Traduzione

Il presente blog è scritto in Italiano, lingua base. Chi desiderasse tradurre in un altra lingua, può avvalersi della opportunità della funzione di "Traduzione", che è riporta nella pagina in fondo al presente blog.

This blog is written in Italian, a language base. Those who wish to translate into another language, may use the opportunity of the function of "Translation", which is reported in the pages.

venerdì 20 ottobre 2017

Ebrei:una storia italina. I prime mille anni

Oltre duecento oggetti – molti preziosi e rari –, fra i quali venti manoscritti, sette incunaboli e cinquecentine, diciotto documenti medievali, provenienti in gran parte dalla Genizah del Cairo (un significativo archivio dell’ebraismo medievale riscoperto nella capitale egiziana), quarantanove epigrafi di età romana e medievale e centoventuno tra anelli, sigilli, monete, lucerne, amuleti, poco noti o mai esposti prima, prestati da musei italiani e stranieri di primo piano. E un percorso espositivo coinvolgente, ricco di immagini, ricostruzioni ed esperienze offerte al visitatore.
La mostra “Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni”, che di fatto costituisce il primo segmento del percorso permanente del MEIS, comunica in modo originale l’unicità della storia dell’ebraismo italiano, descrivendo – per la prima volta con tale ampiezza – come la presenza ebraica si sia formata e sviluppata nella Penisola dall’età romana (II sec. a.e.v.) al Medioevo (X sec. d.e.v..) e come gli ebrei d’Italia abbiano costruito la propria peculiare identità, anche rispetto ad altri luoghi della diaspora. 
Attraverso cinque grandi divisioni, il percorso curato da Anna Foa, Giancarlo Lacerenza e Daniele Jalla, con l’allestimento dello studio GTRF Tortelli Frassoni Architetti Associati, individua le aree di provenienza e dispersione del popolo ebraico, ripercorre le rotte della diaspora e dell’esilio verso il Mediterraneo occidentale, dopo la distruzione del Tempio. Documenta la permanenza a Roma e nel sud Italia, parla di migrazione, schiavitù, integrazione e intolleranza religiosa, in rapporto sia al mondo pagano che a quello cristiano. Segue la fioritura dell’Alto Medioevo e poi, in un clima politico segnato dalle dominazioni longobarda, bizantina e musulmana, il precisarsi di una cultura ebraica italiana, anche a nord. Fino alle Crociate, agli eccidi, alle conversioni forzate che segnano le comunità ebraiche tedesche, mentre quelle italiane godono ancora di una notevole stabilità e relativa convivenza con l’ambiente circostante, come testimonia l’ebreo Beniamino da Tudela nel suo “Libro di viaggi”.

mercoledì 11 ottobre 2017

Attività per il 2018

Giorno della Memoria 2018
In questa occasione, il MEIS promuove una serie di incontri focalizzati sulla discriminazione e le persecuzioni subite dagli ebrei in Italia a seguito delle leggi razziali
Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah - MEISHOP
Via Piangipane, 81 - Ferrara
Presentazione dello spettacolo multimediale Con gli occhi degli ebrei italiani da parte dei curatori Giovanni Carrada e Simonetta Della Seta. È presente Anna Maria Quarzi, Presidente dell'Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara
Presentazione del libro di Michele Sarfatti Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell'elaborazione delle leggi del 1938 (Zamorani, 2017), alla presenza dell’autore

lunedì 18 settembre 2017

Ebrei in Italia

La vicenda degli ebrei italiani è parte integrante della storia d’Italia e dei suoi snodi, ed è significativa di una realtà oggi attualissima: quella della convivenza tra culture diverse e del rapporto tra l’identità di maggioranza e quelle minoritarie.
L'ebraismo è una delle culture più antiche che vivono in Italia, dove la sua presenza ininterrotta è documentata fin da prima che comparisse il cristianesimo. E anzi, per certi versi, ne costituisce la premessa. La storia della comunità ebraica italiana affonda, infatti, nel II secolo prima dell’era volgare (a.C.), come testimoniano reperti archeologici di lapidi tombali e iscrizioni dedicatorie. I primi ebrei arrivarono a Roma grazie agli intensi scambi commerciali nel bacino del Mediterraneo e già nel I secolo e.v. (d.C.) la comunità ebraica romana era fiorente e stabile, tanto che poté riscattare gli ebrei fatti schiavi durante l'assedio di Gerusalemme del 70, quando il generale Tito, futuro imperatore, distrusse il Tempio per ordine del padre Vespasiano. Da Roma gli ebrei si sparsero presto lungo tutta la penisola: a sud, dove raggiunsero fino al dieci per cento della popolazione, e a nord, soprattutto lungo le coste.
Gli ebrei italiani sono quelli che vivono in Italia o hanno ascendenze italiane o, in senso più ristretto, appartengono all'antica comunità di rito italiano (minhag italkì), diversamente dalle comunità risalenti all'epoca medievale o moderna, che fanno riferimento al rito sefardita (praticato dagli ebrei provenienti dalla Spagna e dal bacino mediterraneo) o askenazita (degli ebrei provenienti dalla Germania e dal nord Europa).
L’ebraismo italiano accolse e integrò, dopo il 1492, gli ebrei espulsi dalla Spagna, dal Portogallo e dai territori di dominio spagnolo, oltre a molti ebrei in fuga dal centro Europa. Alla loro fioritura vennero tuttavia messi continui limiti. A Venezia, nel 1516, fu fondato il primo ghetto della storia, una forma di segregazione in seguito istituita anche a Roma e in quasi in tutte le città italiane.
Solo dopo Napoleone gli ebrei italiani cominciarono ad essere emancipati e parteciparono numerosi sia al processo risorgimentale che portò all’Unità d’Italia, sia alla prima guerra mondiale, per difendere la patria. 
Nel 1938, le leggi razziali emanate da Mussolini segregarono e discriminarono nuovamente gli ebrei fino a provocarne la persecuzione, la deportazione e la morte (circa 9.000 furono arrestati in territorio italiano e uccisi durante il fascismo e l’occupazione nazista). 
Solo con la nascita della Repubblica e la firma della Costituzione è stata riconosciuta agli ebrei l’appartenenza di diritto all’identità dell’Italia, un Paese che hanno contribuito a fondare. 

mercoledì 26 luglio 2017

A Ferrara

Nasce il portale “Ebraismo in pillole”

È nato oggi “Ebraismo in pillole”, il portale dell’Associazione di cultura ebraica Hans Jonas, sostenuto dalla Fondazione Pincus per l’educazione ebraica nella Diaspora e dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
L’obiettivo è quello di aiutare gli studenti della scuola superiore (ma anche le persone un po’ più grandi) a saperne di più sulla cultura, la religione e le tradizioni ebraiche – tanto presenti in rete e sui mezzi di informazione -, perché è innanzitutto attraverso la conoscenza che vanno combattuti il pregiudizio antisemita, l’intolleranza e il razzismo. Spesso si ha paura di ciò che si ignora e spesso si ignora ciò che ci è prossimo. In questo senso, il portale vuole rappresentare un piccolo contributo alla costruzione di una società aperta, plurale e sicura.
Accanto ad articoli di ricostruzione storica e di attualità, e a una sezione dedicata ai pregiudizi sugli ebrei, il sito tratta alcuni argomenti-base e li approfondisce sotto forma di nove percorsi, curati da Micol Temin e Daniele Toscano: Dio nell’ebraismo, Il calendario ebraico, La Diaspora, La libertà e i suoi limiti, Ebrei e società civile, Rapporti ebrei-cristiani, L’antisemitismo, Il sionismo, Lo Stato d’Israele. Ciascuno di questi percorsi può essere utile agli studenti della scuola media superiore – destinatari prioritari del materiale presente sul sito -, per preparare ricerche o tesine.
Tobia Zevi si è occupato del coordinamento e Saul Meghnagi della direzione scientifica. Alla realizzazione del portale hanno, poi, collaborato Rav Roberto Della Rocca, Simone Bedarida, David Bidussa, Simonetta Della Seta, Anna Foa, Mario Toscano e Claudio Vercelli.

domenica 9 luglio 2017

Ricerca in Corso. Prigionia I Guerra Mondiale

E' attivata una ricerca in merito ai prigionieri austroungarici di lingua italiana in mano del regio Esercito

In particolare si chiede di:

1) reperire la lista dei nominativi dei prigionieri austro-ungarici presenti nel campo di Servigliano (FM) dall'agosto 1916 alla fine del 1918;

2) reperire la lista dei "soldati italiani redenti" di origine trentina (o friulana) presenti nel campo di Servigliano, per la "rieducazione" agli ideali nazionali, dall'inizio del 1919 al 1920;3) prendere visione di ogni documentazione utile per la piena ricostruzione della storia del campo di Servigliano nelle epoche in oggetto.In particolare uno degli obiettivi della ricerca consiste nel reperire i nominativi dei trentini (ma anche dei friulani, e/o giuliano-dalmati) "rieducati" nel 1919 all'interno del campo di Servigliano per risalire, attraverso i cognomi e nomi dei prigionieri e i borghi di nascita/origine, ad una mappatura delle valli e delle zone dalle quali provenivano, e ad una eventuale ricerca che permetta di rintracciare le loro famiglie in Trentino (e nelle altre regioni).La ricerca è particolarmente valida anche per ricostruire, oltre ad aspetti sconosciuti della prima guerra mondiale, la storia di molte regioni italiane e la storia della nostra italianità nel corso del tempo.

