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mercoledì 7 dicembre 2011

Albania Il Caso Terrusi 11 L'avvio di una ricerca ulteriore


Grazie alla attività ed impegno di Luigi Nidito, il 2 novembre 2011 è stato presentato a Tirano la traduzione del volume di Massimo Coltrinari, La resistenza dei militari Italiani all'Estero - Albania, Roma, Commissione per lo studio della resistenza dei militari Italiani all'estero, Rivista Militare, 1999, pag. 1465, ill, cartine

La ricerca che si intende avviare a sostegno delle richieste del figlio di Giuseppe Terrusi parte da questo volume, sintesi del materiale raccolto

Chi avesse notizie o indicazioni in merito è pregato di prendere contatto attraverso la emali ricerca23@libero.it



Albania Il caso Terrusi 9 La richiesta per Giuseppe Terrusi

Ora chiedo alle autorità del Governo albanese:

1)   Che venga riabilitata la figura di mio padre,
Giuseppe Terrusi
 quale Direttore della Banca d’Italia e d’Albania.
2)   Che le spoglie di mio padre, che sono ancora sotto la terra del Carcere di Burrel, vengano riportate in patria.
3)   Che una Lapide ricordi i tutti caduti politici (albanesi e italiani) presso il carcere di Burrel e ci sia anche una stele in Loro memoria a Tirana.

Il Figlio

martedì 6 dicembre 2011

Albania Il caso Terrusi 8 La Presentazione del Libro


Ritorno nel Paese delle Aquile
Presentazione in Albania
26-28/10/2011


        - Devo esprimere un sentito ringraziamento all’Ambasciata d’Italia ed in particolar modo all’Istituto di Cultura Italiano per avermi invitato per “la settimana della Cultura Italiana” in coincidenza con il 150° anno dell’Unità d’Italia.
        -  Un grazie di cuore va a Gezim Peshkepia Membro dell’Istituto per i Crimini del Comunismo, nel quale ho riscoperto un vero e sincero amico.
        -  Devo anche sottolineare l’amicizia, il rispetto, e l’ospitalità di tutti coloro che mi hanno circondato in questi giorni e nel mio viaggio del 1993 ai quali devo immensa gratitudine.
Mi scuso per la forte emozione che sento, dato l’argomento che tratteremo, e che certamente traspare dalle mie parole.

Premetto che ciò che è scritto nel Libro “Ritorno al Paese delle Aquile” è tutto assolutamente vero: dalla storia, alle foto originali e inedite, alle interviste ai protagonisti.

Perché tornare in Albania?
Ciascuno di noi ha la necessità (direi l’esigenza) di avere memoria del proprio passato perché quel ricordo è la base fondamentale dell’esistenza futura di un individuo.
Senza memoria del passato è come vivere sulla sabbia anziché sulla terra ferma. Ti senti instabile, insicuro.
Ti manca un riferimento. C’è un vuoto che non riuscivo a colmare.
Questo provavo prima di affrontare il viaggio in Albania.

I primi anni di vita mi erano stati racconti dai familiari, densi di vicissitudini e incredibili avvenimenti.
Quei racconti avevano eccitato la mia fantasia e la curiosità suscitando in me un irresistibile desiderio di ritornare nei luoghi dove ero nato e che erano stati tanto rievocati dai miei familiari ma che in effetti non riuscivo a concretizzare.
Era come avere un Libro chiuso in un cassetto senza averlo mai letto.
Nonni e Zii avevano fatto del Loro meglio nel raccontare, solo mia madre sembrava non voler rievocare il passato: troppo forte era stato il suo dolore per quelle vicende.
Quegli anni li avevo vissuti anch’io e, nel mio piccolo, ne ero stato protagonista ma nella mia memoria rimaneva dei fotogrammi ma il resto era un vuoto. Soprattutto c’era un periodo, lungo 4 anni (dal 49 al 52), che purtroppo nemmeno i famigliari (eravamo rientrati come profughi in Italia nel ’49), se non i testimoni diretti, avrebbero potuto raccontare.
Poi c’erano le straordinarie vicende di mio padre e di mio zio.
Il Primo Direttore di banca, il secondo portiere della Nazionale albanese.

La mia ricerca del passato, la voglia di  mio zio di rivedere gli amici di allora ebbero il sopravento.
Quando alcune condizioni e particolari circostanze lo permisero: la caduta della dittatura di Enver Hoxha, la nascita di uno Stato democratico, l’apertura delle frontiere e la Cooperazione italiana in Albania, fu possibile organizzare un viaggio.

Quando in Europa cadde il muro di Berlino e cominciarono a spirare venti di Libertà anche in Albania ci fu un risveglio, si aprirono le frontiere…

Lo Zio Giacomo ed io cominciamo a pensare ad un viaggio in Albania…
La Cooperazione italiana, l’Ambasciata…1993

I luoghi (Tirana,Valona, Burrel), gli amici della Cooperazione Piergiorgio Ramundo, Toli Arapi, , l’ospitalità di Spartak Topollaj…le interviste incrociate…ad Angelo Kokoshi, Petrit Velai, i giocatori vincitori delle Balcaniadi del 1946…Javit Demneri e tutti gli altri.

Stavo leggendo per la prima volta le pagine di quel libro che era rimasto chiuso nel cassetto…

Perché scrivere un libro?
In verità non avevo l’idea di scrivere un libro.
Come spesso accade vicissitudini e circostanze determinano i tempi e modi dei nostri progetti.
Tornati dall’Albania avevo preso alcuni appunti solo per ricordarmi i nomi delle persone che avevo incontrato e gli avvenimenti del viaggio. Avevo riordinato le fotografie con particolare attenzione per comparare quelle del mio viaggio con quelle di 50 anni prima.
Le condizioni politiche in Albania del 1996, la salute di Angelo Kokoshi avevano bloccato le mie speranze di riportare in patria le spoglie di mio padre.
Le mie attenzioni si erano rivolte al mio lavoro, allo sport attivo e la cosa sembrava finita nel dimenticatoio.

Passano gli anni e arriva una telefonata (2006) da Spartak Topollaj (il direttore del Dajti, citato nel Libro). “Sono Console a Milano, vienimi a trovare”.
Così si sono riaperti i ricordi…
Poi la malattia di mia madre (2003)…dello Zio (2008)…
Qualcosa si stava perdendo, interrompendo ed io ero la sola persona che avrebbe potuto riallacciare il passato al futuro. La voglia di non dimenticare…Ritrovare, riepilogare, sintetizzare la nostra storia.
Come in un puzle era necessario riordinare le schede…ritrovare una logica temporale e storica e così era iniziata la ricerca e quindi le prime pagine scritte di quella che sarebbe stata la bozza  del mio libro.
La rilettura e la composizione degli avvenimenti, le interviste, i documenti originali, le lettere, hanno ricomposto la storia rispondendo a molte domande ma hanno lasciato aperti altrettanti interrogativi ai quali solo gli archivi delle istituzioni italiane e albanesi potranno rispondere.
Dovevo scrivere, mettere nero su bianco:
Per raccontare una storia vera che sembrava un romanzo.
Per lasciare ai giovani della nostra famiglia  il ricordo delle proprie origini.
Perché i fatti descritti e certificati trattavano di episodi singolari che avevano coinvolto la famiglia in un periodo storico molto travagliato per l’Albania.
Per un doveroso omaggio a chi aveva sempre lottato per la libertà, la democrazia, per una vita dignitosa e perfino eroica.

