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venerdì 31 gennaio 2014

Turchia: la situazione dei rifugiati dalla Siria

Rifugiati siriani
Implicazioni turche della politica della porta aperta
Chiara Bastreghi
17/01/2014
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Nonostante i continui rinvii, l’Onu ha fissato per il 22 gennaio l’inizio ufficiale dei colloqui di pace “Ginevra 2” che dovrebbero favorire una soluzione internazionale al conflitto siriano.

La collocazione geopolitica della Siria, divenuta un tassello nevralgico anche per quanto concerne gli equilibri diplomatici tra Stati Uniti e Russia, ha fatto riecheggiare le ripercussioni degli eventi in corso nel paese ben oltre l’area del Mediterraneo orientale.

Le condizioni dei civili coinvolti nelle ostilità restano per il momeno una questione sospesa e di difficile gestione. Oltre alle vittime sul campo (che secondo una stima dell’agenzia Onu che si occupa di rifugiati, Acnur, sono superiori alle 100 mila), il conflitto ha provocato più di cinque milioni di sfollati all’interno del paese e ha creato un flusso di oltre due milioni di profughi, diretti principalmente verso Turchia, Libano, Giordania, Iraq e Egitto.

Tra questi, più di 500 mila sono donne, di cui circa 41mila in stato interessante. Impossibile da quantificare è invece il numero dei dispersi e degli arresti effettuati dal regime.

Ondata migratoria
La Turchia, sia per ragioni di continuità geografica sia per il sostegno offerto ai dissidenti e ai movimenti di resistenza al regime del presidente Bashar al Assad è, insieme al Libano, uno dei paesi maggiormente coinvolti da questa ondata migratoria.

A oggi i rifugiati presenti sul suolo turco sono circa 700 mila, prevalentemente sunniti, ma anche curdi, aleviti e turkmeni siriani. Secondo Kamal Malhotra, rappresentante interno del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) in Turchia, il numero potrebbe salire a un milione entro la fine dell’anno.

Il governo guidato dal partito per la Giustizia e lo Sviluppo, Adalet ve Kalkınma Partisi (Akp), persegue infatti la politica della “porta aperta” nei confronti degli esuli siriani già da marzo 2011, sebbene i valichi di frontiera siano chiusi di volta in volta a causa degli scontri che avvengono in prossimità del confine.

Fin dai primi mesi del conflitto e in accordo con le autorità locali, l’Acnur offre servizi e assistenza di vario genere, nel rispetto dei limiti impostigli dal governo turco. Ankara tratta infatti la questione come un tema di sicurezza nazionale e l’interno dei campi è gestito dalle autorità centrali, con scarsa volontà di coinvolgere - da un punto di vista organizzativo - paesi o enti terzi.

Secondo i report quotidiani dell’Acnur, circa 210 mila rifugiati vivono nei 21 campi allestiti dalle autorità turche (principalmente nelle città del sud-est come Gaziantep, Şanliurfa, Antakya, Kilis e Mardin), mentre almeno 346 mila risiedono al di fuori di queste strutture, disseminati in varie province, soprattutto in Anatolia. Mancano però complessi di accoglienza e la maggior parte degli esuli si trova al momento senza lavoro e denaro per provvedere a una sistemazione.

Campi profughi nel sud-est della Turchia. Fonte: UNHCR, Turkey Syrian Refugee Daily Sitrep.

Responsabilità da condividere
Il governo turco ha espresso la sua volontà nel riconsiderare programmi di reinsediamento in paesi terzi, ma la comunità internazionale, e in particolare i paesi europei, hanno finora offerto appena 30 mila posti. È sufficiente fare riferimento alla velocità con cui il numero di rifugiati sta salendo in Turchia per rendersi conto della scarsità della proposta: 30 mila sono i rifugiati che hanno attraversato il vicino confine anatolico nel solo mese di dicembre.

Erdoğan ha mostrato disappunto nei confronti dei donatori internazionali da cui sono arrivati solo 135 milioni di dollari per far fronte alla crisi migratoria, mentre la Turchia ha investito almeno 2 miliardi. Ankara fornisce non solo pasti e istruzione, ma pensa anche all’assistenza sanitaria dei rifugiati, provvedendo alla vaccinazione contro il virus della polio all’interno dei campi profughi.