Paolo Giunta La Spada
Direttore Scientifico Casa della Memoria di Servigliano
338 571 571 6paologls@yahoo.it

giovedì 25 maggio 2017

Casa della Memoria Servignano


Informazioni sulla Casa della Memoria di Servigliano:I

l campo di prigionia di Servigliano, con la ex-stazione ferroviaria, oggi Casa della Memoria, è un luogo dove si sono consumate le grandi tragedie italiane del Novecento:

- la prigionia dell'epoca della prima guerra mondiale;

- la prigionia della seconda guerra mondiale; - la persecuzione, l'internamento e la deportazione degli ebrei nei campi di sterminio; - la profuganza giuliano-dalmata.Il percorso storico del campo di Servigliano racchiude per intero l'identità del nostro territorio e svela vicende di prigionieri e ospiti che vanno scoperte, indagate, conosciute, al fine di mostrare alle giovani generazioni quali conseguenze terribili rechino le guerre di ogni genere, e quanto sia necessario sviluppare ogni giorno, e in ognuno di noi, il rifiuto delle ideologie totalitarie e di ogni razzismo.

L'Associazione storica Casa della Memoria di Servigliano, è da anni impegnata nella ricerca storica e nella formazione, a partire dalle vicende del campo di prigionia di Servigliano, sui temi della storia d'Italia del Novecento. E' in contatto con università, enti culturali e istituti storici in Europa che lavorano sul tema della ricostruzione della memoria e dell'educazione alla pace. Collabora con Escape Lines Memorial Society (ELMS), il Monte San Martino Trust, l'Eden Camp, nel Regno Unito;  l'Associazione Rosa Bianca di Monaco di Baviera, in Germania; la  Maison d’Izeu, in Alta Provenza, Francia. In Italia collabora con l'A.N.P.I., con il Museo della Resistenza di Roma, con l'Istituto Storico del Movimento di Liberazione di Fermo, con l'Istituto Storico del Movimento di Liberazione di Ascoli, con le aree museali dell'ex-campo di Fossoli e di Villa Emma, con il Laboratorio di Storia di Rovereto, con il Museo della Memoria di Assisi, con il Comando Esercito Marche, con scuole di tutta Italia e con numerose Università.

Collabora con l'Associazione Venezia Giulia e Dalmazia e con la Società di Studi Fiumani. Ha esperienza di organizzazione e gestione tecnico-didattica di numerose conferenze, seminari di studio, presentazione di libri e ricerche. Ha curato corsi di formazione sulla storia della Shoah e dei genocidi. Ha curato seminari di studio sul tema della prigionia nel Novecento. Produce libri, saggi, film, video, documentari sui temi della storia d'Italia nel Novecento e sulle  vicende del campo di Servigliano e ha costituito un archivio storico di documenti e reperti.

Cura e guida ogni anno le visite al campo di docenti e scuole che provengono da tutta la regione Marche e, in alcuni casi, da tutta Italia. L'Associazione si avvale della ex-stazione ferroviaria, adiacente all'ex-campo di Servigliano, attrezzata come aula multimediale e corredata di numerosi schermi e monitor. 

sabato 13 maggio 2017

"Il mio magone albanese" di Aldo Terrusi . Foto del Carcere di Burrelj


Il carcere di Burrelj do ve fu rinchiuso Giuseppe Terrusi, 
Governatore della Banca d'Albania ed ove mori nel 1952

 Il ciliegio del carcere di Burrelj



venerdì 5 maggio 2017

"Il Mio magone albanese" di Aldo Terrusi. Poesia

Albania terra natia
(sul campo di Burrel)


Terra natia,
accogliente e crudele.
Terra di fede e d’onore.
Terra di eroi e di martiri,
di eccidi e vendette.
Terra conquistata, straziata, sconvolta, liberata.
Terra amara, custode matrigna delle spoglie di mio padre!
Terra benedetta e maledetta,
rendimi le sue ossa, vittima innocente di una dittatura infame!

Padre, hai condiviso con i tuoi amici Angjel e Petrit *,
per sette anni, le torture dei vigliacchi carnefici,
lo sgomento della morte,
la speranza del futuro,
sei stato sepolto in questo arido campo.
Io so che sei qui,
accanto al ciliegio, saturo di sangue dei morti,
che ti protegge nella pietosa ombra.
Il vento sibila tra gli arbusti incolti,
porta le voci confuse e i lamenti delle anime erranti.
Tu padre fammi sentire la tua voce,
indicami la via per riportarti in patria!
Nell’oblio mortale, un grido di dolore ed una lacrima,
un pensiero per Aurelia ed Aldo
sono stati l’ultimo atto della tua vita terrena.
Un grido che ora esplode in me,
accompagnato da un pianto infinito:
perché, perché?
Perché il Dio degli uomini permette che uno di essi
 sia padrone di vita e di morte sugli altri?



                                                                                      Burrel, marzo 1993

                                                                                   Aldo Renato Terrusi
* Angjel Kokoshi, Petrit Velai
   compagni di cella a Burrel                                                           


mercoledì 26 aprile 2017

All'indomani del 25 aprile 2017

Se coloro
 che sono stati nei campi di concentramento nazisti
 avessero immaginato che 72 anni dopo
 in Italia
 si fosse svolta una giornata come quella di ieri, 

quale sarebbe stato il loro comportamento?

Sono proprio valsi tutti i sacrifici sopportati per dei posteri di tal fatta? 

Al rientro in Italia perchè non si è svolto un processo, come quello di Norimberga in Germania e quello di Tokio in Giappone, per chiamare alla sbarra a rispondere delle loro decisioni chi fu causa di tanti sacrifici?

