non collaborare, chi nei campi di Prigionia degli ex-Nemici, ora alleati, accettò di collaborare in nome del contributo che l'Italia doveva dare per un domani migliore.
L'approccio adottato permette di poter sviluppare le ricerche in queste cinque direzioni al fine di vedere quanti e quali italiani portarono, come dice Luciano Bolis il loro "granello di sabbia", oltre a quella che vide coinvolti quelli che rimasero fedeli alla vecchia Alleanza che ha permesso di riportare alla luce tanti episodi ormai avvolti nel buio, ma deve essere ulteriormente integrato. Vediamo più da vicino questi fronti.

Il Primo Fronte: L'Italia del Sud. Qui ricomincia a funzionare il vecchio stato, ma accanto si sviluppa la dialettica dei partiti. Partecipano alla guerra prima il I Raggruppamento Motorizzato, poi il C.I.L., poi i Gruppi di Combattimento. Sono, in nuce, i soldati del futuro esercito italiano, che operano secondo le regole classiche della guerra. E' indubbio che combatto contro i tedeschi, anche se il rapporto con gli Alleati è sempre di sudditanza. Con la liberazione di Roma e l'avanzata nell'Italia centrale  la lotta al nazifascismo non è disgiunta da una appassionata discussione sul futuro politico dell'Italia e sulle prospettive di vero rinnovamento democratico. Le forze partigiane e dei partiti antifascisti coesistono, oltre che con l'organizzazione militare del Regno, anche con la Chiesa Cattolica, fattori entrambi che condizionano in senso moderato l'attività antifascista.

Il Secondo Fronte: L'Italia del Nord. Al momento dell'Armistizio, l'Italia fu tagliata in due. Al nord i tedeschi impongono la Repubblica Sociale. Qui si ha la forma più compiuta di resistenza. Si hanno le formazioni partigiane organizzate dai partiti antifascisti in montagna, mentre nelle pianura e nelle città si organizzano i GAP e le SAP. Oltre a ciò la popolazione civile partecipa alla guerra collaborando con il movimento partigiano in mille forme, e subendo terribili e inumane rappresaglie; inoltre gli operai con i loro scioperi e la loro resistenza passiva contribuiscono a rallentare lo sforzo bellico dell'occupante e a minare anche la propria sicurezza. Si ha il coinvolgimento di ampi strati della popolazione nella guerra al nazifascismo, che si integra con il particolare profilo delle bande in montagna, che non sono solo gruppi di combattenti ma anche luoghi di dibattito e di formazione politica.

 

Il Terzo Fronte: L'Internamento. Nei mesi di settembre ed ottobre l'Esercito tedesco fa prigionieri ed interna in Germania oltre 600.000 militari italiani, dando origine al fenomeno dell'Internamento Militare Italiano nella seconda guerra mondiale. Questi militari non hanno lo statu di prigionieri, ma di internati, ovvero nella scala del mondo concentrazionario tedesco, sono sullo stesso livello dei prigionieri sovietici ( La URSS non aveva firmato la convenzione di Ginevra del 1929) e poco al di sopra degli ebrei. Ovvero il loro trattamento era durissimo. In queste circostanze per uscire da questo infermo ci si sarebbe aspettato una adesione plebiscitaria alle proposte di collaborazione sia dei Nazisti sia degli esponenti della R.S.I. Invece la quasi totalità degli Internati oppose il rifiuto ad una qualsiasi forma di collaborazione, subendone le più terribili conseguenze. Fu un fronte di resistenza passivo, ma determinato, che nella realtà dei fatti delegittimò sul piano interno ma anche agli occhi dei germanici la Repubblica Sociale. Infatti una decisione in massa degli Internati ai fascisti di Salò avrebbe permesso alla R.S.I. di avvalorare le tesi della propaganda, che era l'unica rappresentate della vera Italia. In realtà questa non adesione, in sistema con la lotta partigiana, isolò Mussolini relegandolo a semplice rappresentate di se stesso e dei suoi accoliti.