Antonio Guterres, alto commissario dell’Onu per i rifugiati, ha annunciato l’intenzione di intervenire con delle sovvenzioni per aiutare i paesi confinanti con la Siria nella gestione dell’emergenza umanitaria. Le Nazioni Unite prevedono infatti che entro il 2014 almeno altri 2 milioni di siriani diventeranno rifugiati.

Politiche di integrazione
La situazione sta diventando insostenibile anche da un punto di vista sociale. Cresce infatti il risentimento tra la popolazione turca nei confronti delle ondate di profughi siriani, che senza prospettive di lavoro e in assenza di un deciso intervento dello stato faticano ad integrarsi.

Le opinioni espresse su siti internet come Ekşi Sözlük e la creazione di comitati ostili ai nuovi arrivati (“We don’t want Syrian Youth in Şanlurfa”) rappresentano la conferma di un malessere latente.

Ankara dovrà presto farsi carico di questo disagio e favorire appropriate politiche di integrazione che tengano conto delle esigenze dei rifugiati e dei timori dei suoi cittadini: anche qualora si creino le condizioni per una pacifica soluzione del conflitto, la questione dei profughi continuerà infatti a tenere occupate le autorità e la popolazione turca ancora a lungo.

Chiara Bastreghi è stagista dell’Area Mediterraneo e Medioriente dello IAI (Twitter: @ChiaBastre).
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lunedì 27 gennaio 2014

Giornata della Memoria


Per celebrare e ricordare la Giornata della Memoria è stato inserito nella Mostra che si è aperta a Cesena (di cui si darà ampia documentazione) il contenuto dell'Archivio, giunto fino a noi integro grazie alla iniziativa di Guido Belli,  del campo di Bendingbostel KRGF ARB KDO n. 206, Reichsbahn Bautrupp 1317.
Un fonte materica veramente eccezionale
I documenti sono in possesso del figlio Vittorio Belli, che ne ha curato l'esposizione

martedì 14 gennaio 2014

Volume. Il Gran Rifiuto






Il Volume 
"Il gran rifiuto. Storia e Storie dei Militari italiani internati nei Lager dopo l'8 settembre 1943"
 a cura di Daniele Vaienti, Carlo Riva e Massimo Balestra, 
sotto legista dell'Istituto "V.E. Giuntella" sarà presentato Sabato 25 Gennaio 2014 alle ore 10 a Cesena, complesso Grande Malatestiana Piazza M. Bufalini.

sabato 11 gennaio 2014

Un Problema Difficile, antesignano di tante tragedie

Corte europea dei diritti dell’uomo
Condanna all’Italia per le carceri inumane
Antonio Bultrini
30/01/2013
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A inizio gennaio la Corte europea dei diritti dell’uomo ("la Corte") ha condannato l’Italia in seguito al ricorso proposto da sette detenuti (tre italiani e quattro stranieri) negli istituti penitenziari di Busto Arsizio e di Piacenza (Torreggiani e altri contro Italia). La Corte ha appurato che i ricorrenti erano stati a lungo reclusi in celle di nove metri quadri occupate da tre persone.

Svolta
Ciascuno di loro aveva dunque fruito di uno spazio inferiore allo standard minimo di quattro metri quadri per detenuto stabilito dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (il meccanismo specializzato del Consiglio d’Europa). A Piacenza la ristrettezza eccessiva della cella era stata aggravata dalla mancanza prolungata di acqua calda e da illuminazione e ventilazione insufficienti.

Nel ricordare che gli Stati debbono “assicurarsi che (…) le modalità di esecuzione (...) non sottopongano l’interessato a una sofferenza che ecceda il livello inevitabilmente connesso alla detenzione” (sentenza citata, § 65), la Corte ha accertato la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che proibisce la tortura e i trattamenti inumani o degradanti, e ha accordato ai ricorrenti un totale di 99600 euro a titolo di risarcimento del danno morale.