La stampa del Libro nel 2011
Anche qui le circostanze hanno determinato gli avvenimenti.
Nell’Estate del 2010 in vacanza  a Gallipoli. Mi sono informato presso un’amica, data la vicinanza con l’Albania, se conoscesse qualche editore…mi presenta Livio Muci, proprietario della casa Editrice BESA che rimane sorpreso dalla Bozza  giudicandola molto interessante.
Da lì la stampa…
Poi le presentazioni, le interviste, la diffusione, internet…
Inatteso scalpore del Libro: curiosità della gente, interesse dei media, attenzione delle autorità politiche.
E’ stato come se un forte vento avesse sollevato lo strato di terra e polvere dalle pagine di un vecchio Libro scoprendo una vicenda dimenticata dal tempo…la verità.

I documenti del  processo di Valona nel 1945 a mio padre, ritrovati presso gli Archivi del Ministero degli Interni di Tirana ad opera di Gezim Peshkepia, Membro del Consiglio Scientifico dell’Istituto per i Crimini Comunisti e le sue Conseguenze, hanno aperto un’altra pagina di storia…Dimostrando come quel processo fosse stato una farsa mettendo in luce l’innocenza di mio padre.

Albania Il Caso Terrusi 7 Il Processo


I capi di accusa:
1.     E' stato un fascista determinato e come tale è stato mandato dall'Italia in servizio in Albania in favore dell'organizzazione fascista.

2.     Mentre era direttore di banca in Albania e in occasione dell'avvicinamento della liberazione dell'Albania e dell'allontanamento dei tedeschi l'imputato con l'intento di non consegnare i contanti nelle mani dell'esercito della Liberazione Nazionale Albanese li ha consegnati all'Esercito Nazista.

3.     Con la liberazione dell'Albania il sopracitato ha fatto diverse riunioni in collaborazione con i suoi amici Arturo Orlandi eccetera per spedire i soldati Italiani, i quali si trovavano nelle file dell'esercito della Liberazione Nazionale, nell' Italia occupata dai Nazisti.


IL Tribunale Dichiara

            Colpevole l'imputato Giuseppe Terrusi e gli infligge 10 anni di carcere e la perdita dei diritti civili e politici per il tempo della detenzione. 


La richiesta di condono della pena scritta a mano da mio padre Giuseppe:

Valona 18 Febbraio 1946
Al tribunale del Popolo                                          Valona 18 Febbraio 1946
In merito alla requisitoria del Signor Procuratore, desidero confermare quanto segue:
       Sono giunto in Albania nel 1926 esclusivamente per lavorare (e non quale incaricato del popolo fascista)per impiantare le varie sedi della Banca Nazionale d’Albania, di Tirana, Korce, Saranda ed Argirocastro. Sono giunto quale semplice impiegato e la mia posizione di Direttore l’ho raggiunta dopo venti anni di lavoro tecnico.
       La mia iscrizione al fascio è dovuta unicamente alla necessità di ottenere il passaporto.
       In Albania non ho mai svolto attività politica, non ho mai coperto cariche presso il fascio, direttorio, ecc. Sono giunto povero e sono rimasto povero.
       Durante l’occupazione tedesca, quale antifascista, sono stato, insieme ai Sigg: D’Andrea e Belluzzi invitato per il 22 luglio 1944 ad abbandonare  Valona perché, secondo le parole del Maggiore Sciler “pericolose per la Sicurezza dell’esercito tedesco”. Tale provvedimento non fu adottato per l’intervento della Divisione Centrale della Banca di Tirana, che minacciò la chiusura della Filiale non potendo sostituire i due Funzionari.
       Prima della partenza dei tedeschi ho salvato circa 700.000 franchi, mettendo in rischio la mia vita.
       La dichiarazione del Sig. Shefit  Muharem è dovuta a motivi esclusivamente di rancore verso la mia persona, in quanto questo Signore, che in Banca era Kavas, era stato da me licenziato dopo due o tre mesi dal mio arrivo a Valona (gennaio 1940) perché in continuo stato di ubriachezza e dopo che tutte le mie raccomandazioni erano rimaste senza alcun esito. Gli impiegati di quel tempo possono testimoniare la mia asserzione.
Confidando quindi nella giustizia del Popolo, al quale non ho mai fatto nulla di male chiedo la mia assoluzione.
                                                                                     Terrusi Giuseppe



Come si poteva pensare ad una connivenza o accordo di Giuseppe con i Tedeschi?
Quando nelle sue lettere personali alla sorella in Italia si legge:

Valona 22 Ottobre 1944
Siamo stati Liberati da circa 10 giorni ed i Briganti Tedeschi  sono andati via vergognosamente.

Valona 9 Novembre 1944
Dopo circa 13 mesi di Terrore Tedesco (per poco non mi hanno internato) e dopo aver passato continue preoccupazioni, siamo stati liberati dalle truppe partigiane che abbiamo accolto con vero entusiasmo e con gioia. Adesso viviamo in piena pace e tranquillità.

Valona 27 Novembre 1944
I Vigliacchi Tedeschi ne hanno combinate di tutti i colori e tutte le atrocità possibili: abbiamo passato giorni di incubo e di terrore ed anch’io sono stato sul punto di essere confinato, ciò che ho scongiurato a mezzo di persone amiche a Tirana. Ora tutto è passato e non ci sembra vero di essere vivi e sani.


Anni dopo il processo, in un suo discorso al popolo Enver Hoxha praticamente scagiona i direttori della “Banca d’Italia e d’Albania” da responsabilità dirette:

“Dopo la capitolazione dell’Italia fascista nel settembre 1943, l’esercito nazista prelevò l’oro albanese depositato presso la Banca d’Italia a Roma. I rappresentanti del Mi­nistero degli Esteri di Germania e quelli del Governo al­banese avevano riconosciuto, per mezzo di un protocollo firmato nella primavera del 1944, la proprietà dello Stato albanese su questa quantità di oro. Come se ciò non bastas­se, nell’ottobre 1944 il comandante delle truppe hitleriane a Tirana prelevò l’oro che era rimasto presso la banca nazio­nale d’Albania, dichiarando che l’avrebbe depositato presso la sede di Shkodra di questa stessa banca…”




Voglio introdurre un altro argomento:
Gli italiani civili emigrati in Albania erano lavoratori, vivevano in armonia con gli albanesi e non erano assolutamente a conoscenza delle trame delle alte gerarchie militari che programmavano una occupazione  strisciante e successivamente  una invasione possibilmente “morbida” dell’Albania.

Dal diario privato di Galeazzo Ciano


16 Ottobre 1938
Niente di notevole tranne un breve colloquio col Duce durante il quale gli consegno il rapporto del senatore Natale Prampolini (presidente dell’Ente per le Bonifiche Albanesi) sulle bonifiche in Albania e gli propongo di dare inizio al più presto alla bonifica di Durazzo che è la più economica, la più vistosa e quella più utile ai fini militari. E serve per placare le non ingiustificate inquietudini del Re.