Il Quarto Fronte: La Resistenza dei Militari Italiani all'Estero

Se nel nord Italia si sviluppò il movimento partigiano attraverso bande armate, all'estero, i militari italiani sorpresi dall'armistizio dell'8 settembre e sottrattisi alla cattura tedesca si opposero ai tedeschi in armi, inizialmente, poi dando vita, in armonia con i movimenti di resistenza locali a vere e proprie formazioni armate. Per la resistenza di formazioni organiche sono noti i fatti di Lero e di Cefalonia. Meno noti tanti altri fatti in cui unità militari italiane organiche resistettero ai tedeschi fino al limite della capacità operativa. Un esempio per tutte: La Divisione "Perugia", stanziata nel sud dell'Albania  tenne in armi il porto di Santi Quaranta fino al 3 ottobre 1943, in attesa di un aiuto da parte italiana ed alleata. Una divisione di oltre 10.000 uomini, che dominava un area  abbastanza vasta e che avrebbe potuto dare un forte aiuto ad un intervento alleato dall'altra parte dell'Adriatico. 10.000 militari italiani che rimasero compatti per tre settimane oltre l'armistizio, in armi e che pagarono duramente questa loro resistenza. Infatti tutti gli Ufficiali della Perugia furono fucilati, e gli uomini internati in Polonia.
Per le unità che passarono in montagna e si unirono ai movimenti partigiani locali, noti sono gli avvenimento della divisione "Venezia" e "Taurinenze", che diedero vita alla Divisione Partigiana Garibaldi; meno note le vicende della divisione "Firenze" ed "Arezzo" in Albania e delle divisioni italiane stanziate in Grecia. Militari Italiani diedero vita alla divisione "Italia" in Jugoslavia. Oltre che nei Balcani, militari italiani parteciparono ai fronti di resistenza locali. Così in Corsica, ove oltre 700 militari caddero per la liberazione di Aiaccio, cosi nella Provenza, in centro Europa la presenza di militari italiani è certa.

Il Quinto Fronte: La Prigionia. Vi erano, al momento dell’Armistizio, circa 600.000 prigionieri nelle mani delle Nazioni Unite. Soldati per lo più caduti nelle mani del nemico a seguito dell’offensiva in Nord Africa (1940-’41) alla resa in Tunisia ed al tracollo del luglio agosto 1943 in Sicilia. Per lo più, tranne i 10-12.000 soldati in mano all’URSS, erano in mano anglo-americana. Questi soldati, questi italiani all’annuncio dell’Armistizio dovettero, come tutti, fare delle scelte. La stragrande maggioranza scelse di cooperare con gli ex-nemici, contribuendo anche loro a costruire un futuro migliore. Una aliquota molto bassa non volle cooperare, non solo perché fedeli alla vecchia alleanza, ma per variegate motivazioni. Ad esempio a Hereford (USA) vie erano circa 4.000 italiani che gli americani consideravano "sout court" fascisti. In realtà, fra questi non cooperatori vi erano sì fascisti, ed anche prigionieri delle Forze della R.S.I., ma anche monarchici, liberali, moderati, repubblicani, socialisti, comunisti o laici in senso stretto che avevano fatto una scelta personale. I prigionieri in mano agli Angloamericani furono organizzati in ISU, Italiana Service Units, compagnie di 150 uomini addetti ad un particolare lavoro. Il loro contributo si esplicò negli Stati Uniti e in Gran Bretagna con l'impegno nei grandi arsenali o nelle basi, oppure in Nord Africa e quindi in Italia, parte integrante della organizzazione logistica alleata. Anche loro, con il loro lavoro, portarono il contributo alla vittoria finale. Soprattutto i prigionieri che operarono in Italia nel campo delle comunicazioni, dei trasporti e del genio, confluirono poi nelle unità del nuovo esercito italiano, gestendo il materiale di guerra americano
Ovvero, anche il prigioniero che, in un contesto particolare, combatte.
A tutti i fronti si accede perché volontari. Si hanno diverse figure giuridiche, che già descriviamo, come il partigiano, il patriota, il prigioniero, l'internato, l'ostaggio, il deportato, tutte figure che si delineano a seconda del fronte con cui si combatte. Un fronte che rimane unitario, nella volontà ferma di sconfiggere il nazifascismo. E in nome di questa unità, ricordiamo in questa data unitaria chi, pur nella diversità di grado ma non di natura, diede il suo contributo, il suo granello di sabbia, su fronti diversi, affinchè si realizzasse una Italia migliore.
 A Suo tempo si scrisse: “Questo il quadro generale di ricerca che si propone, in una visione storico-scientifica unitaria, al fine di consegnare alle nuove generazioni un approfondimento, oltre che una conoscenza, di fatti che generarono gli anni della vicenda repubblicana la cui matrice non si può non conoscere se si vogliono affrontare i problemi che abbiamo di fronte.”