Conversando con un Internato, 26 aprile 2017

Massimo Coltrinari 

mercoledì 19 aprile 2017

.“Wannsee”. La soluzione finale del popolo ebraico


 Continuando la nostra trattazione partita dalla passione per l’occultismo dei gerarchi nazisti, andiamo ad analizzare alcuni legami tra questa e le soluzioni pratiche adottate dagli stessi, in particolar modo Hitler, Himmler e Heydrich. La maggior parte delle riunioni programmatiche dei capi nazisti, infatti, avvenivano seguendo un rituale settario, come si evince dai diari pervenutici, soprattutto per l’argomento che andiamo a trattare.
È interessante notare come la “soluzione finale del popolo ebraico” fosse stata “varata” durante la famosa riunione del 20 gennaio 1942, in una palazzina della periferia di Berlino, e di come la decisione concludesse il progetto elaborato piano piano di passare dalla deportazione ebraica lontano dallo spazio vitale tedesco, all’isola del Madagascar.
Essendo tutto questo evidentemente troppo dispendioso, i gerarchi nazisti furono “costretti” a pensare ad una soluzione più pratica e quindi allo sterminio.
Conosciamo i dettagli dell’operazione da un personaggio molto preciso che ha fatto stilare un dettagliato diario degli eventi, Reinhard Heydrich. Abilissimo manager, aveva saputo fondare i servizi segreti delle SS nel 1931, aveva assunto la direzione della polizia politica e aveva messo a punto una sorta di Ministero del terrore tra il 1936 e il 1937, tramutato nel 1939 nel Reichssicherheitshauptamt o Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich.
Fu, dunque, uno dei principali artefici della gestione pratica della politica anti ebraica del Terzo Reich, fino alla sua uccisione a Praga, per mano di due partigiani cecoslovacchi, nel 1942. Eppure, la descrizione della riunione che ha portato alla decisione finale, scritta per ordine di Heydrich da Adolf Eichmann, non convince pienamente, se si pensa che alla data del gennaio 1942 le operazioni delle Waffen SS e degli Einsatzgruppen avevano già comportato il massacro di centinaia di migliaia di ebrei, mentre il centro di sterminio di Chelmno era già in funzione e si stava costruendo quello di Belzec. La riunione di Wannsee doveva convincere tutti i gerarchi nazisti della necessità di una soluzione finale già avviata da Hitler da mesi, eppure tanti aspetti della questione non sono stati trascritti nel resoconto di Eichmann per rispettare il segreto di Stato. Allo stesso tempo, ci si chiede perché, se le decisioni di Hitler non si discutevano, c’era bisogno di indire riunioni di convincimento, mentre lo stesso Heydrich voleva fare rivedere le leggi di Norimberga al fine di includere nella soluzione finale anche chi aveva soltanto uno dei genitori o dei nonni ebrei.
Hitler fu profeta, come lui stesso più volte si definirà, quando, in un discorso del 30 gennaio 1939, a celebrazione del sesto anniversario della salita al potere, ipotizzò una guerra dovuta alla consorteria ebraica, quel nemico che agitava davanti agli occhi dei suoi ascoltatori dal 1919.
Gli ebrei, come abbiamo letto nell’articolo precedente, erano diventati il vero centro dell’attenzione hitleriana e per essi i fiumi di pagine e di parole furono molti, a indicare tre tappe fondamentali della politica nazista. La proclamazione dell’intenzione di cancellare gli ebrei dallo spazio vitale germanico, il periodo necessario a iniziare il processo e ad elaborarne le fasi di sviluppo e, infine, la soluzione finale del popolo ebraico al quale per certi versi i nazisti finsero di essere stati costretti ad arrivare.
Eppure, pare che quasi nessuno avesse preso sul serio le parole del dittatore. Disse egli stesso: “Al momento della conquista del potere, soprattutto è stato il popolo ebreo che ha riso delle mie profezie, quando annunciavo che avrei assunto il comando dello Stato, e dunque del popolo in Germania, e che allora avrei risolto il problema ebraico”.
Nemmeno le potenze mondiali avevano tenuto conto delle sue intenzioni: alla conferenza di Evian del luglio 1938, indetta per raggiungere un’intesa sull’accoglienza degli ebrei espulsi dal Reich, i Paesi occidentali compresi gli Stati Uniti (dove solo il dieci per cento dei trecentomila ebrei richiedenti asilo avrebbe trovato accoglienza alla fine dello stesso anno), non erano pronti a larga generosità e, nel novembre dello stesso anno, meno della metà degli ebrei tedeschi e austriaci aveva lasciato il territorio tedesco. Tanto da fare dire ad Hitler: “è uno spettacolo assolutamente vergognoso vedere che le democrazie, da un lato, sbavano di pietà per il povero popolo ebreo e, dall’altro, si fanno di ghiaccio quando si tratta di compiere il dovere che a loro evidentemente spetta, cioè aiutare quello stesso popolo”.
In ogni caso, colpa degli ebrei era tutto quanto accaduto dalla fine della prima guerra mondiale, dalla perdita coloniale, all’inflazione, alla miseria tornata dopo la crisi economica americana, fino alle soluzioni dovute e da loro stessi sempre causate (sempre secondo l’ottica nazista), come la Notte dei Cristalli del novembre 1938.
La situazione intorno a quella terribile notte, è da ricondurre alla volontà di ogni accolito di Hitler di dimostrargli il proprio zelo. Il 26 ottobre Himmler aveva ordinato di arrestare tutti gli ebrei di nazionalità polacca e di ricacciarli in Polonia prima del 29 dello stesso mese. Contemporaneamente, un decreto polacco cercava di mettere un freno a tutti gli ebrei che chiedevano di entrare in Polonia per sfuggire alla persecuzione tedesca. Molti ebrei vennero così fermati alla frontiera polacca. Un uomo, i cui genitori avevano cercato rifugio in Polonia, ma erano stati ricacciati in Germania, sparò ad un diplomatico dell’ambasciata tedesca a Parigi. Questo fu il pretesto atteso per ribadire che era in atto un’ennesima cospirazione ebraica ai danni dei tedeschi e per offrire a Himmler la possibilità di iniziare quella politica di antisemitismo lontana dall’emotività, come chiedeva Hitler stesso, secondo la quale i pogrom non bastavano più e non erano adatti al popolo tedesco. Bisognava agire in modo organizzato, senza dare spazio all’emozione momentanea. Così l’8 novembre vennero riunite le squadre delle SS alle quali Himmler annunciò che la questione ebraica avrebbe acquisito sempre più importanza negli anni a venire, mentre il 9 venne annunciata la morte del funzionario tedesco dell’attentato parigino. Hitler diede il via libera a Goebbels per agire, mentre pronunciava un discorso nel quale si dissociava dalla punizione di partito degli ebrei colpevoli dell’attentato, ma non avrebbe impedito al popolo tedesco di vendicare la morte del proprio compatriota.
Himmler rimase stupefatto del fatto che Hitler appoggiasse il vero e proprio pogrom che ne scaturì, senza che ci fosse intervento delle SS, proprio perché in quel modo il partito sarebbe rimasto neutro nei confronti di un’azione attuata di fatto dal capo della propaganda. La Gestapo doveva arrestare tra le venti e le trentamila persone ebree e vegliare sulla rabbia dei cittadini tedeschi che, finalmente, avrebbero smesso di applaudire Hitler come colui che aveva salvato la pace. Non doveva esserci pace. Soprattutto contro gli ebrei. La Notte dei Cristalli permise, inoltre, di affidare alle SS, la nuova forma di stato che si andava organizzando, la gestione razionale della questione ebraica.
Proprio il 9 novembre 1938, Hitler aveva espresso a Göring l’intenzione di riposizionare gli ebrei in Madagascar, e quell’idea doveva diventare un accordo con le potenze mondiali comodo agli ebrei stessi, perché poteva diventare per loro merce di scambio per ottenere i salvacondotti. Nel frattempo, gli ebrei continuavano ad essere il nemico, non soltanto della Germania, ma di tutti i popoli, assieme ai loro alleati, spesso ebrei anch’essi, bolscevichi.
Nemici da combattere e annientare, nell’ipotesi non tanto lontana di una guerra. Se, allora, le potenze mondiali non avessero aiutato la Germania hitleriana a risolvere la questione ebraica, Hitler ci avrebbe pensato in Europa, in modo da spazzarli via inesorabilmente. Le intenzioni erano chiare, dunque, mentre soprattutto Francia e Gran Bretagna speravano che non sarebbero mai state messe in atto. Un prendere tempo che si rivelerà fatale. All’interno dei Reich cominciò ad essere praticata l’Operazione Eutanasia già dall’autunno 1939, utilizzando soprattutto lo schedario messo a punto da Heydrich, fissando al 20% le eliminazioni dei soggetti “indesiderati”.
Era evidente che, anche se l’operazione di spostamento degli ebrei fuori dallo spazio vitale tedesco fosse riuscita, rimanevano gli ebrei nel resto dei territori europei. Con l’inizio della guerra data dall’invasione della Polonia del primo settembre 1939, divenne poi evidente ai tedeschi, anche ai gerarchi nazisti meno propensi a pensare di eliminare sistematicamente interi gruppi di persone, che il numero di ebrei che si sarebbe dovuto gestire con l’appropriarsi di buona parte della Polonia, sarebbe stato immensamente alto. Fu così sempre più chiaro che si doveva trovare una soluzione definitiva della questione ebraica in Europa.
Se Hitler non aveva pensato di aggredire immediatamente gli ebrei europei con i propri gruppi d’assalto, era soltanto per evitare di fare alimentare una propaganda antitedesca internazionale che avrebbe soltanto nuociuto alla Germania. Infatti, Himmler gli sottoponeva ogni decisione riguardante le persecuzioni, proprio per evitare ripercussioni internazionali. Allo stesso tempo, Hitler era consapevole che non tutti erano davvero pronti ad accettare la necessaria soluzione eliminatoria definitiva degli ebrei, pertanto era opportuno essere cauti anche con la truppa e con tutti i reparti dell’esercito, in modo che arrivassero alla convinzione della giustezza delle decisioni e che fossero pronti a metterle in atto. Spesso, infatti, i nazisti venivano paragonati ai bolscevichi in quanto ad azioni violente, repressive e sanguinose, tanto che in discorsi del 1940, Himmler e Heydrich parleranno dei metodi nazisti come estranei alla metodologia bolscevica. Bisognava adottare metodi più “umani” di eliminazione delle sole elite, come infatti avvenne nelle prime settimane di settembre, quando in Polonia le squadre tedesche eliminarono circa settantamila persone, delle quali almeno ventimila delle classi superiori. Tuttavia, il metodo tedesco di selezionare per razza e deportare lo “scarto” era di gran lunga preferibile, come aveva infatti proclamato Hitler, così la selezione razziale prese avvio dall’autunno 1939. Dal 27 settembre di quell’anno, Heydrich raccomandò che le città vedessero la deportazione degli ebrei, che dovevano essere al più presto incamminati verso la Polonia assieme ai circa trentamila zingari presenti nel Reich. Per farlo dovevano essere utilizzati vagoni ferroviari per trasporto merci. Entro un anno doveva essere portato a termine il progetto di trasformare le vecchie provincie germanofone in veri distretti tedeschi, mentre chi non era di lingua tedesca doveva confluire nel distretto per la popolazione non tedesca che aveva come capitale Cracovia. Il progetto dovette essere modificato nel giro di pochissime settimane perché, mentre il territorio di deportazione si restringeva, il numero degli ebrei da deportare era triplicato in sole tre settimane. E i soldati si opponevano alla creazione di una riserva vicino a Cracovia, su modello delle riserve degli indiani d’America. Allo stesso tempo, lo spostamento della popolazione doveva garantire che, nell’imminenza della guerra contro l’URSS, alcune popolazioni tedesche non rimanessero intrappolate e ostaggio del nemico. Insomma, lo spazio diventava sempre più esiguo e le persone che “davano fastidio” sempre di più, quindi i responsabili nazisti locali erano sempre più impazienti di sbarazzarsi di tutta quella gente. Il 10 ottobre 1939 fu necessario tranquillizzare il commissario del Reich a Vienna che non vedeva l’ora di fare partire gli ottantamila ebrei che ancora risiedevano in Austria, ad esempio. La programmazione delle deportazioni seguiva un programma ferreo che doveva essere rispettato a qualsiasi costo, malgrado le proteste che si levavano continuamente per varie motivazioni, comprese quelle di ordine organizzativo pratico.