19 Ottobre 1938
Serregi (Ministro degli affari Esteri albanese) , in partenza per l’Albania, riceve l’assicurazione della nostra cordiale collaborazione e la promessa di far qualche cosa in materia di bonifica. In realtà ho proposto al Duce, che ancora presso di sé il progetto Prampolini (presidente dell’Ente per le Bonifiche Albanesi), di dar subito mano ai lavori nella piana di Durazzo. Sono 3000 ettari recuperabili con meno di 20 milioni di lire. Ciò servirà a placare le inquietudini albanesi. Preparerà in parte il nostro lavoro futuro. E servirà anche a fini militari poiché ogni sbarco in forze dovrà poggiarsi su Durazzo e immediate vicinanze. Anche dal punto di vista psicologico, è utile che coloro che scendono in Albania, soldati e civili, abbiano la sensazione di trovarsi in una terra sana e feconda e non in un acquitrino desolato. Un’impressione migliore avrebbe forse cambiato la nostra storia del 1920 e ci saremmo impegnati più a fondo.

16 Febbraio 1939
L’Albania è inquieta. Un telegramma dell’Add. Militare a Tirana ha un po’ preoccupato il Duce: dice che il Re aveva ordinato la mobilitazione parziale e che Francesco Jacomoni (Governatore dell’Albania) era partito in volo per Roma. La situazione no è così drammatica: conferisco con Jacomoni che a dire il vero si mostra molto calmo. Ieri ha conferito col Re (Zog), il quale dopo aver ascoltato le nostre lagnanze, ha detto di avere qualche cosa a sua volta da dire. A Belgrado si sarebbe parlato di spartizione albanese, ma ha citato dei particolari che provano egli essere soltanto parzialmente e imprecisamente informato. Poi ha fatto cenno alla preparazione di un movimento interno, poggiato soprattutto sui fuoriusciti: particolare anche questo sostanzialmente falso. Ha citato molti nomi di persone compromesse: tranne quello di Koci, nemmeno esatti. Ha concluso riaffermando la volontà di intendersi con noi  ed ha mandato Jacomoni quale suo plenipotenziario per l’accordo. Quando riferisco per telefono al Duce, risponde: “Se avessimo già firmato il patto con Berlino potremmo attaccare subito. Adesso dobbiamo procrastinare”.  Quindi conferma le istruzioni che io avevo già inviate tre giorni fa ad Jacomoni e che si riassumono così: mantenere viva l’agitazione popolare ma non mancare di placare i dubbi di Zog dandogli tutte le assicurazioni che desidera. Intorbidare le acque in modo da impedire che le nostre vere intenzioni siano conosciute.

15 Marzo 1939
Le truppe germaniche iniziano l’occupazione della Boemia. La cosa è grave, tanto più che Hitler aveva assicurato che non avrebbe voluto annettersi un solo ceco. Quale peso si potrà dare in futuro alle dichiarazione di Hitler? E’ inutile nascondersi che tutto ciò preoccupa ed umilia il popolo italiano.  Bisogna dargli una soddisfazione, un compenso: l’Albania. Ne parlo al Duce cui dico anche la mia convinzione che oggi non troveremmo ne ostacoli locali ne serie complicazioni internazionali per intralciare la nostra marcia. Mi autorizza a telegrafare a Jacomoni di preparare movimenti locali e personalmente ordina alla Marina di tener pronta la seconda a Taranto. Telefono a Jacomoni che prospetta anche di mettere l’ultimatum al Re: o egli accetta lo sbarco delle truppe italiane e chiede il protettorato oppure le truppe sbarcano contro di lui. Conferisco nuovamente col Duce. Mi sembra un po’ meno deciso per l’operazione albanese. Tanto più che all’Ammiraglio Domenico Cavagnari, ricevuto prima di me, il Duce si è limitato a fare domande generiche circa la possibilità di eseguire uno sbarco, ma non ha dato istruzioni di sorta.





Albania Il Caso Terrusi 6

Quotidiano Mapo
Venerdì, 28 ottobre 2011
Aida Tuci

Aldo Terrusi ritorna in Albania dopo 18 anni a raccontare la storia di un amore trasformato in odio e che giurò vendetta. Si tratta della biografia della famiglia dell'autore del libro "Ritorno al Paese delle aquile", che è stato presentato ieri,  presso la Biblioteca Nazionale di Tirana.


Un libro con una dedica
Testimonianza dell’amore di Enver Hoxha per l’italiana Aurelia

Aldo Terrusi ritorna in Albania dopo 18 anni. Nel '93 rientra con lo zio  Giacomo Poselli, ex portiere della squadra di "Flamurtari" e della nazionale albanese vincitore delle Olimpiadi Balcanici del 1946. E’ tornato per trovare i resti di suo padre, morto nel famigerato carcere di Burrel nel 1952. Viaggiando da Tirana a Valona e poi a Burrel, ha trovato pezzi della storia raccontata da amici, colleghi e compagni di carcere di suo padre, Giuseppe Terrusi. Così ha conosciuto la triste storia di suo padre e sua madre,  Aurelia, la cui bellezza ha portato alla più grande tragedia della sua vita, la morte del coniuge Giuseppe Terrusi, nella prigione comunista albanese. Un amore trasformato in odio e che giurò vendetta. Si tratta della biografia della famiglia dell'autore del libro "Ritorno al Paese delle aquile", che è stato presentato ieri, presso la Biblioteca Nazionale di Tirana.
 Il libro è stato presentato in italiano, ma presto sarà anche in albanese.

La storia della famiglia Terrusi è una storia di quelle famiglie italiane, che, in cerca di una vita migliore, migrarono dal loro paese, nella seconda metà del XIX secolo, in altri paesi. Dopo un ricco percorso, i predecessori di questa famiglia arrivarono in Albania. Giuseppe, il padre Aldo, diventa un personaggio famoso nel settore bancario, principalmente nel sud, ad Argirocastro e a Valona, ​​con le funzioni del Vicedirettore e poi del Direttore della Banca italo-albanese di Valona.
In questo cammino, il destino e l'origine ha messo insieme i genitori di Terrusi, Giuseppe ed Aurelia. Ma prima di conoscere il suo compatriota Giuseppe, Aurelia, bellissima ragazza italiana, di solo 17 anni , crea amicizia con un giovane, vicino di casa ad Argirocastro, dove la sua famiglia si trasferì  durante la guerra italo-greca. Questo giovane a soli 22 anni, di nome Enver Hoxha, si affascinò dalla bellezza della nuova vicina di casa, l’italiana di nome Aurelia. Da  qui iniziano le sofferenze e le disgrazie della famiglia descritta nel libro di Aldo Terrusi. Mentre il futuro leader comunista di Albania, a 22 anni, studiava a Parigi, nutriva ancora simpatia per la bella italiana. Dalla capitale francese, inviava dediche, attraverso sua sorella, alla 17-enne, ma non veniva mai ricambiato. Era il 1930. Nel 1936, Aurelia conosce Giuseppe Terrusi, che sarebbe diventato suo marito. I due passeranno diversi anni a Valona, ​​dove Giuseppe è stato nominato Direttore della Banca italo-albanese, che si trovava nell'edificio dell’attuale Banca Commerciale nella piazza “Sheshi i Flamurit”.  Proprio in questo edificio a Valona verrà messo al mondo Aldo Terrusi, che nel suo passaporto porta come luogo di nascita, Valona. Le disgrazie di questa famiglia iniziano quando i comunisti salgono al potere. Giuseppe Terrusi inizialmente fu arrestato e imprigionato nel carcere di Valona, ​​poi trasferito in  quello di Burrel, dove morì il 3 marzo 1952, in circostanze che rimangono un mistero. Lui aveva 52 anni. Ancora oggi, suo figlio, Aldo Terrusi cerca le ossa di suo padre. "Non mi fermo finché non trovo i resti di mio padre. Voglio che almeno mio padre e mia madre siano vicini nell'altro mondo " - esprime il suo dolore Aldo Terrusi in una intervista al Quotidiano Mapo.