Questa seconda fase iniziò  nel 2001-2002 e si concretizzò con la partecipazione a numerosi convegni, e nella pubblicazione di due volumi, quello dedicato all’Albania e quello dedicato alla divisione “Perugia”  ed altri della Collana “Storia in Laboratorio”

Questa fase ebbe termine intorno al 2011-2012, venendo a terminare l’apporto delle Associazioni Combattentistiche, per il naturale passare del tempo e con la scomparsa dei testimoni e protagonisti.



[1] Il 26 luglio 1943 il Maresciallo Badoglio comunica che la M.V.S.N. “fa parte integrante delle Forze Armate della nazione e con esse collabora, come sempre, in piena comunità di opere e di intenti per la difesa della Patria”. A comandarla è nominato il generale Quirino Armellini, il quale il 31 luglio dispone, tra l’altro, l’abolizione del ruolo della G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio) e le dimissioni d’autorità degli ufficiali della Milizia cui il grado è stato conferito per sole benemerenze politiche: Il 30 luglio i Ministeri militari dispongono il richiamo alle armi dei segretari federali, dei vice-federali, dei fiduciari di fabbrica e degli squadristi dipendenti delle organizzazioni del P.N.F.
Il P.N.F. è tutta la sua incastellatura vengono smantellati con tre R.D.L. del il 2 agosto 1943. e pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale n. 180 del 5 agosto 1943. Il 605 scioglie la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, il 706 sopprime il Gran Consiglio del fascismo, il 704 è quello che riguarda più propriamente, con l’elencazione minuta della destinazione degli averi, dei compiti e dei dipendenti di ogni ente o organizzazione del Partito. Sono soppressi anche il calendario fascista, l’aggettivo “fascista” applicato a enti, istituti e azione e la dizione “Duce del fascismo” Capo del Governo” contenuta nelle leggi nei regi decreti ed in altri provvedimenti. Resta in piedi solo L’Opera Nazionale Dopolavoro. Cfr.Rcciotti L., Il partito Nazionale Fascista. Come era organizzato e come funzionava il partito che mise l’Italia in camicia nera, Milano, Rizzoli 1985. 


Pistoia. Convegno 8 novembre 2014. La Prima Fase i

LE RAGIONI DEL CONVEGNO

La prima fase: sconfiggere l’oblio

Si è scritto che non che la Resistenza dei Militari all’Estero non è stata studiata; tra i vari comparti, quello dell’Albania, il meno di tutti. Le ragioni di questa situazione si possono riscontrare, in primo approccio, alla volontà dei protagonisti della resistenza all’Estero, una volta rientrati in patria, al pari degli Internati Militari e ai Reduci in genere, di non voler parlare delle proprie vicende ed esperienze. Si sono chiusi tutti nel silenzio, convinti che non ci fossero ascoltatori in grado di capire quello che loro avevano sofferto e patito.
Non è che questa loro posizione fosse distante dalla realtà. Basti pensare che, rispetto a coloro che diedero vita alla Resistenza in Italia, sono stati creati all’indomani del 25 aprile per ogni provincia Istituti di Studi e Documentazione che subito hanno iniziato a raccogliere ogni cosa utile per documentare la Resistenza. Per quella all’estero, nulla.
Ed è semplice verificarlo.
Ci si è affidati alla memorialistica del singolo, che corrispondeva in modo occasionale con qualche suo compagno e nulla più.
Tutto questo è durato per oltre 40 anni.
Per fronteggiare questa situazione, grazie alla iniziativa di alcuni protagonisti, in particolar modo, il gen. Ilio Muraca, già combattente in Jugoslavia nella divisione Garibaldi, fu proposta al Ministero della Difesa la creazione di una Commissione per lo studio e la documentazione della Resistenza all’Estero.
 L’allora ministro Valerio Zanone accolse questa proposta e nomino, con data 2 gennaio 1989 una apposita commissione composta da esponenti dell’ANPI (Ilio Muraca, Angelo Graziani, Alfonso Bartolini) della FIAP (Giuseppe Marras,Gaetano Messina, Avio Clementi) della FIVL ( Giovanni Giraudi, Giuseppe Amati,) dell’ANEI ( Carlo De Luca, Vittorio Emanuele Giuntella)  della ANVRG (Luigi Reggiani, Lando Mannucci) e esponenti del Gabinetto del Ministro. I lavori dovevano durare un anno.
 La Commissione, chiama  fra gli addetti CO.RE.MI.TE, si mise al lavoro e riuscì a produrre volumi dedicati a settori particolari, come I Medici e di Cappellani nella resistenza all’estero, e a precise are operative: La Corsica, La Francia Metropolitana, la Grecia Continentale, Le isole (Lero e Cefalonia), La Jugoslavia settentrionale, La Jugoslavia centrale ed il Sangiaccato, il Montenegro. La Commissione constatò che non vi era alcunché di utile e fattivo per l’Albania. Il prof. Buonasera, dell’Università di Palermo, che fece tutta la resistenza in Albania, inizialmente incaricato di svolgere ricerche e produrre documentazione, dichiarò che non vi era materiale sufficiente per un volume degno di questo nome.
In questa fase di stallo il Gen. Muraca, su indicazione dei superiori, contattò l’allora Cap. Massimo Coltrinari, in servizio presso lo Stato Maggiore dell’Esercito, che, tra i suoi compiti, ricevette l’incarico di mettersi a disposizione per questa esigenza del predetto gen. Muraca.