I gerarchi nazisti erano consapevoli che i loro progetti e il loro programma spesso erano fallimentari, come si può leggere in alcuni diari nazisti scritti a seguito di riunioni notturne che non mancavano di un certo rituale settario, anche se dalla parte delle vittime tutto sembrava organizzato alla perfezione. La deportazione di circa un milione di ebrei era davvero problematica e necessitava di continui aggiustamenti dei piani d’azione. Soprattutto se, in tutto questo, Hitler si rifiutava di agire e di prendere decisioni, senza le quali era impossibile procedere con l’attuazione pratica. Negli ultimi mesi del 1939 e nei primi mesi del 1940, allora, molti governatori locali si “arrangiarono” cercando di provocare la morte degli ebrei, oppure facendo loro sparare, in modo da eliminarli dalle zone tedesche ma, soprattutto, da togliersi il problema della loro gestione sempre più problematica. Nella primavera del 1940, Hitler si complimentò con i suoi perché l’attuazione di una serie di ordini aveva fatto sì che in Polonia non si stesse costituendo un sentimento polacco, sentimento nazionale che sarebbe stato molto pericoloso e difficile da gestire, possibile causa di rivolte.
La violenta repressione contro gli ebrei andava di pari passo con le conquiste belliche: già prima della possente avanzata tedesca della primavera 1940, c’era stato un aumento negli eccidi, per preparare il terreno alla gestione di un numero sempre maggiore di “nemici” ebrei. Il 13 maggio 1940, un decreto di Hitler vietava di punire, salvo in rari casi, la violenza dei militari contro i civili. Nel marzo 1941, Himmler ordinò l’apertura di un secondo campo ad Auschwitz, accanto a Birkenau, ma ancora non era un campo di sterminio: gli ebrei erano necessari come forza lavoro; ben presto vi ci sarebbero stati trasferiti anche migliaia di sovietici. Con l’Operazione Barbarossa, infatti, le cose si complicarono ulteriormente per la gestione non solo degli ebrei da deportare, quanto anche dei bolscevichi che dovevano essere eliminati. La lotta continua contro il tempo che sembrava essere stata ingaggiata dai gerarchi nazisti, era soprattutto incentrata ad impedire l’avanzata del comunismo perché, secondo Hitler, proprio il tempo avrebbe giocato a suo favore. Nel pieno svolgimento della seconda guerra mondiale che, rispettando le profezie del Führer, era stata scatenata nuovamente dalla consorteria ebraica ai danni della Germania, la parte profetica che prevedeva l’annientamento degli ebrei andava mantenuta, come sembrava infatti, così come si doveva non dare requie all’annientamento comunista bolscevico.
Già nell’estate del 1941, Eichmann parla della preparazione dell’imminente soluzione finale e dal settembre, infatti, la situazione degli ebrei europei va peggiorando a seguito della decisione di Hitler di deportarli dai territori del Reich all’Est europeo.
Dirà Himmler: “Il Führer desidera che, al più presto, il Vecchio Reich e il Protettorato siano liberati dai loro ebrei, procedendo da ovest verso est”. Era sua intenzione alloggiare entro l’inverno sessantamila ebrei nel ghetto di Lodz perché gli avevano riferito che c’era ancora posto. Sempre secondo Himmler, la deportazione verso l’Unione Sovietica, che sarebbe stata il coronamento della deportazione generale, doveva iniziare nella primavera del 1942. Heyndrich precisò il programma, suggerendo di mandare gli ebrei nei campi di concentramento di Stalin perché erano stati costruiti da ebrei, come suggeriva Goebbels, pertanto era da ritenersi assolutamente “naturale” che venissero “popolati da ebrei”.
Gli storici Jäckel e Burrin hanno affermato praticamente entrambi che il lungo dibattimento sulla “soluzione finale” dal punto di vista per lo meno teorico, dovesse avere avuto luogo durante i lunghi momenti trascorsi insieme tra Hitler, Himmler e Heydrich tra il 21 e il 24 settembre 1941.
A seguito delle decisioni prese, tra il 15 ottobre e il 5 novembre 1941 furono organizzati 24 trasporti verso Lodz, comprendenti diecimila vittime tedesche, cinquemila dal protettorato Boemia-Moravia e cinquemila da Vienna; vennero stipati nel ghetto in attesa di essere inviati più ad Est. Secondo Heydrich, i deportati avrebbero dovuto essere cinquantamila entro dicembre. Numeri che non vennero rispettati per mancanza di convogli di trasporto, anche se i dati e i numeri delle deportazioni variano da zona a zona.
Allo stesso tempo, dalle zone di deportazione arrivavano rapporti che sottolineavano, ovviamente dal punto di vista nazista, alcuni problemi organizzativi. Non essendo riusciti ad impossessarsi delle risorse alimentari sovietiche, i tedeschi vedevano eccessive pressioni sulle proprie riserve di provviste, pertanto era un problema pensare di cibare tutti quegli ebrei che venivano inviati ad Est. Le truppe cominciavano a dare segni di nervosismo, di insonnia e allucinazioni dopo migliaia di esecuzioni di persone, operate in vario modo, pertanto era “necessario” pensare ad altre soluzioni.
La tecnica della gasatura era già stata sperimentata, ad esempio, sugli alienati mentali e gli handicappati, circa settantamila persone, nella stragrande maggioranza tedeschi, tra il 1939 e il 1941, in quella che venne nominata operazione T4. Si trattava, dunque, di applicare le tecniche di eutanasia all’eliminazione degli ebrei.
L’operazione avveniva con grande riservatezza, per impedire che ci fosse la ribellione e la protesta dei cristiani praticanti che di certo non avrebbero accettato l’eliminazione programmata dei “malati incurabili” o degli “indesiderati”. Comunque, cominciò a diffondersi il principio della camera a gas, sperimentata in presenza di Himmler nel 1939, contemporaneamente alla sperimentazione dei camion a gas. Durante l’operazione T4, vennero eliminati anche degli ebrei non appartenenti alle categorie delle quote di eliminazione regionale per eutanasia. Ancora, però, non si procedeva secondo un piano programmatico e sistematico, quello che ricordiamo come Shoa.
Nello stesso periodo, si utilizzavano le paludi del Pripjet per sbarazzarsi degli ebrei, mentre Hitler cominciava a pensare ad un’altra terra inospitale dove spedire gli ebrei, come la Siberia o il Circolo Polare. Hitler sosteneva che “d’altra parte non è male che l’opinione pubblica ci attribuisca l’intenzione di sterminare gli ebrei. Il terrore è una cosa salutare”.
Si passò tra il 25 ottobre 1941 e il 20 gennaio 1942, data della conferenza di Wannsee, all’organizzazione da parte di Himmler e Heydrich, di un genocidio non più lento e “alla spicciolata”, ad un progetto di eliminazione su vasta scala.
Heydrich aveva conteggiato 11 milioni di ebrei in Europa che non andavano più deportati e lasciati morire, ma eliminati direttamente. Hitler, direttamente o indirettamente, appoggiava il progetto, affermando ad esempio, come fece il 5 novembre in un discorso privato con Himmler, che non avrebbe potuto oltre tollerare che la sana gioventù hitleriana morisse al fronte, permettendo di vivere alla popolazione criminale, cioè a quegli ebrei che avevano rubato la vittoria alla Germania nel 1918.
Le riunioni di Hitler con i suoi più stretti e fidati collaboratori avvenivano spesso di notte, iniziando a cavallo della mezzanotte, seguendo una sorta di rituale che ci fa avere dichiarazioni e affermazioni del Führer, ad esempio, nella notte tra il 9 e il 10 agosto 1941, o nella notte tra il 19 e il 20 dello stesso mese: “Se mi si rimprovera d’aver sacrificato cento o duecentomila uomini a causa della guerra, posso rispondere che, grazie alla mia attività, la nazione tedesca ha guadagnato fino a oggi più di due milioni e cinquecentomila esseri umani”, intendendo l’inserimento dei tedeschi etnici.
Dai diari degli accoliti che partecipavano alle riunioni, si evince il clima spesso etereo che si respirava alla presenza del Führer il quale curava nei dettagli posti assegnati ai presenti, parole, intenzioni, molte delle quali poi, come abbiamo scritto, venivano interpretate dai suoi gerarchi alla luce dell’emulazione che volevano mettere in atto del loro capo, oppure della volontà di compiacerlo, anche quando egli non pronunciava discorsi consoni a quanto essi avevano in mente.
In ogni caso, è bene sottolineare come ogni organizzazione, compresa la riunione del 20 gennaio 1942, preparata con l’invio degli inviti da parte di Heydrich dal 29 novembre 1941, dovesse servire a convincere il personale dello Stato che il genocidio che si andava decidendo fosse una decisione di Hitler presa durante un piano precedente, come si usava spesso retrodatare decisioni per fini politico-militari. E che la direzione del progetto dovesse essere interamente nelle mani delle SS, autorità suprema dell’operazione.
A seguito della conferenza di Wannsee, il 25 gennaio 1942 Hitler dirà che: “L’ebreo deve sloggiare dall’Europa” perché con la sua presenza, ogni intesa tra europei sarebbe stata impossibile essendo “L’ebreo che blocca tutto”.
Sarà la morte di Heydrich a scatenare l’accelerazione dell’operazione decisa a Wannsee; la sera del funerale di Heydrich, nel giugno 1942, infatti, Himmler incaricò di sterminare gli ebrei sotto il dominio diretto del Reich entro un anno. Iniziò l’operazione Reinhard soprattutto nei centri di Belzec, Sobibor e Treblinka dove morirono un milione e settecentocinquantamila persone entro l’ottobre 1943.
La morte di Heydrich non aveva fermato il progetto nazista, perché ogni gerarca agiva per prestigio e per decisione personale, spesso mettendo in atto rituali che non erano di pura emulazione, pertanto molti nomi volevano emergere agli occhi di Hitler e dell’opinione pubblica futura per la loro azione di sterminio programmato, continuandolo com’era stato ipotizzato, nominando, ad esempio, Auschwitz il maggior campo di sterminio in Europa.
Alla fine, per credenze, politica, ossessioni, i nazisti avevano messo in atto la più mostruosa organizzazione possibile in Europa: eliminare, o cercare di eliminare, la coscienza morale dell’Europa stessa e dell’Occidente, eliminando gli ebrei.