Come ha conosciuto il giovane Enver Hoxha, Sua madre? Che cosa Le ha raccontato?
Mia madre non ha mai voluto raccontarmi la storia della sua vita. Tutto ciò che ho imparato del passato della mia famiglia me l’hanno raccontato i miei nonni e lo zio, Giacomo Poselli. Lei (la madre) non ha mai voluto parlarne, perché per lei era una storia molto triste. Aveva perso il marito, l'unico amore della sua vita. Quando sono arrivato in Albania nel 1993 per cercare i resti di mio padre e di imparare quello che era successo, lei quasi si rifiutò di conoscere ciò che avevo scoperto in Albania. Non reagiva quando io raccontavo. E 'stato molto, molto doloroso per lei. Quindi l'unica cosa rimasta come reliquie del passato è un libro che Enver Hoxha aveva regalato a mia madre mentre lei viveva ad Argirocasto. Un libro dove Enver Hoxha scrisse una dedica: "Come ricordo di amicizia". Hoxha diede il libro a mia madre dopo essere tornato da Parigi, nel 1930. Un libro dal titolo "100 immagini da Parigi."

Solo questo libro è rimasto come prova di amicizia tra loro?
Anche alcuni messaggi che Enver Hoxha inviava a mia madre tramite la sorella, quest'ultima li consegnava alla sorella minore di mia madre. Questo era il modo di comunicazione tra loro.

Questi messaggi sono scritti o verbali?
I messaggi sono stati scritti su pezzi di carta. E questo che so, perché in realtà nessuno di questi pezzi di carta non furono salvati. Dai miei parenti ho saputo che mia madre ha strappato tutto per vari motivi. L'unica cosa che è rimasta è questo libro, che è certamente un ricordo.

Erano messaggi d'amore?
Erano messaggi di richiesta di appuntamento, dove Enver Hoxha chiedeva di incontrare mia madre. Come ho saputo dai miei nonni e i miei zii, Enver Hoxha aveva chiesto a mia madre di sposarla. Un fatto che si conosceva anche dai suoi familiari. Ma quando tornò da Parigi e raccontò a mia madre le sue idee che erano lontani anni luce da quello che pensava mia madre, allora la loro amicizia si ruppe.

Quanti anni aveva Sua madre in quel periodo?
Mia madre aveva 17 anni e Enver Hoxha 22 anni.  Si può ben comprendere il desiderio di questo giovane, che cercava amicizia e affinità con una ragazza giovane e bella. È normale. Era chiaro che quando le idee politiche erano troppo forti per Enver, non ci sperava in un’amicizia tra loro.

Questa corrispondenza tra Enver Hoxha e Sua madre, quando ha avuto luogo e dove?
Ad Argirocastro, dove ha vissuto con la sua famiglia. A quel tempo non conosceva ancora mio padre. Si tratta degli anni 1927-1930. Il libro dove Enver "Come ricordo di amicizia" porta la data  1930. Nel 1936, mia madre si sposò con Giuseppe Terrusi, mio ​​padre e vissero Valona, ​​dove poi nacqui io. Sono cose accadute prima che mia madre conoscesse mio padre.

Cosa rappresenta  questo libro per Sua madre, che l’ha tenuto come unico ricordo dal suo vicino di casa?
Questo libro è certamente la prova di un'amicizia finita.

Come descriveva Sua madre Enver Hoxha?
E' successo solo una volta, quando lei molto brevemente e in pochi secondi mi ha fatto una descrizione di lui: "E' stato un ragazzo bello e affascinante"

Tua madre si è sposata dopo la morte del padre Giuseppe Terrusi nel carcere di Burrel?
No, assolutamente. Mia madre non si è mai sposata, è rimasta vedova per tutta la sua vita. Ma vi assicuro che era una donna molto bella e che ci sono stati in tanti che l’amavano, ma l'amore per mio padre era assoluto, era un amore ideale.

Il diario trasformato in biografia
Aldo Terrusi non aveva mai pensato di scrivere un libro, per di più biografico. "Tutto ciò che ho messo nero su bianco era solo un semplice diario. Le foto e gli indirizzi che io avevo notato in questo diario erano solo contatti di persone che avevo conosciuto in Albania per poter poi comunicare con loro, ma non ho mai avuto l'intenzione di scrivere un libro. In alcuni casi, ho avuto l’impressione di scrivere  più di quello che conoscevo. Ho sentito la necessità di mettere in carta il mio passato. Con la morte di mia madre e poi dello zio ho capito che ero rimasto solo io, ultimo anello della catena di quello che era accaduto in passato alla mia famiglia. Per questo motivo ho ritenuto necessario scrivere la storia della mia famiglia " - spiega Aldo Terrusi.

L’arresto e gli ultimi momenti di Giuseppe Terrusi a Burrel ...
Il mandato di arresto portava la firma di Enver Hoxha. Due membri del Movimento di Liberazione Nazionale sono entrati in banca e hanno messo le manette al Direttore della Banca italo-albanese di Valona, ​​Giuseppe Terrusi, accusandolo di essere un fascista. Per prima nella prigione di Valona e poi a Burrel. "Ci davano da mangiare una volta al giorno, sempre fagioli e patate, così tanto da soffrire ancora di ulcera" – racconta Angelo Kokoshi (morto), che aveva conosciuto il padre di Aldo nel carcere di Burrel. Un altro testimone presente al momento della morte di Giuseppe Terrusi è anche Petrit Velaj (vivo). ““Per tuo padre sono stato un vero amico. Abbiamo diviso il boccone e le sofferenze. Avevo 21 anni quando mi condannarono a morte. Per 77 giorni mi tennero legati mani e piedi. Per costringermi a denunciare i miei compagni, mi fecero scavare per tre volte la mia fossa davanti a un plotone di esecuzione. Ma io non reagii. Quando commutarono la mia condanna a morte in ergastolo, conobbi tuo padre. Due giorni prima di morire, fu trasferito nella cella destinata a coloro che erano in punto di morte. Soffriva molto, non riusciva a respirare. Ebbe un forte dolore al petto e poi cominciò a sanguinare dalla bocca. L’abbiamo sepolto vicino ad un ciliegio, da qualche parte della prigione" descrive gli ultimi momenti della vita di Giuseppe Terrusi, Petrit Velaj, un testimone oculare.