Inizia quello che posteriori si può definire la Prima fase delle ricerche su questo tema.
Riprendendo dal volume edito nel 1999, si può leggere:
“La ricerca intrapresa sulle vicende dei nostri soldati in Albania, inizialmente, sembrava non avere la possibilità di sviluppo, in quanto le fonti disponibili o quelle ipotizzabili apparivano limitate  e di poca consistenza. Ci si accinse a questa ricerca con la convinzione che in poco tempo la ricerca stessa si potesse terminare.
Individuata la parte edita, le prime ricognizioni nelle varie biblioteche fornirono documentazione scarsa, confermando il dato iniziale di partenza. L’Albania sembrava un paese inesistente, dimenticato da tutti.
Si impostò il lavoro, a fronte di questa situazione, su criteri di ricerca basati più sulla memorialistica che sulla documentazione di archivio ed edita, ovvero si iniziò a raccogliere testimonianze, puntando decisamente sulla fonte orale, più che su quella materica. Entrando in contatto con i protagonisti, si ebbe la sorpresa: ognuno di loro , oltre a fornire la propria testimonianza, ha fornito anche documentazione coeva di interesse, ma soprattutto la maggior parte ha dato indicazioni per arrivare a fonti archivistiche di rilievo, allora sconosciute.
Questo ha permesso di rivisitare gli Archivi già consultati con altri presupposti di ricerca, ovvero di visitarne altri, ove in modo spesso indiretto si è arrivati a documenti ed elementi materiali riferiti all’Albania nel periodo interessato.
Ne sono nati, intorno agli anni 1992.1993 ( la ricerca è iniziata sul finire del 1989) diversi filoni di ricerca che, inizialmente sviluppati hanno portato ad altre fonti archivistiche, alcune delle quali anche albanesi. La massa dei documenti raccolti e catalogati è stata ordinata nel settore Albania  dell’Archivio di Co.Re.MI.Te.. Tale archivio comprende anche altri settori (Egeo, Jugoslavia, Francia, ecc.) e terminati i lavori della Commissione è stato versato all’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Il materiale raccolto personalmente dall’Autore nel periodo successivo, ordinato, sarà versato all’Ufficio Storico predetto.
Sulla base di quanto raccolto fino al 1993 è stata predisposta la prima stesura  (1994) della monografia, che subito è apparsa antologica.
L’aver voluto tutto inserire, nell’asserzione che tutto doveva essere citato, come reazione naturale all’iniziale mancanza di documentazione, dava un profilo troppo didascalico, spesso ridondante e dispersivo, alla monografia stessa. Mantenuto l’impianto descrittivo, si è provveduto ad una riscrittura integrale del testo  con criteri di inserimento dei documenti più selettivi. La bozza di questa stesura, rilegata, è stata inserita come documento nell’Archivio di COREMITE.
Nel frattempo, però, continuavano a giungere altre testimonianze, altra documentazione, anche di particolare interesse, che davano contorni più precisi a fatti ed avvenimenti , che portò alla formulazione del 1995 della monografia.
Ci si accorse subito, ad una prima rilettura, che rispetto a quella del 1994, il carattere antologico era ancora troppo esteso, seppure se erano stati ridotti gli aspetti ridondanti. La scelta che si presentava era duplice: o raccogliere ulteriori documenti sviluppando altri filoni di ricerca, che in sostanza era lo scopo di COREMITE, allargando il profilo antologico della ricerca o concentrarsi su determinati aspetti essenziali e focalizzare su questi la stesura della monografia