Comm. Alessia Biasiolo
Vice Presidente Federazione di Bresca
Istituto del Nastro Azzurro

Bibliografia essenziale
Edouard Husson: “Endlösung. Soluzione finale”, San Paolo, Cinisello Balsamo, Milano, 2007
Arno Mayer: “Soluzione finale: lo sterminio degli ebrei nella storia europea”, Mondadori, Milano, 1990
Hans Mommsen: “La soluzione finale. Come s’è giunti allo sterminio degli ebrei”, il Mulino, Bologna, 2005

Mark Roseman: “Il protocollo di Wannsee. La soluzione finale”, Corbaccio, Milano, 2002

mercoledì 29 marzo 2017

Da Duce a Prigioniero

di
 Alessa Biasiolo*

Sbarcati gli anglo-americani in Sicilia, la scelta alleata fu quella di uccidere Mussolini, in modo che, fuori gioco il Duce, gli italiani si sarebbero resi conto che il fascismo non poteva continuare ad essere la scelta politica giusta per il Paese. Le missive segrete o segretissime correvano da un comando all’altro e, mentre gli Americani erano convinti di continuare a bombardare Roma allo scopo di arrivare non solo a piegare la resistenza dei nervi degli Italiani, ma anche a radere al suolo, possibilmente, Palazzo Venezia e Villa Torlonia, Churchill era perplesso sulla necessità di una soluzione così drastica. Poco importava ai comandanti come Harris di dover distruggere monumenti storici unici al mondo, perché in quel momento risultava imperativo soltanto piegare la dittatura italiana. Churchill si consultò con il ministro degli Esteri Anthony Eden che, il 14 luglio 1943, gli rispose di non essere d’accordo sull’operazione denominata “Dux”, in quanto non era sicuro che Mussolini sarebbe stato nei suoi due siti (Palazzo Venezia e la Villa), non era certo che il bombardamento ne avrebbe causato la morte e, in caso l’operazione non fosse riuscita, si rischiava di tramutare la causa dei problemi in un idolo ulteriore. Il rischio, inoltre, di causare pesanti danni al patrimonio storico di Roma senza successi militari e politici, oltre all’estrema sofferenza inferta alla popolazione civile, avrebbe tramutato i “liberatori” in nemici assoluti del popolo italiano. Questo era il clima dei nemici, mentre Mussolini e Hitler si incontravano a Feltre e, come abbiamo letto, i bombardamenti su Roma non smettevano. Infatti, se si fermavano a terra gli aerei inglesi, recuperavano terreno quelli americani, che a loro volta organizzarono bombardamenti sulla Città Eterna per il 19 luglio, pur senza l’intento di colpire Mussolini, fatto comunque inutile, dato che era a Feltre per l’incontro con l’alleato tedesco. I risultati furono, invece, di distruggere numerosi siti, in modo particolare intorno a Ciampino, mentre i quartieri civili distrutti furono molti, inutilmente. Gli anglo-americani, inoltre, avevano abbandonato l’operazione “Brimstone” sulla Sardegna, per concentrarsi nell’avanzata verso Napoli e Salerno. Alternativamente, inglesi e americani organizzavano incursioni aeree che sfiancavano la resistenza italiana, sia sul piano militare che psicologico.
Rientrato a Roma, Mussolini si trovò a dover affrontare un clima pessimo. Il generale Vittorio Ambrosio si era già incontrato con il Re prima dell’incontro di Feltre, per discutere della destituzione di Mussolini. Ambrosio era convinto che, a fronte dell’iniziativa di sganciarsi dall’alleato tedesco, sostituendo all’occorrenza Mussolini con Badoglio o Caviglia, sarebbe riuscito a convincere il Duce a dichiarare una pace separata con gli aglo-americani, ma dopo l’incontro di Feltre, rivelatosi infruttuoso, era evidente che l’unica soluzione possibile era destituire Mussolini. Nel frattempo, un’iniziativa simile venne presa dal Partito Fascista, nella persona dei componenti del Gran Consiglio del Fascismo. Vittorio Ambrosio dal 20 luglio 1943 seppe che, essendo stato vano ai fini delle mire reali l’incontro con Hitler, Vittorio Emanuele III voleva sostituirlo con il Maresciallo Badoglio, ma non seppe rompere gli indugi fino alla decisione del Gran Consiglio.
Il 20 luglio, Mussolini si recò a visitare le zone di Roma colpite dai bombardamenti soprattutto americani del giorno prima. Al mattino verificò gli esiti del raid aereo all’aeroporto del Littorio e all’Università, nel pomeriggio all’aeroporto di Ciampino, dove non mancarono manifestazioni in suo favore. Quindi dovette recarsi dal Re a riferirgli dei colloqui di Feltre con l’alleato. Il clima non era dei migliori. Trovò il Re accigliato, nervoso, gli disse che la situazione era tesa e: “Non può più a lungo durare”. La Sicilia perduta, il morale delle truppe scaduto, tanto che gli avieri di Ciampino erano fuggiti a Velletri durante l’attacco, sostenne: “I Tedeschi ci giocheranno un colpo mancino”, ma del resto era stato chiesto loro di inviare truppe per contenere l’avanzata nemica. Aggiunse: “L’attacco dell’altro giorno io l’ho seguito da Villa Ada, sulla quale le ondate sono passate. Non credo che fossero come si è detto quattrocento gli apparecchi incursori. Erano la metà. Volavano in perfetta formazione”, ciò a dire che nessuno li aveva in qualsiasi modo infastiditi, contrastati da terra. “La storia della ‘città santa’ è finita. Bisogna porre il dilemma ai Tedeschi…”. Questo fu l’ultimo colloquio di lavoro tra il Re e Mussolini, che si incontravano regolarmente due volte la settimana dal novembre 1922 al Quirinale, il lunedì e il giovedì, Mussolini accompagnato dal Sottosegretario alla Presidenza. Altri incontri avvenivano in altre giornate, e in estate praticamente tutti i giorni, come quel mercoledì; il rapporto tra i due era cordiale, ma non divenne mai amichevole. Vittorio Emanuele III si era sempre dimostrato restio nelle scelte di guerra, tranne per la dichiarazione del 1940, da come ne scrisse Mussolini. Quello stesso mercoledì, a mezzogiorno, il segretario del partito Scorza portò a Mussolini l’ordine del giorno del Gran Consiglio del Fascismo di Grandi. Il Duce lo lesse e lo considerò inammissibile e vile. Scorza parlò a Mussolini di un “giallo”, ma non fu ben chiaro. Nel pomeriggio, Mussolini ricevette Grandi che trattò diversi argomenti, ma non affrontò quello dell’ordine del giorno.
L’indomani, Scorza parlò ancora a Mussolini di giallo in corso, ma sempre senza precisazioni, tanto che di nuovo il Duce pensò si trattasse di una delle solite voci di cambio ai vertici; verso sera, Grandi ipotizzò di rinviare la riunione del Gran Consiglio, come manovra ennesima e, forse, tentativo di crearsi un valido alibi, ma Scorza non ebbe conferma del rinvio quando telefonò a Mussolini. Questi sostenne che, ad inviti diramati e giorno fissato, si doveva arrivare ad un chiarimento. E così fu.
La riunione del Gran Consiglio ebbe luogo a Palazzo Venezia il 24 luglio, sabato, alle ore 17, alla presenza di 28 membri, su ordine del giorno di Grandi che recitava queste parole, dattiloscritte: “Il Gran Consiglio del Fascismo riunendosi in questi giorni di supremo cimento, volge innanzi tutto il suo pensiero agli eroici combattimenti d’ogni arma che, fianco a fianco con la fiera gente di Sicilia in cui più alta risplende l’univoca fede del popolo italiano, rinnovano le nobili tradizioni di strenuo valore e l’indomito spirito di sacrificio della nostre gloriose Forze Armate.
Esaminata la situazione interna e internazionale e la condotta politica e militare della guerra:
proclama
il dovere sacro per tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l’unità, l’indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l’avvenire del popolo italiano:
afferma
la necessità dell’unione morale e materiale di tutti gli italiani in quest’ora grave e decisiva per i destini della Nazione;
dichiara
che a tale scopo è necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali;
invita
il Governo a pregare la Maestà del re, verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché Egli voglia per l’onore e per la salvezza della Patria assumere con l’effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5° dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia”.
Seguono la data e le firme dei partecipanti: Grandi, Presidente della Camera; Federzoni, Presidente dell'Accademia; De Bono, quadrumviro; De Vecchi, quadrumviro; il genero di Mussolini Ciano, membro a titolo personale; De Marsico, Ministro della Giustizia; Acerbo, Ministro delle Finanze; Pareschi, Ministro dell'Agricoltura; Cianetti, Ministro per le Corporazioni; Balella, della Confederazione dei Datori di Lavoro dell'Industria; Gottardi, Confederazione dei Lavoratori dell'Industria; Bignardi, Confederazione degli Agricoltori; De Stefani, Alfieri, Rossoni, Bottai membri a titolo personale; Marinelli, ex-segretario amministrativo del Partito fascista; Albini, Sottosegretario agli Interni; Bastianini, Sottosegretario agli Esteri. Albini e Bastianini erano stati invitati, pur non appartenendo al Gran Consiglio. Mentre Farinacci, membro a titolo personale non firmò, ma si astenne anche di presentare il suo ordine del giorno in difesa del regime. Non firmarono il documento Scorza, Segretario del Partito fascista; Biggini, Ministro dell'Educazione; Polverelli, Ministro della Cultura Popolare; Tringali Casanova, Presidente del Tribunale Speciale; Frattari, della Confederazione dei Datori di Lavoro dell'Agricoltura; Buffarini, membro a titolo personale; Galbiati, Comandante della Milizia. Si astenne il Presidente del Senato Suardo. Anche l’ordine del giorno di Scorza, che voleva difendere l’operato del regime, non venne preso in considerazione.