Un telegramma che annuncia ad Aurelia la morte del coniuge
Aldo Terrusi era piccolo quando è stato rimpatriato insieme alla madre in Italia. Dopo l'arresto, l’ultima volta che vide suo padre è stato quando fu trasferito dal carcere di Valona a quello di Burrel. Aldo Terrusi aveva solo 4 anni, ma ricorda ancora il giorno quando annunciarono la morte del padre. "Abbiamo sempre sperato che mio padre sarebbe tornato un giorno a casa. Mia madre sperava tanto, anche lo zio, ma un giorno bussa alla porta mia zia, la sorella minore di mia madre, che teneva in mano un telegramma. E 'stato l’orribile telegramma che annunciava la morte di mio padre nella prigione di Burrel, mia madre scoppio in lacrime"- racconta Aldo Terrusi.

I resti del padre persi in Albania
L’obbiettivo principale della prima visita di Aldo Terrusi in Albania nel 1993 era di trovare i resti di suo padre, rimasti in Albania. Dalle prove raccolte durante il primo viaggio nel 1993, da due ex detenuti che erano stati in una cella con suo padre, seppe che fu sepolto nei pressi di un ciliegio nelle parti della prigione di Burrel. E’ partito per Burrel con la speranza di trovare i resti di suo padre. Ma il ciliegio non c’era più e il posto che ricordavano i due testimoni non era più come nel 1952, quando suo padre morì.



Albania Il Caso Terrusi 5

Quotidiano “Shqip”
Mercoledì, 26 ottobre 2011
Oliverta Lila


Terrusi a Tirana per la storia della dittatura

Ritorno al Paese delle Aquile è il titolo del libro che Aldo Renato Terrusi presenterà giovedì 27 ottobre 2011, alle ore 11, presso la Biblioteca Nazionale di Tirana.
Fisico, nato a Valona nel 1945 da genitori italiani, il suo libro è un dramma familiare nell’Albania della dittatura, una di quelle storie che per anni hanno pesato sulla famiglia al di là del mare, in Italia. L'autore lo considera un diario per comprendere il passato. Organizzata dall’Istituto Italiano di Cultura nell’ambito della XI Settimana della Lingua Italiana nel Mondo, Aldo Renato Terrusi sarà introdotto dall’Accademico Kolec Topalli, Presidente del Consiglio di Amministrazione dell’Istituto degli Studi sui Crimini e sulle Conseguenze del Comunismo. Interverranno il Dott. Agron Tufa, il Dott. Pjetër Pepa e il Sig. Gëzim Peshkëpia dell’Istituto degli Studi sui Crimini e sulle Conseguenze del Comunismo.
Il libro racconta il percorso compiuto dall’autore in Albania, nel novembre del 1993, in compagnia dello zio Giacomo Poselli, famoso giocatore della nazionale di calcio albanese, alla ricerca delle proprie origini e della propria storia: Aldo Terrusi era ancora un bambino, infatti, quando il regime di Enver Hoxha arrestò il padre, direttore di banca a Valona, e lo fece rinchiudere prima nel carcere di Valona, quindi in quello di Burrel. Giuseppe Terrusi morì nel 1952 in quel terribile carcere, senza poter dare l’ultimo saluto al figlio e alla moglie. Sono le testimonianze dei suoi compagni di carcere Angelo Kokoshi e Petrit Velai, sopravvissuti a quell’inferno, a far conoscere al figlio gli ultimi istanti di vita di Giuseppe Terrusi e ad indicargli il luogo in cui il corpo del padre, ad oggi disperso, fu sepolto.
In un’intervista rilasciata per il giornale Shqip, il suo dramma, Terrusi, lo considera una vendetta d’amore di Enver Hoxha rifiutato da Aurelia. Secondo lui, il dittatore era stato innamorato della giovane ragazza italiana, che non ha mai ripagato. L’autore racconterà per i presenti fatti scritti nel libro.

Albania Il Caso Terrusi 4

Giuseppe Terrusi ancora, dopo 50 anni, non ha avuto quello che gli appartiene

“Alcuni di loro si sono fisicamente alzati in piedi; molti di più, nonostante la selvaggia, dura e lunga dittatura, “si sono alzati in piedi” dopo la morte, e il loro onore calpestato e la loro dignità disprezzata, anche se tardi, hanno trovato il posto che meritano, quello dei martiri della democrazia. Giuseppe Terrusi è venuto con onore e dignità a versare il suo sudore qui, ad offrire i frutti della sua conoscenza, a prestare il suo lavoro per il bene del progresso del paese e del vicino popolo albanese, ma ha trovato un dittatore mostro che lo ha ricompensato con l’arresto, le torture , le sparatorie e le prigioni. Il caso di Terrusi conferma un’altra dolorosa sentenza: “Anche se dai del latte al serpente, questo sputa solo veleno”. Purtroppo questo veleno è un serpente pericoloso come il dittatore Hoxha, che il 2 marzo 1952 aggiunge alla vergogna albanese anche il martire italiano del carcere di Burrel Giuseppe Terrusi. I dittatori credono di fare la storia, ma la storia si fa. A noi resta solo il compito di scriverla, anzi, se siamo onesti e capaci, di scriverla giusta. Questo ci dimostra benissimo il libro in questione, "Ritorno al Paese delle Aquile", che mette in luce la verità circa cinque decenni dopo il verificarsi dell'evento, dando quello che spetta al martire per l’ingiustizia del suo martirio ma anche al dittatore per l’infamia della sua dittatura.

Senza dubbio, in questo caso, parte del sacrificio è la famiglia stessa, la moglie che si separa per sempre dal marito e il figlio che cresce orfano con un padre vivo in un paese straniero, e poi sepolto da qualche parte nei pressi di un ciliegio, in una città straniera e lontana di nome Burrel.

Pertanto la famiglia, la moglie che non vive più, il bambino che dopo 50 anni ormai uomo viene a cercare i resti di suo padre, hanno lo stesso diritto di essere onorati e fieramente partecipi di quell’onore che spetta al nobile martire di Burrel Giuseppe Terrusi. La morale storica e universale, che viene dalla filosofia di questo semplice libro, è: “Guai a coloro che vengono catturati dagli istinti animali e cercano con ogni mezzo la falsa gloria. Beati coloro che sono nati e vivono, lavorano e muoiono come persone normali”. Tale è il nostro martire italiano del famigerato carcere di Burrel, che ricordiamo oggi in occasione della presentazione di questo libro semplice ma piacevole, di questo libro triste pubblicato dal figlio Aldo Renato Terrusi, che ha conosciuto e mantenuto vivo nei ricordi il padre solo attraverso fotografie e testimonianze dato che ne è stato separato a 4 anni. Egli oggi diventa anche per noi simbolo di un’altra nobile morale. Beati coloro che rispettano i loro genitori, i loro parenti, beato si deve sentire oggi anche Aldo Renato, l'autore di questo libro, che dedica al padre, al martire che dall'Italia è venuto a morire nella vicina terra albanese. Ma ancora oggi dopo 50 anni, non si sente tranquillo .. “Ogni bambino che nasce merita una culla, ogni uomo che muore merita una tomba” .. e suo padre non ha ancora preso la sua rivincita, quella che appartiene ad ogni uomo di questo mondo. Egli non ha una tomba, e Aldo vuole portare un mazzo di fiori, ma non sa dove.