La sentenza in questione rappresenta una svolta rispetto alla precedente pronuncia del 16 luglio 2009 nel caso Sulejmanović contro Italia (citatissima, nonostante la minore gravità dei fatti, proprio perché era stata vista come il preludio di un serio contenzioso a Strasburgo con riferimento alla situazione nelle carceri italiane). Torreggiani e altri è infatti una “sentenza-pilota”: la Corte accerta l’esistenza di un problema strutturale, corroborato da un elevato numero di ricorsi simili, e impartisce al governo un termine entro il quale predisporre un ricorso interno efficace e adottare misure generali appropriate.

La tecnica delle sentenze-pilota persegue un duplice obiettivo: da un lato mettere sotto pressione il governo interessato, dall’altro evitare che la Corte sia oberata dalla mole di ricorsi riguardanti il medesimo problema strutturale. Gli altri ricorsi sono dunque tenuti in sospeso, nella speranza che possano essere poi trattati dalle autorità nazionali (una volta istituita una via di ricorso interna efficace oppure mediante composizione amichevole). Se tuttavia il termine dovesse decorrere inutilmente, la Corte sarebbe allora costretta ad occuparsene, con tutto quello che ne conseguirebbe (anche in termini di risarcimenti).

In attesa di giudizio
Nel caso Torreggiani e altri l’Italia dispone di un anno per introdurre innanzitutto un ricorso efficace, cioè idoneo ad ottenere il miglioramento delle condizioni di detenzione. La via di ricorso (al magistrato di sorveglianza) al momento disponibile non ha tale caratteristica, anche perché le relative decisioni non vengono attualmente eseguite a causa, appunto, della natura strutturale del problema. Inoltre, è in pratica molto difficile chiedere una riparazione per le condizioni inumane o degradanti della detenzione.

La Corte ha anche richiamato l’attenzione dell’Italia sulle raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa in materia, le quali promuovono il ricorso a misure alternative alla detenzione e una rielaborazione della politica penale nel senso di intendere il carcere come extrema ratio limitata ai casi in cui “la gravità del reato è tale da rendere qualunque altra misura o sanzione manifestamente inadeguata” (Raccomandazione 99/22 del 30 settembre 1999).

Il trattamento dei detenuti è in ogni caso uno dei riscontri cruciali del livello di tutela dei diritti fondamentali. Per il detenuto in attesa di giudizio la detenzione, che costituirebbe una carcerazione ingiusta qualora dovesse essere prosciolto, diventa supplizio se per di più si svolge in condizioni inumane.

La Corte, peraltro, è stata colpita dal fatto che il 40% circa dei detenuti nelle carceri italiane sono proprio persone in attesa di giudizio. Per il colpevole, condizioni di detenzione inumane costituiscono un inasprimento gratuito della pena, in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione e a danno della sicurezza di tutti: gran parte degli esperti sottolineano che il lavoro dei detenuti e, qualora non sussistano seri motivi ostativi, il ricorso a misure alternative minimizzano il rischio di recidiva e facilitano il reinserimento del condannato.

Va detto che nel caso italiano la Corte ha escluso qualunque intenzione di umiliare i detenuti e ha dato atto di qualche modesto progresso in seguito ai provvedimenti urgenti adottati nel 2010. Una corretta attuazione della sentenza-pilota, tuttavia, richiede non solo interventi in ambito strettamente carcerario, ma anche un ripensamento delle politiche penali, ovvero un ridimensionamento del ricorso alla detenzione e l’individuazione di sanzioni alternative.

Ridurre il sovraffollamento delle carceri conviene certamente al Governo, che eviterebbe di dover affrontare le centinaia di cause pendenti a Strasburgo, ma anche al sistema-paese: prigioni più umane dovrebbero essere infatti il riflesso di un sistema penale meno afflittivo anche perché ripensato in un’ottica di efficacia e di prevenzione.