In realtà, il documento riporta il principale ruolo italiano al Re, ma senza citare la cancellazione del regime. Sembra che i membri del Gran Consiglio non si fossero resi conto che, volendo deporre Mussolini come scelta per cercare di migliorare le sorti dell’Italia, sarebbero stati strumento del Re che aveva già preso le sue decisioni e che non aspettava fors’altro che il momento opportuno per attuarle. Sembra che ognuno riponesse fiducia in ciò che doveva fare qualcun altro, nell’intento forse di creare un triunvirato o di cercare il modo di salvare il partito e l’Italia, sacrificando soltanto la posizione di Mussolini. Il quale viene messo in minoranza dal Gran Consiglio per 19 voti a sfavore, 8 a favore e 1 astenuto. Sono quasi le tre di notte del 25 luglio. L’ordine del giorno Grandi viene approvato, Mussolini deve rimettere il mandato al Re. Cianetti cambiò idea di lì a poche ore, ma il risultato non cambiava lo stesso. Grandi affidò al Ministro della Real Casa Pietro d’Acquarone, lo stesso portavoce tra il re e il generale Ambrosio, il compito di informare il Re della decisione del Gran Consiglio.
Cos’era accaduto? Intanto, la riunione si doveva tenere come al solito alle 22, e invece era stata debitamente anticipata, prevedendo che la discussione sarebbe stata lunga. Negli intenti di Mussolini, doveva essere quasi una riunione segreta per chiarirsi tra loro, invece tutti i membri del Gran Consiglio erano puntuali, in uniforme, la classica sahariana nera. Non mancava nessuno. Il discorso iniziò da Mussolini, che espose una serie di documenti.
Mussolini dichiarò che la guerra era giunta ad una fase critica, dato che l’ipotesi che sembrava assurda di invasione del territorio metropolitano si era avverata. La vera guerra era iniziata dalla perdita di Pantelleria.
“In una situazione come questa tutte le correnti ufficiali, non ufficiali, palesi e sotterranee ostili al Regime fanno massa contro di noi e hanno già provocato sintomi di demoralizzazione nelle stesse file del Fascismo, specialmente tra gli ‘imborghesiti’, cioè fra coloro che vedono in pericolo le loro personali posizioni”.
E aggiunse: “In questo momento io sono certamente l’uomo più detestato, anzi odiato in Italia, il che è perfettamente logico, da parte della masse ignare, sofferenti, sinistrate, denutrite, sottoposte alla terribile usura fisica e morale dei bombardamenti ‘liberatori’ e dalle suggestioni della propaganda nemica”.
Egli era il responsabile della guerra ed era anche stato delegato al comando delle Forze Armate dal Re, ma su idea di Badoglio. A quel punto, Mussolini ricordò le varie fasi della decisione del Re, la volontà di Badoglio di avere un ruolo di primo piano nel conflitto, e molti altri dettagli della sua attività politica ultima, mettendo infine in chiaro che l’ordine del giorno Grandi sarebbe stato un pericoloso passo per l’esistenza del Fascismo stesso. Grandi prese la parola con notevole violenza, come volesse sfogarsi da tempo per ruoli interni. La discussione divenne accesa, fino a quando, verso mezzanotte, il Segretario Scorza propose il rinvio, che venne negato, e anche Mussolini era di quell’avviso. Dopo una pausa di un quarto d’ora, necessaria alla lettura dei telegrammi dalle zone operative, la seduta riprese, continuando la discussione, che finì con le parole di Mussolini stesso, alla lettura dell’esito della votazione dell’ordine del giorno Grandi da parte di Scorza: “Voi avete provocato la crisi del regime. La seduta è tolta!”. Dispensò anche i presenti dal saluto al Duce che Scorza voleva chiamare e si ritirò nel suo studio, dove venne raggiunto dai membri del Gran Consiglio che avevano votato in suo favore. Mussolini lasciò Palazzo Venezia verso le 3, accompagnato a Villa Torlonia da Scorza stesso.
La mattina della domenica, 25 luglio, Mussolini si recò come al solito al lavoro a Palazzo Venezia, dove arrivò per le 9. Alle 11 gli portarono il mattinale con la brutta notizia del bombardamento di Bologna. Arrivò notizia del ripensamento di Cianetti, mentre Grandi era irreperibile e Albini venne interrogato direttamente dal Duce circa la decisione di votargli contro, fatto non concesso, dato che non era membro del Gran Consiglio, e Albini, tra le scuse e il rossore, ammise solo l’ipotetico errore, ma anche l’assoluta fedeltà. In realtà elemosinerà un posto a Badoglio nel giro di poco tempo.
Mussolini incaricò quindi il suo segretario particolare di telefonare al generale Puntoni per chiedere quando il Re sarebbe stato disposto a riceverlo, in abiti civili. L’appuntamento venne fissato a Villa Ada per le 17 dello stesso giorno.
Alle 13, incontrò l’ambasciatore giapponese Hidaka, al quale riferì l’incontro di Feltre, quindi si recò in visita al quartiere Tiburtino, particolarmente colpito dal bombardamento del 19 luglio. Rientrò a Villa Torlonia per le 15, dove, alle 16.50, giunse il segretario particolare che lo accompagnò a Villa Ada.
Il suo animo era tranquillo, pensava di riferire sui fatti della notte e di rimettere il comando delle Forze Armate, se il Re lo avesse richiesto, o forse anche lo stesso, come pensava di fare da tempo. Il Re lo aspettava sulla porta della Villa, vestito da maresciallo; in giro un rinforzo di Carabinieri. Lo fece accomodare in salotto, il volto teso, e gli disse: “Caro Duce, le cose non vanno più. L’Italia è in tocchi. L’esercito è moralmente a terra. I soldati non vogliono battersi. Gli alpini cantano una canzone nella quale dicono che non vogliono più fare la guerra per conto di Mussolini”, e canticchiò dei versi della canzone in dialetto piemontese. Aggiunse che a Mussolini non era rimasto altro amico che lui stesso, con la rassicurazione che lo avrebbe fatto proteggere. L’uomo della situazione, in quel momento, era il maresciallo Badoglio che avrebbe cominciato a formare un Ministero di funzionari per l’amministrazione e avrebbe continuato la guerra. Tutti si attendevano un cambiamento, essendo venuti a conoscere della notte del Gran Consiglio e si sarebbe visto cosa sarebbe accaduto di lì a sei mesi. Mussolini mise davanti al Re le sue perplessità sulla scelta politica e militare, che avrebbe significato la sensazione di una vittoria per i nemici e per gli italiani l’idea che la guerra stava finendo, ma il Re lo congedò, livido in volto. Erano le 17.20. Mussolini, andando verso la sua automobile, venne avvicinato da un carabiniere che gli comunicò la volontà del Re di proteggere la sua persona, e lo fece salire su un’ambulanza. Si unirono il segretario De Cesare, un capitano, un tenente, tre carabinieri e due agenti in borghese. Erano armati di mitra. Dopo mezz’ora di tragitto, l’ambulanza si fermò ad una caserma dei carabinieri circondata da sentinelle con fucili a baionetta innestata; dopo una sosta di un’ora, venne portato alla caserma degli allievi carabinieri.
Ancora convinto di essere sotto protezione, Mussolini ricevette la visita di alcuni carabinieri che gli dimostravano simpatia, ma non toccò cibo. Di notte, arrivò un messaggio di Badoglio che scriveva: “Il sottoscritto Capo del Governo tiene a far sapere a V. E. che quanto è stato eseguito nei Vostri riguardi è unicamente dovuto al Vostro personale interesse essendo giunte da più parti precise segnalazioni di un serio complotto contro la Vostra Persona. Spiacente di questo, tiene a farVi sapere che è pronto a dare ordini per il Vostro sicuro accompagnamento, con i dovuti riguardi, nella località che vorrete indicare. Il Capo del Governo: Maresciallo d’Italia Badoglio”.
Implicitamente, si voleva rassicurare Mussolini che il regime continuava, dato che Badoglio ne faceva parte, avendone anche ricoperto ruoli importanti, allo stesso tempo rassicurando che la parola del Re veniva mantenuta.
All’una di notte del 26 luglio, Mussolini rispose al Maresciallo, dopo averlo ringraziato, che l’unica residenza di cui poteva disporre era la Rocca delle Caminate, dove era disposto a trasferirsi anche immediatamente. Assicurava anche, in nome della collaborazione avuta precedentemente, che non avrebbe posto al lavoro di governo di Badoglio, alcuna difficoltà.
Aggiunse che era contento della decisione presa di continuare la guerra con gli alleati tedeschi, riconoscendo il grave ruolo che Badoglio aveva assunto per ordine e in nome del Re “del quale durante 21 anni sono stato leale servitore e tale rimango”. Al Re non mandò alcuna missiva.
Forse ingenuamente, Mussolini credeva che la politica di Badoglio non sarebbe cambiata, sia per quanto riguardava la politica interna, mantenendo il fascismo, sia con gli alleati tedeschi contro gli anglo-americani. La partenza che sembrava sempre imminente, tardò fino al 27 luglio, quando un carabiniere, dopo le 20,  comunicò all’oramai ex Duce che dovevano partire.
Accompagnato da alcuni ufficiali, Mussolini era sempre convinto di essere portato a Rocca delle Caminate, invece, da uno spiraglio del finestrino dell’auto, vide che la direzione non era verso la Flaminia, ma verso l’Appia. Soltanto all’imbocco della strada per Albano chiese dove stessero andando.
La risposta l’ebbe da colui che era stato comandato di accompagnarlo, il generale Polito, diventato generale da ispettore di Polizia per equiparazione di grado. Era una vecchia conoscenza, noto per avere arrestato a Campione Cesare Rossi e aver sgominato la banda Pintor in Sardegna, e tanti altri aneddoti raccontò a Benito durante il viaggio, che evidentemente aveva altra meta dall’immaginata. Mussolini, infatti, era stato inviato all’isola di Ponza, passando da Gaeta e dal Molo Ciano, quasi un’ironia della sorte. Dal molo, l’ammiraglio Maugeri accompagnò l’illustre ospite alla corvetta “Persefone” che salpò all’alba.