Sotto i rami del ciliegio tutto è cambiato; la tomba del padre non c’è più perché le sue ossa non si trovano. E lui non sarà sereno finché non le avrà trovate, finché non avrà una tomba su cui portare un mazzo di fiori e finché non le avrà ricongiunte con le ossa di sua madre.
“Il compito di seppellirlo toccò a me e ad altri tre detenuti, forse perché eravamo i più giovani o forse perché eravamo stati i più cattivi. Abbiamo avvolto il cadavere in un lenzuolo e abbiamo scavato una fossa vicino a un ciliegio, fra le due recinzioni del carcere. Erano i primi giorni di marzo. C’era la brina, faceva molto freddo e il terreno era duro come un sasso, perciò faticammo molto per scavare. Avevamo le mani congelate. Mentre svolgevamo questo triste compito, le guardie ci deridevano e ci insultavano, ricordandoci che presto sarebbe toccato anche a noi. Quelle guardie non ci sono più ma io sono ancora qui! Vi dirò di più, so per certo che due delle guardie di allora sono state uccise durante il regime di Enver Hoxha, ma gli assassini non furono mai trovati ..”
Parte dell’intervento del Dott. Pjetër Pepa

Albania Il Caso Terrusi 3

Quotidiano Standart

Venerdi, 28 ottobre 2011

Violeta Murati

Aurelia Terrusi: Vittima oppure amore italiano del Dittatore
Ieri Aldo Renato Terrusi ha fatto un passo indietro.  Perché è ritornato in Albania nel 1993? Conosceva solo la prima parte della storia, quella del '45, quando la sua famiglia, il banchiere Giuseppe Terrusi, soggiornava in Albania, come direttore della banca, insieme allo zio, giocatore della squadra nazionale di calcio. Fin qui tutto sembra fantastico. Però gli mancava tutta la storia. Perché suo padre è stato condannato nel famigerato carcere di Burrel? Come è morto? Dove giace il suo corpo senza vita? "Mancava qualcosa in me, volevo capire la verità, perché la storia rimaneva a metà", raccontava ieri, Terrusi 50-enne. Capire cosa è successo nel corso di quattro decenni prima. Un impulso che l’ha portato a scrivere il libro, "Ritorno al paese delle aquile", all’inizio un semplice diario.
Premessa, come è arrivato al libro: Giuseppe Terrusi, direttore della Banca italo-albanese a Valona viene condannano "a sorpresa" e finisce in carcere con la firma del dittatore. Il figlio, Aldo Terrusi racconta, anche altre volte nei media, questa storia, come nel libro, che sua madre, Aurelia, aveva conosciuto Enver Hoxha, che allora viveva ad Argirocastro. Enver era innamorato della madre, e voleva fidanzarsi ad ogni costo. "Mia madre aveva ammesso l'amicizia con lui, ma nessun fidanzamento" continua Terrusi.  Dopo il ritorno di Enver da uno dei suoi viaggi a Parigi, l'amicizia è stata interrotta. Aurelia era fidanzato e poi subito sposata ad Argirocastro, nel 1936,  con il padre di Aldo, Giuseppe Terrusi. Sentito offeso, Enver  promette vendetta Appena Comandante dell’Esercito Nazionale, Enver manda in prigione mio ​​padre, Giuseppe, che  in quel momento, nel 1945, è stato direttore della Banca italo-albanese di Valona, ​​con l'accusa di aver rubato i soldi del popolo albanese. Non personalmente, ma attraverso le operazioni bancarie. Erano tutte accuse false, per le quali non sono stati trovati né prove né testimoni affidabili. L’assurdità affrontata da Aldo Terrusi: come il regime assassinava  anche con un solo testimone, per di più falso.
La sua presenza, ieri a Tirana, aveva un motivo: quello del testimone. Oltre al suo viaggio in Albania alla ricerca della sua origine e storia personale;  Aldo Terrusi un bambino di 4 anni, quando il regime di Enver Hoxha rinchiude il padre nella prigione di Burrel, dove morì senza poter vedere per l'ultima volta suo figlio e sua moglie.
L’incontro con Terrusi, la presentazione del suo libro è stato reso possibile grazie all'Istituto Italiano di Cultura in collaborazione con l'Istituto degli Studi sul Crimine e sulle Conseguenze del comunismo.
In confronto alle esperienza del '93, quando venne per la prima volta in Albania, dove le vicende lo seguirono fino al '96 quando smise si cercare la "sua storia", oggi Terrusi sostiene di aver avuto un grande sostegno da parte dell'Istituto degli Studi sul Crimine e sulle Conseguenze del comunismo. Perché? E’ rimasto stupito dalla logica politica di tutto il processo sulla trasparenza verso i crimini comunisti, specificando che grazie a questo Istituto è riuscito a trovare i documenti sul processo del padre, quelli del '45.
In questa occasione, gli interventi dell’accademico Kolec Topalli, del Dott. Pjeter Pepa e del Direttore dell’ISCC, Agron Tufa, sono stati tentativi di trasparenza verso la storia, di approssimazione alla verità, ma anche di memoria per quello che la dittatura  offrò alla storia degli albanesi "... un tale serpente pericoloso, come Enver Hoxha, avrebbe aggiunto alla vergogna degli albanesi anche il  martire italiano,  Giuseppe Terrusi,  rinchiuso nella prigione di Burrel e morto il 2 marzo 1952. I  Dittatori pensano di fare la storia, ma la storia si fa. A noi non rimane che scriverla, anzi, solo se siamo onesti e capaci, di scriverla correttamente. ", ha detto Pjeter Pepa nel suo intervento.
In perfezionamento alla storia, gli elementi e le prove si riferivano a quelle dell’altro detenuto Petrit Velaj di Valona, ​​che aveva assistito alla morte Giuseppe Terrusi, e che conosceva il posto dove il martire italiano era stato seppellito: “Il compito di seppellirlo toccò a me e ad altri tre detenuti, forse perché eravamo i più giovani o forse perché eravamo stati i più cattivi. Abbiamo avvolto il cadavere in un lenzuolo e abbiamo scavato una fossa vicino a un ciliegio, fra le due recinzioni del carcere. Erano i primi giorni di marzo. C’era la brina, faceva molto freddo e il terreno era duro come un sasso, perciò faticammo molto per scavare. Avevamo le mani congelate. Mentre svolgevamo questo triste compito, le guardie ci deridevano e ci insultavano, ricordandoci che presto sarebbe toccato anche a noi. Quelle guardie non ci sono più ma io sono ancora qui! Vi dirò di più, so per certo che due delle guardie di allora sono state uccise durante il regime di Enver Hoxha, ma gli assassini non furono mai trovati .. "                                                                                                                  
Ieri Terrusi ha confessato che non c'è mai stata alcuna intenzione di scrivere un libro. "All’inizio quello che ho scritto qui era solo un diario.  Avevo bisogno di mettere nero su bianco i ricordi  miei e della mia famiglia, ricordi che non riuscivamo a tenerli, come si doveva essere. Così ho pensato che era necessario scriverli. La morte della madre e poi dello zio mi ha reso consapevole che ero rimasto solo io, l’ultimo anello della catena , che potevo trasmettere quanto era successo, cioè la storia ".
Negli anni '91—‘93,  Terrusi decide di ritornare in Albania, insieme allo zio, per incontrare anche gli ex giocatori della squadra del '46.
“A quel tempo ho avuto il desiderio di toccare con le mie mani e vedere con i miei occhi dove la mia famiglia aveva vissuto, dove aveva soggiornato e passato i momenti di sua vita. Ho deciso di contattare due testimoni, che erano stati in carcere, il signor Petrit Velaj e Ëngjëll Kokoshi, imparando direttamente da loro che cosa era successo".
In una scala emozionale, in contrasto con la storia del '49 ', l'atmosfera che porta Terrusi, quella  trovata nel '93, era diversa, l’incontro, l’amicizia, le lacrime di gioia dello zio, Giacomo Poselli, quando ha incontrato i colleghi albanesi. "Sono rimasto affascinato da questa grande amicizia che mio zio mi ha raccontato. Una cosa molto bella, anche se tutti erano vecchi decisero di andare un giorno allo stadio "Qemal Stafa" e di fare una partita di calcio. Il peggio è venuto dopo, a malapena stavano in piedi dopo questo piccolo gioco. Infatti dopo pochi giorni il Comitato Olimpico ha premiato questi signori, eroi. E' stata una medaglia negata a  loro e data in  quel giorno. " Il viaggio continua a Valona, ​​rimane sorpreso dalla stessa immagine della Banca di Valona con quella di anni fa. "Un altra emozione speciale è stata quando sono entrato nella stanza dove mia madre partorì me. Si può capire l’emozione indescrivibile. Il mio obiettivo era quello di verificare cosa fosse successo a mio padre e per questo motivo siamo andati a Burrel. Prima ho avuto l'opportunità di incontrare e di sentire la testimonianza del signor Velaj, che mi raccontò il momento della morte di mio padre e che era stato proprio lui a seppellirlo”
Ha conosciuto da vicino la verità, ha avuto prove, (scritte nel libro), ha sentito storie sul carcere, come si alimentavano, si torturavano a morte. Ha visitato la cella in cui morì suo padre, il posto dove potrebbe essere sepolto.  Ha sentito la terribile storia del Sig. Kokoshi, "...Venivamo picchiati al centro di una cella situata al centro dell’intera prigione. Tutto avveniva di notte. In modo che tutti i prigionieri sentissero le grida di coloro che venivano picchiati. I primi picchiati venivano messi  all’interno di una tanica da gas e lasciati fuori. Quando era inverno queste persone, la mattina dopo, erano congelate ... "
Queste storie hanno emozionato tutti noi. Il ritorno di Terrusi ieri si associa ai ricordi, a quello che è rimasto vivo da sua madre, "mia madre ha strappato tutto, l'unica cosa salvata è un libro". Non si tratta di lettere d’amore di Enver Hoxha. "Da mia madre sono riuscito a ottenere una descrizione di pochi secondi su Enver. E 'stato un bravo ragazzo, molto affascinante ma con un carattere molto forte. Queste sono le parole dette. I commenti sono solo per il tempo in cui rimase in Albania. Lei ha chiuso la sua vita dicendo che non volva incontrare nessuno".
“Mia madre non si è mai sposata. E 'stata una donna molto bella, ma il suo amore per Giuseppe era assoluto. Per lei era un ideale", chiude Aldo Terussi il racconto su sua madre, che il dittatore trasformò in sua vittima, insieme al passato della famiglia Terussi.