La condanna della Corte di Strasburgo, peraltro, conferma la fondamentale importanza, per l’Italia paese, del “vincolo esterno” europeo, senza il pungolo del quale certi nodi strutturali difficilmente verrebbero affrontati con decisione – o tout court. E pensare che fu un italiano, la cui opera ebbe un’eco anche nel resto dell’Europa, a scrivere, nel lontano 1764, che “il peso della pena e la conseguenza di un delitto dev’essere la più efficace per gli altri e la meno dura che sia possibile per chi la soffre”; “tanto più giuste sono le pene, quanto più sacra ed inviolabile è la sicurezza, e maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi” (Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, § XIX; § II).

Antonio Bultrini è professore di Diritto Internazionale e Diritti Umani, Università di Firenze.
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lunedì 6 gennaio 2014

I Diario di Prigionia. L'Inizio all'Isola d'Elba

Diario di mia prigionia
del soldato Monsù Egisto, di Luigi e Maria Stacchietti, nato a Recanati il 6 giugno 1914, residente a Filottrano, provincia di Ancona (Italia)

(trascritto da lui stesso a Riedlingen -Germania- a partire dal 20/9/1944 sul quaderno in cui ora si presenta manoscritto -e che dal diario stesso risulta essere stato uno dei suoi primi acquisti  nel Settembre ’44 appena fatto passare da “internato militare” a “lavoratore civile”, con momenti quindi di libera uscita dal campo di concentramento senza più scorta armata- ricopiando dai foglietti di “carta da gabinetto” da lui stesso cuciti in forma di quadernino nei primi tempi)

Casella di testo: Prima pagina  del diarioCasella di testo: Copertina del quaderno

 

 

Narro la mia prigionia


(L’8 Settembre all’Isola d’Elba)
Io sopraddetto ero soldato all’isola d’Elba nel 108° Reggimento Costiero dal 12 agosto 1943: vita normale, ma un po’ spiacenti essendo accampati nel colmo della montagna e del bosco, scomodi per il dormire, l’acqua, la città lontana, ecc..., ma pazienza, tutto si sopportava in santa pace in attesa di quel giorno decisivo della fine di questa guerra, che tutti ci soffocava. Giorno per giorno si aspettava questo momento. Diversi camerati di tanto in tanto facevano schiamazzi e grida “è finita la guerra!” ... la speranza li spingeva a questi scherzi  (cose solite che da un po’ non si notava più).