* Comm. Alessia Biasiolo, Vice Presidente della Federazione di Brescia dell'Istituto del Nastro Azzurro

mercoledì 22 marzo 2017

"Il Mio Magone albanese" di Aldo Terrusi. Una pseudo testimonianza



Un Commissario politico albanese, non meglio identificato, fornisce la sua deposizione scritta al Consiglio del Tribunale Militare di Valona accusando Giuseppe ed altri civili di vari “misfatti” (App. 1).

Circolare 1 (App.1)

            Riguardo ai movimenti di alcuni italiani a Valona, la situazione si presenta nel modo seguente: a Valona si trovano più di 20 individui e  tra questi si distinguono come i più pericolosi:
1, D’Andrea, venditore di radio a Valona, 2, Belluzzi, ex Vice Console a Valona con il grado di Tenente Colonnello, 3, Terrusi, Direttore della Banca Nazionale a Valona, che ha consegnato il contante della banca ai tedeschi per non farlo prendere all’Esercito di Liberazione Nazionale (1*). Molto pericoloso. 4, Sinopoli, intermediario vicino al Clero Cattolico, 5, altri due Cattolici. Tutti loro sono molto legati gli uni con gli altri, hanno promosso, tra gli italiani di Valona, riunioni con obiettivi politici reazionari, 6, Monai e Verdi sono pericolosi e subdoli, lavorano in incognito, 7, Orlandi, molto pericoloso e manipolatore fa il doppio gioco, al momento aiuta l’Esercito di Liberazione Nazionale in modo apparentemente trasparente, è uno di quelli che seguono l’ideologia fascista. Per alcuni di loro è arrivato l’ordine, da parte del Generale Bonomi (2*), di arrestarli come criminali di guerra per i crimini che hanno commesso sulle spalle del popolo italiano. Il motivo per cui non sono stati arrestati e  sono stati lasciati liberi è stato per poter aiutare Verdi, ex Capitano di SIMI, a propagandare il fascismo. Tutti coloro sono alleati reazionari e molto dannosi per noi, altri italiani li accusano degli stessi reati,  un totale di 24 dichiarazioni che vengono allegate (3*).
Tra  queste dichiarazioni alcune contengono i misfatti nel distretto di Valona evidenziando gli abusi che sono stati perpetuati. Gli italiani che hanno rilasciato questi rapporti sono i sotto elencati: l’Ing. Delogu, l’impiegato bancario Chilovi,  l’impiegata bancaria Marina Piceci (4*).
Tutti e tre sono intellettuali e odiano gli imputati. Sono persone amanti della libertà e chiedono con insistenza di prendere misure restrittive contro di loro. Gli imputati sono reazionari e molto dannosi per la situazione odierna e soprattutto nel distretto di Valona, questi devono essere arrestati e devono essere trasferiti per un breve periodo in un altro luogo; l’allontanamento dal distretto di Valona cambierebbe totalmente la situazione riattivando il popolo italiano del Fronte Nazionale Comunista per la Liberazione.
Francesco e Rosati Diego (infermieri), il Maggiore Granata Raffaele e il Capitano dei Carabinieri Verdi (rappresentante dell’esercito), il Commissario Vasta Giuseppe per l’assistenza tra gli italiani, si sono riuniti negli uffici del Capitano Verdi e di Vasta, in accordo con Terrusi, Belluzzi e Giudice. Tutti loro hanno fatto parte delle file fasciste con alti incarichi di responsabilità. Nessuno di loro, tranne un amico e un partigiano, aveva un potere limitato o era un operaio (5*).
Quel Comitato si è riunito per fondare il Circolo Garibaldi (6*) (7*).