Il racconto di Aldo Renato Terrosi

"Secondi di descrizione di Enver: bravo ragazzo, molto affascinante, con un carattere difficile"

Qual è stata la vera ragione della detenzione di Giuseppe Terrusi?
… Era il 1993, quando l'autore di questo libro, accompagnato dallo zio, Giacomo Poselli, famoso portiere della squadra nazionale albanese, tornò in Albania dopo molti anni, con un unico scopo: trovare le ossa del padre, morto nel famigerato carcere di Burrel.

Arrivò come dopo una lunga guerra che avesse distrutto ogni cosa; era come entrare in un luogo spettrale, dove tutto parlava in modo diverso dal mondo civilizzato. La prima cosa che gli fece impressione furono i bunker, oggetti apocalittici che ricordavano come questo Paese fosse rimasto in stato di guerra come 50 anni prima. Distribuiti su tutto il territorio albanese, erano l’assurda espressione di un potere che aveva voluto difendere a tutti i costi la sua esistenza contro un nemico immaginario, inventato, costruito nella mente malata e diabolica di un leader “visionario" come il suo naso. Erano stati costruiti nei campi, sulle colline, sulle montagne e sulle coste marine, come se la nostra terra avesse bisogno solo di cemento e ferro.

La strada da Rinas a Tirana è la più chiara dimostrazione della estrema povertà del popolo, testimonianza scioccante di una vita trascorsa con pochissimi mezzi, sufficienti soltanto per la sopravvivenza. Un paese distrutto, con edifici lasciati a metà, come uscito da una lunga guerra. Ma nella grande piazza della capitale l'autore trova momenti di orgoglio popolare: la statua di George Castriota, simbolo di resistenza per proteggere le terre, i costumi, le tradizioni, con un processo che si concluse con la nascita dello Stato, dell'identità e dell’unità nazionali, un’ottima lezione anche per i giorni nostri.

Il primo atto si svolge al Dajti, l'hotel dove gioie e feste si incrociano con i piani e i complotti politici. I ricevimenti del Re albanese con la contessa Geraldina, le visite del Ministro degli Esteri Ciano durante il periodo dell’occupazione fascista, gli incontri di Mehmet Shehu ed Enver Hoxha con i loro sicari, gli arroganti gerarchi tedeschi e i presuntuosi commissari politici albanesi, i complotti tra gli intriganti emissari di Mosca e le spie servili jugoslave, questi sono i ricordi che evoca questo edificio, un tempo centro di Tirana.

E ovunque l’autore vada, lo segue, come un fantasma colpito a morte, l'ombra del dittatore. Appare nella piramide della capitale, che sarebbe dovuta servire come il mausoleo della sua fine. Appare nei ricordi del suo luogo di nascita, dove la famiglia Terrusi visse per qualche tempo, ed è associata a molti amari ricordi, trascorsi da più di mezzo secolo.
Il presente e il passato, la nostalgia e la tristezza, la gioia e il dolore, gli anni Novanta e gli anni Trenta, la verità dei giorni della democrazia e gli slogan ingannevoli del dittatore, tutto questo si dipana e si intreccia attraverso indimenticabili ricordi.

“Un lungo interminabile abbraccio e lacrime di gioia”. Questo è il primo incontro di Giacomo Poselli con il suo vecchio amico della squadra nazionale, Xhavit Demneri. La sua storia familiare è quella di ogni albanese durante il regime comunista. Una volta confiscati l'hotel e ogni altra ricchezza, si trovò insieme alla sua famiglia in totale povertà.