Casella di testo: n° 1 Egisto Monsù


Giunti al giorno 8 settembre, avevo io ricevuto posta da casa scritta da Maria (la moglie), che anzi mi mandava nella busta stessa due lamette da barba e una piccola bustina di tabacco e con questa tanto mi consolava, dato che da quasi un mese si viveva spasimanti per questo. Dunque, dato il caso che mi giunge questa lettera, alla sera dopo mangiato verso le 5 mi metto nella mia tenda a scrivere in risposta, mentre quasi tutti gli altri, come solito, si erano radunati vicino alla fureria verso la strada a fare chiacchiere e comitiva. Ad un tratto nuovamente sento il solito schiamazzo (“è finita!”) ma in un modo più assoluto del solito e con un sempre più armonioso crescendo di voci, poi mi vedo arrivare di gran corsa il più amico e paesano Tittarelli, da Jesi, che mi dice: “è finita, è finita!”. Allora anch’io esco e mi accerto di quanto si diceva: in verità io non provai sul momento l’effetto dovuto, mentre tutti svaligiavano il piccolo spaccio di tutto il vino ecc..., insomma fino alla mezzanotte tutti fecero chiasso e allegria. In seguito la cosa divenne più calma e seria, e per mezzo della radio si ebbe l’ordine di cessare le ostilità contro gli angloamericani e riaprirle contro chiunque venisse a molestare.
I giorni passarono fino al giorno 15 dello stesso mese, quando apparecchi tedeschi sorvolarono l’isola gettando bigliettini, intimando la resa a tutte le forze dell’isola. Senza altri fastidi così passò la giornata.
Il 16 poi di nuovo apparecchi sorvolano l’isola e infine bombardano colpendo la città di Portoferraio e una batteria contraerea, gettano ancora bigliettini intimando nuovamente la resa e dando quattro ore per la risposta -dalle 2 dopo pranzo alle 6- dopodichè avrebbero distrutto l’isola con bombardamenti terroristici.
(La consegna delle armi ai tedeschi)
In questo frattempo il comando superiore dell’isola ha deciso la resa e la sera stessa abbiamo avuto l’ordine di non sparare e di versare armi e munizioni al ripostiglio (come fu fatto).
La mattina del 17 sveglia molto presto, tutti al lavoro a caricare armi, munizioni e il materiale di tutta la compagnia, per inviarlo all’ammasso tedesco a Marina di Campo. Dopo duro lavoro arrivammo a sistemar tutto verso le ore 10, con una gran fame, perchè per motivi di lavoro i nostri comandanti non ci diedero soddisfazione di  cucinarci il rancio, per l’ultima volta. Nel frattempo tutti si pensava e mormorava quale sarebbe stata la nostra fine: chi la vedeva in un modo, chi in un altro, chi tentava di scappare per andare in Corsica, chi per andare nelle famiglie, ma poi in fin dei conti tutti sono rientrati perché tutto era impossibile.
Alle ore 10.30 circa, tutti inquadrati, si partiva in pieno caldo con tutto il materiale per l’ammasso già detto, e in questo stesso momento apparecchi tedeschi a più riprese gettavano paracadutisti sull’isola. Noi, via, carichi come asini, ci avviamo verso il destino. Si arriva alle ore 12 circa al posto deciso e lì troviamo altri camerati, materiali, un disastro di cose; le nostre armi finora tanto curate si gettano là, come ogni sorta d’altro materiale: tutto il cumulo era là in mezzo ad un orto, affiancato ad un vigneto, là tutto si devastava senza prezzo, monti di materiali di ogni specie prefiguravano il disastro. Sentinelle in coppia circondavano questo spazio con mitraglie, fucili, camion, motociclette, cavalli che circolavano tra i campi in ogni via, e noi italiani, soldati ed ufficiali là in mezzo racchiusi, ci guardavamo intorno e schiettamente ci si prefigurava quello che ci aspettava.

Casella di testo: Marina di Campo come rivista da lui stesso durante il “pellegrinaggio” del 1984
all’isola d’Elba



 (Il trasferimento in continente)
Verso le 1 circa, raggruppatici noi di compagnia, con un po’ di resti  di cucina che tutti avevamo nascosto abbiamo cucinato la pastasciutta (così anche verso le 4), poi in fretta tutti a costruirsi la tenda per dormire la notte, dato che di partenza non si parlava; invece, non appena terminato, arriva l’ordine immediato di partire. In un minuto siamo tutti pronti per la partenza col materiale indosso. Facendo strada, poco appresso si fa buio e noi tutti camminiamo accompagnati da sentinelle tedesche che viaggiavano avanti e indietro con le biciclette, come i cani che accompagnano il gregge delle pecore. In questo stato si doveva fare circa 50 chilometri, ma fatti nemmeno 10 chilometri più di un gruppetto cominciava a gettarsi a terra già stanco e poco alla volta si cominciava a vuotare gli zaini che pesavano non meno di 35-40 chili.
Insomma la nottata fu il buon giorno di tutta la prigionia.
Per arrivare a posto si camminò tutta la notte fin verso le 3 del mattino del giorno 18: ad ogni tappa c’era chi scappava da una parte o dall’altra a rubar uva, chi dormiva in un fosso, chi bestemmiava con i piedi rotti; insomma lo scompiglio e l’impressione erano indescrivibili.
Alla mattina sveglia alle 5; inquadrati dopo un immenso scompiglio e portati al porto, ci hanno consegnato due gallette e tre scatolette e verso le 10.30, imbarcati su tre zatteroni, abbiamo lasciato Portoferraio.
La  visione dell’imbarco provoca senza esagerazione  brividi alla pelle: tedeschi che ti strappano a destra e a sinistra come si fa con le bestie che vanno al macello, botte, pedate ecc...; quando lo zatterone era pieno al massimo, altri 50 uomini dovevano entrarci: 4 o 5 guardie alla porta davano spintoni col fucile, diversi venivano gettati a terra e calpestati dagli altri, e via altri 50 uomini dentro per forza. Era impossibile viaggiare in queste condizioni: l’aria diventa soffocata, chi si sente male da una parte chi dall’altra, chi vomita -come me- per il mare cattivo. Nel complesso non è facile  considerare se siamo persone o marciume.
Dopo l’insopportabile viaggio, verso le 2 dopo pranzo si giunge a Piombino. Sbarcati, si attraversa la piccola città per giungere al campo sportivo: la popolazione ci osserva e considera le ore strane da noi passate ed accorre a soccorrerci con acqua, liquori, ecc. Si giunge al campo sportivo. Appena entrati già si scorge le sentinelle con mitraglia che ci attendono nei dintorni del campo: ordine di sedersi a terra, guai a chi restasse in piedi. Invece la popolazione si affolla per parlare con l’amico, il fratello, il marito, ecc. ma nulla è permesso ed il dolore intanto aumenta. I  soldati che ci accompagnano incominciano a controllare chi ha orologi che più gli piacciono, li prelevano regalandoti qualche piccolezza se ti accontenti, altrimenti ci scappa pure qualche scapaccione.
Insomma in due giorni che siamo con loro già la cosa ci sembra insopportabile. Io, già considerata la nostra fine, scrissi una lettera ai miei di casa e a rischio di qualche maledetta botta riuscii a consegnarla ad un bambino, con la raccomandazione di spedirla non appena possibile.