 (1*) Come prova dell’odio di Giuseppe verso i tedeschi esistono tre lettere autografe, private, indirizzate alla sorella Chiara in Italia, già citate nel presente volume, che portano date anteriori alla carcerazione, nelle quali è palese l’avversione di Giuseppe verso il nazismo e l’occupazione tedesca dell’Albania. Ovviamente essendo Giuseppe, Direttore di una Banca importante, la denuncia più ovvia ed infamante è quella di aver consegnato spontaneamente dei soldi al nemico.
E’ evidente come, certe accuse, miravano a distorcere e rovesciare la realtà dei fatti con ipotesi perverse senza il supporto di alcuna documentazione.

Lettera ( a )
Valona 22 ottobre 1944… Siamo stati liberati da circa 10 giorni e i briganti tedeschi sono andati via vergognosamente....
Lettera ( b )
Valona 27 novembre 1944… I vigliacchi tedeschi ne hanno combinate di tutti i colori e commesso tutte le atrocità possibili: abbiamo passato giorni di incubo e di terrore e anch’io sono stato sul punto di essere confinato…
Lettera ( c ) è inserita in originale (App.17).
Valona 8 gennaio 1945…Dal giorno della liberazione di Valona da parte delle truppe partigiane che hanno messo in fuga i briganti tedeschi (briganti nel senso peggiore), voglio sperare che tutti ve la passiate in buona salute e che quanto prima ci si possa riabbracciare…


(2*) Il riferimento è al “Protocollo preliminare di intesa” concluso il 2 agosto 1920 tra Italia ed Albania che stabiliva un’amnistia reciproca per reati di tipo militare. In particolare è completamente falsa e fuorviante l’accusa del presuntuoso Commissario politico.

(3*) Le dichiarazioni allegate che vedremo più avanti, non sono atti di accusa ma piuttosto di merito per Giuseppe...tranne una evidentemente prezzolata!

(4*) Il rapporto del Commissario si basa anche sulle informazioni fornite dell’Ing. Delogu, dell’impiegato bancario Chilovi e dell’impiegata bancaria Marina Piceci, che sono tutte testimonianze per “sentito dire”.
Non ha alcuna importanza chi siano i “testimoni”, come agiscono, da che parte stanno, l’importante che denuncino.

(5*) Per l’informatore è importante sostenere le accuse: sono intellettuali italiani, quindi fascisti, pertanto sono “pericolosi e dannosi” a prescindere. Gli albanesi amici degli italiani, sono collaborazionisti perciò meritano la stessa sorte. 
Il fantomatico giustiziere parla di Delogu, Chilovi e Piceci di “persone amanti della libertà” perché testimoni in favore delle proprie tesi, contrapponendole al gruppo che lui aveva individuato come “persone pericolose”.
Il poveretto non immagina nemmeno quanto la sua gente soffrirà i 50 anni della utopistica e fanatica dittatura di Enver “amante della libertà”, e quanti lutti colpiranno le famiglie albanesi!
Chilovi e Piceci confermano l’accusa solo a voce, senza firmare le loro dichiarazioni che sono sostanzialmente basate su ciò che hanno sentito. Essi indecisi e insicuri, privi di prove concrete, inducono il Commissario a chiedere al tribunale l’allontanamento del Direttore Terrusi e del Vice Direttore Belluzzi dalla Banca di Valona “per motivi di ordine pubblico” e “per qualche tempo”.
Tale richiesta è evidentemente legata ai difficili rapporti personali tra loro e la direzione della Banca e non ha nulla a che fare con le questioni politiche e militari albanesi.

(6*) L’informatore inoltre indica il Circolo Garibaldi quale covo nel quale si riuniscono persone “per l’assistenza agli italiani” da cui deduce il reclutamento di soldati italiani. Inoltre, afferma, che gli atti di pietà intrapresi dal Circolo, sono “dannosi per la comunità”, e che i soci, “fanno riunioni con obiettivi politici reazionari”.
In seguito alla furibonda e bestiale ritorsione nazista dopo il famigerato 8 settembre 1943, una grande gara di solidarietà ebbe luogo tra gli abitanti di Valona: grazie a essa molti militari italiani portarono a casa la pelle, salvandosi dai rastrellamenti e dalle deporta­zioni.
Il Circolo Garibaldi di Valona, nato con scopi ricreativi e culturali, che Emma Covi, moglie di Vitaliano Poselli, aveva fondato nel 1939 e ne era stata eletta presidente, aveva cambiato volto, era diventato una succursale per la sopravvivenza di molti militari italiani ed albanesi disperati al fine di proteggerli dalle persecuzioni, dai rastrellamenti e dalle deportazioni che si stavano perpetuando nei loro confronti dai nazisti. Tutto ciò veniva fatto solo per umana pietà e carità cristiana e nulla aveva a che fare con azioni di guerriglia, spionaggio o reclutamento.
Vennero organizzate raccolte di fondi per acquistare vestiti, scarpe, ecc. nonché per soccor­rere, alimentare e curare tanti giovani sbandati che erano rimasti letteralmente senza niente.
Due di essi, in particolare gli ufficiali dei carabinieri Nino Tagliani e Mario Verdi, trovarono,  per qualche tempo, ospitalità nella cantina della villetta che Emma occupava con il marito Vitaliano, geniale imprenditore, che si trovava accanto alla Ban­ca Nazionale di cui Giuseppe Terrusi era il direttore. Le loro armi: spade e pistole furono nascoste nel pozzo della villetta. La spola dei due capitani tra la villetta e la Banca (attraverso un passaggio nel giardino) avveniva a secondo delle modalità di perquisizione delle truppe tedesche.
Per la generosità e l’abnegazione dimostra­ta, Emma ottenne in seguito un riconoscimento ufficiale dalle autorità italiane.

(7*)  I due Capitani dei carabinieri, Tagliani e Verdi, accomunati nel loro tragico destino, rimasero in contatto con la nostra famiglia, protetti dagli amici del Circolo “Garibaldi”, fino ad ottobre del 1949 quando ci rimandarono in Italia come profughi, avvisati della partenza della nave “Stadium” per l’Italia, si presentarono all’imbarco in abiti civili ma riconosciuti furono fermati. Da notizie filtrate dagli amici albanesi: dopo la loro cattura furono deportati in un campo di concentramento. Sospettati come spie, furono incarcerati e condannati a lunghi anni di detenzione durante i quali vennero sottoposti ad umiliazioni e torture. Pur ridotti in pietose condizioni fisiche, i carnefici albanesi, non riuscirono mai a piegare la loro fierezza e il loro ammirevole esempio di fedeltà. Essi sono tra i tanti militari italiani di cui si sono perse le tracce.
A questo proposito è molto interessante la lettera autografa del Capitano Orombelllo G.Battista all’amico, Maresciallo Dibilio Salvatore:
Due comunicazioni ufficiali avevano comunicato la mia morte “Catturato dai Tedeschi in Albania e dagli stessi fucilato”. Dopo che ci siamo separati in seguito al pericoloso sbandamento del gennaio 1944, vissi molte ore gravissime e rischiose. Con una banda catturai il presidio tedesco del Ponte Drayote sulla Vaiussa (presso Tepelenë), rendendo così possibile il passaggio dell’intero Raggruppamento di Battaglioni verso Argirocastro, salvandolo dall’accerchiamento. In combattimenti immediatamente successivi, trovandomi con la retroguardia in seguito a grave contusione al ginocchio sinistro, tenni a bada i Tedeschi e salvai ancora il Raggruppamento (col quale procedevano i capitani Verdi e Tagliani, ma fui catturato per la terza volta, assieme a 24 partigiani albanesi, e dopo due giorni di gravi sevizie, che mi costarono alcuni denti, perché comandante militare di partigiani, perché persistetti a non voler collaborare coi Tedeschi, perché trovata una pistola vicino al posto della mia terza cattura, perché non volli svelare i nomi dei capi Partigiani né l’itinerario che il Raggruppamento seguiva, né i depositi dei Partigiani, fui, il 31 gennaio 1944, condotto al posto di fucilazione contro un muro di Tepelenë.
Per miracolo mi sottrassi all’esecuzione, o meglio per premio alla mia assoluta fermezza di fedeltà al giuramento. Quella stessa fermezza che ebbi anche nell’ottobre 1943 quando, come ricorderà, nella valle di Ramitza-Smokina, appena ricevuto l’invito del generale Azzi, vi dissi che era una “questione di onore e di dignità nazionale andare a combattere col Comando Truppe Italiane della Montagna contro i Tedeschi”. E tutti mi avete seguito; anche Lei, che rinunziò ad andare, coi venti compagni, ad Himara per tentare l’imbarco per l’Italia meridionale. Perché vi era l’onore d’Italia da difendere!