Gli episodi si susseguono, si dispiega l’amaro passato. Poselli arriva a Tirana, mentre Giuseppe è imprigionato in carcere insieme a tutti i dirigenti della banca italiana con accuse assurde. Una speranza che si accende per liberare dal carcere il cognato non riesce: la speranza dell’amicizia con il Ministro dell'Economia Nako Spiro, che Giuseppe aveva conosciuto a scuola a Corfù, si spegne con il suo cosiddetto suicidio. E di nuovo l'ombra del dittatore: Spiro “era comunista ma certamente poco gradito a Enver”, scrive l'autore, di conseguenza fu accusato di deviazioni sciovinistiche. E fu sepolto con la grandezza di un leader. Era il metodo conosciuto di tutti i carnefici, uccidere di notte e piangere di giorno.
Ma quale era la vera ragione della detenzione di Giuseppe Terrusi?
Bisogna tornare indietro di qualche anno, negli anni '30 quando diverse famiglie italiane, fra cui quella di Aurelia, madre dell’autore, si erano trasferite nella città meridionale di Argirocastro. Aurelia aveva 16 anni, era una ragazza di rara bellezza, elegante, intelligente e con una perfetta educazione, che aveva imparato nella sua nobile famiglia e nella scuola di suore francesi. Si distingueva dalle altre ragazze della città.La sua bellezza, il suo comportamento, tutto in lei attirava l'attenzione dei giovani, in quanto ognuno voleva ricevere da lei uno sguardo, un sorriso, una parola dolce.
E la morte cominciò quando la bellezza di Aurelia attirò l'attenzione di un falco perverso e paranoico, che portava il nome di Enver Hoxha.
Approfittando del vicinato e dell’amicizia dei genitori, Hoxha cercò in tutti i modi di creare un rapporto con la innocente ragazza, la cui educazione e la cui visione del mondo non potevano andare d’accordo con la prepotenza e la violenza di questo giovane. Falliti i suoi tentativi, fu costretto ad allontanarsi per sempre da lei, non senza la promessa di vendetta. E la vendetta arrivò molti anni dopo, quando il marito di Aurelia, Giuseppe Terrusi fu arrestato e imprigionato nell’inferno albanese di Burrel fino al giorno della sua morte. Per fame? Per tortura? Per malattia? Lo sa Dio.
È la storia che si ripete più tardi con Sabiha Kasimati, uccisa con altri 21 con l’accusa di aver lanciato una bomba nell'ambasciata sovietica; si ripete con Musinè Kokalari, scrittrice di talento, che muore in isolamento, e chissà con quante altre persone, tutte vittime del dittatore.

Per Giuseppe arrivò il carcere a vita. Aveva avuto la possibilità di allontanarsi dalla piaga comunista che aveva colpito il nostro paese. Anzi, un amico di famiglia lo aveva pregato di partire per l'Italia, ma lui era deciso a non abbandonare i suoi collaboratori e amici della banca, così era rimasto, senza sapere quale tragedia si stava preparando per lui, per la sua famiglia, per i suoi amici e per tutti gli albanesi. “Per moltissimi stava per iniziare un lungo calvario” - dice l'autore.
In base ad un accordo tra la Banca d’Italia e il Governo albanese una parte degli impiegati doveva essere di nazionalità albanese. Successe che uno di essi, in collaborazione con altri due del movimento di liberazione nazionale, organizzò un furto alla banca. Si decise di licenziare l’impiegato, ma quello, per ordine del dittatore, continuò a lavorare. Era il tempo dei ladri, di quelli che sequestravano i beni dei commercianti, massacrati in carcere, condannati e uccisi, per poter confiscare tutto in nome del popolo, senza rispetto per le leggi e per i diritti umani.

Due mesi dopo la nascita di Aldo, nel marzo del '45, cominciò la vendetta primitiva di colui che era a capo dello Stato di polizia. Con un mandato di arresto a firma del dittatore Hoxha, si presentarono due del movimento di liberazione nazionale e ammanettarono il direttore della banca. Come consuetudine, dopo un’indagine associata a torture disumane, a porte chiuse, si tenne un processo-farsa senza avvocati, in cui i testimoni furono solo due impiegati, scelti dal dittatore, che avevano collaborato con i ladri per derubare la banca. Nessuno degli altri impiegati accettò la ricompensa del procuratore per sostenere l’accusa, mentre coloro che volevano testimoniare in favore di Giuseppe non furono accettati. Furono tacciati subito di collaborazionismo e fu chiusa loro la bocca. Il tribunale condannò Giuseppe a 10 anni di carcere. Il suo ultimo incontro fu quello con l'amico di famiglia Melis. Giuseppe, ammanettato, gli affidò la cura della famiglia, il figlio neonato in particolare. Era come un ultimo testamento, e non vide mai più nessuno.

 Molti furono i tentativi di liberarlo, come accadde a molti dei suoi compatrioti, che furono graziati. A Giuseppe non accadde.

Una volta andò al comitato centrale la stessa Aurelia, con la speranza di esser ricevuta da qualcuno, forse dallo stesso dittatore, ma invano. Più tardi uno dei carnefici, gerarca del regime, la convocò varie volte, facendole proposte inaccettabili in cambio della liberazione del marito, ma ricevette da lei solo risposte negative.

Arrivò il giorno del rimpatrio. Finalmente si partiva. Ma senza Giuseppe. Aurelia si imbarcò, con la speranza che un giorno l’avrebbe raggiunta anche il marito, che soffriva nelle carceri albanesi. Ma non lo vide mai, né vivo né morto. Dal carcere di Valona fu trasferito a quello di Burrel, dove morì tra le braccia di un altro carcerato, Petrit Velaj, che racconta: “Due giorni prima di morire, fu trasferito nella cella destinata a coloro che erano in punto di morte. Soffriva molto, non riusciva a respirare. Ebbe un forte dolore al petto e poi cominciò a sanguinare dalla bocca. Il giorno dopo morì. Era il 2 marzo del 1952. Morì all'età di 52 anni. La triste notizia arrivò alla famiglia in Italia attraverso un telegramma di poche parole, freddo come quel giorno di marzo nella lontana Burrel, dove morì. Mentre tre prigionieri scavavano nella terra gelata, guardie carcerarie li deridevano e insultavano dicendo che presto sarebbe venuto il loro turno”. Tale era il carcere di Burrel.
Il compagno di prigionia continua: “Quelle guardie non ci sono più, sono morte. Io invece sono ancora vivo. Per caso ho saputo che tutte e due erano state uccise durante il regime di Enver Hoxha da assassini che non furono mai trovati”. È la storia dei cannibali che si mangiano l'un l'altro.

Il quadro dei martiri viene chiuso dalla testimonianza di un altro compagno di prigionia, Angelo Kokoshi. “La prigione di Burrel era la più temuta. Ci davano da mangiare una volta al giorno, un brodo con fagioli oppure patate con una fetta di pane nero, tanto che ancora oggi perdo sangue a causa dell’ulcera. Le finestre erano senza vetri in un paese in cui l'inverno è molto rigido”. E continua: “Per tuo padre sono stato un vero amico. Abbiamo diviso il boccone e le sofferenze. Avevo 21 anni quando mi condannarono a morte. Per 76 giorni mi tennero legati mani e piedi. Per costringermi a denunciare i miei compagni, mi fecero scavare per tre volte la mia fossa davanti a un plotone di esecuzione. Ma io non reagii. In carcere c’erano anche mio padre e mio zio. Quando commutarono la mia condanna a morte in ergastolo, seppi della morte di mio padre e due giorni dopo uccisero mio fratello. Tre giorni dopo essere uscito dall'isolamento, morì tra le mie braccia mio zio, e qualche giorno dopo mia madre morì per il dolore”.

Concludendo, a nome dell'Istituto per gli studi dei crimini e delle conseguenze del comunismo in Albania, invito tutti a non dimenticare le sofferenze dei nostri padri e madri, fratelli e sorelle. Lasciate che siano loro la nostra memoria, senza la quale non si possono costruire il presente e il futuro.
Parte dell’intervento dell’Accademico Kolec Topalli