Appariva un vero peccato che gli aspetti operativi delle nostre unità alla vigilia dell’armistizio, tutta la guerra partigiana condotta dall’E.L.N.A., Esercito di Liberazione Nazionale Albanese, nella sua interezza, l’attività delle Missioni Militari Alleate, i rapporti tra il Partito Comunista Albanese ed il movimento titino in Jugoslavia, i collegamenti tra la Resistenza Albanese e quella Greca ( ove anche qui vi erano militari italiani) l’attività collaborazionista che tanto incideva sulla vita dei cittadini italiani in Albania, le vicende degli ebrei scampati alle persecuzioni nel resto d’Europa che avevano trovato in Albania, territorio italiano, un sicuro rifugio, ed altri argomenti interessanti di cui si sono acquisti documentazioni, alcune di rilevo, non potevano trovare spazio descrittivo.
Si è deciso, quindi, di pubblicare, in collaborazione con L’Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’Internamento e dalla Guerra di Liberazione (ANRP) un volume dedicato all’avviamento dei militari italiani dei nostri militari nei campi di concentramento tedeschi , ovvero la descrizione degli avvenimenti in Albania all’indomani dell’armistizio delle Grandi Unità Complesse, cioè i Corpi d’Armata.
 Nel contempo la parte documentaristica che non si poteva inserire veniva utilizzata in numerosi articoli su riviste specializzate ( prima fra tutte “Patria Indipendente”, la rivista dell’Associazione Nazionale  Partigiani d’Italia, “Rassegna”, la rivista della ANRP e su numerose riviste delle Associazioni Combattentistiche e d’Arma. Ed anche sulla Stampa quotidiana.
Questa attività di divulgazione, che peraltro ha innestato un successivo processo di acquisizione  di testimonianza e documentazione, si è integrata anche con la partecipazione a vari Convegni di Studio, per lo più organizzati nell’ambito delle manifestazioni del 50° della resistenza. Tutta questa attività è stata riportata nel volume “Tra memoria e storia”, a cura di Enzo Orlanducci, Edizioni ANRP, Roma 1998.
Questo ha permesso (stesura del 1996) di ridurre notevolmente la monografia, anche se l’aspetto antologico  è rimasto. In presenza di nuova documentazione disponibile, l’idea di scindere la monografia in blocchi, al fine di concentrarsi solo sugli avvenimenti armistiziali, o quelli riferiti alla guerra partigiana non è stata accettata. Si trattava in pratica di non utilizzare tutta la parte precedente l’8 settembre, con una sintesi ulteriore delle operazioni dall’ottobre 1943 alla fine della guerra. Questa soluzione, peraltro, armonizzava la monografia dell’Albania a quelle, già edite, della Grecia e dell’Jugoslavia e dell’Isole dell’Egeo. Si è preferito rinunciare a questa soluzione per mettere a disposizione tutto il materiale ritenuto utile per cercare di allineare, a livello di documentazione, l’Albania agli altri settori della resistenza all’estero. Si è arrivati, di conseguenza, alla stesura della Resistenza all’estero. Si è arrivati, di conseguenza, alla stesura monografica del 1997. Rivista ulteriormente, questa edizione si trasformò nella bozza definitiva che permise la pubblicazione del volume “Albania” di COREMITE.”


Con la pubblicazione del volume “Albania” da parte della Rivista Militare nel 1999, presentato in varie sedi, terminava quello che abbiamo definito la I Fase delle ricerche.
(Massimo Coltrinari 57sessione@libero.it)