(Il trasferimento verso il confine)
In seguito, verso le 2, si parte in treno per destinazione ignota, si trasente dire per un campo di concentramento a Verona, poi a Padova, Treviso, ma tutto è vano. Intanto il viaggio diventa sempre più duro: in 40 in un vagone con tutto il materiale. Insomma sempre più preoccupati si giunge, la mattina del 19 Settembre, nelle stazioni di Verona, Padova, Treviso, Udine,Tarvisio, e in queste ultime sarà indimenticabile per tutta la vita le cure e i soccorsi di quella gente: masse di popolo di ogni genere, uomini, donne, giovani e vecchi di ogni condizione, tutti ad attenderci lungo le stazioni. Quando giunge il treno, tutti si affollano al binario; c’è chi chiede bigliettini con l’indirizzo della famiglia e nostra firma per dare comunicazione ai nostri cari: quasi in tutte le stazioni vicino ai confini vi erano delle squadre di giovani donne con carta e matita addette a questo servizio; ci sono altri che domandano se c’è il tizio o il caio e tutti, generalmente carichi di ceste o valigie, ci consegnano a destra e a sinistra pane imbottito, bottiglie di vino e liquori, mele, pasta, uova e tutto ciò che si poteva trovare, sigarette, insomma non si descrive quanti soccorsi abbiamo avuto, perfino vesti da donna e uomo per cambiarci e scappare; c’era chi ci assicurava di portarci a casa loro e mantenerci in tutto; insomma ogni conforto si aveva, ma tutto era impossibile. Le donne e i vecchi quasi in generale ci confortavano e parlavano con le lacrime agli occhi, spesso si sentivano grida e si vedevano donne o giovani colpiti dalle pistole o i fucili delle guardie che ci accompagnavano e che quasi continuamente sparavano davanti alle nostre porte acciocchè la popolazione non si affollasse e qualcuno non se la squagliasse (come di fatto tanti tentavano e riuscivano, mentre tanti venivano colpiti dalle guardie e portati all’ospedale o anche forse ...). Insomma la cosa era impressionante, noi temevano per loro; e spesso si gridava “non venite, chè vi sparano”, ma questa gente nulla sentiva e non teneva conto di quelli che colpiti nella massa venivano trasportati all’ospedale, ecc., tutti facevano e rischiavano pur di soccorrerci, quella gente insomma era da ammirarsi e c’è da non credere a ciò che faceva per noi: io stesso credo che trovandomi in un simile caso non avrei avuto il coraggio di spingermi a tanto. Verso sera, giunti verso il confine, il vagone era un disastro di pacchi, casse, fiaschi, damigiane, ecc.. Giunti all’ultima fermata prima del confine, le porte non ci furono aperte forse per sospetto (dato anche che le sparatorie delle guardie che ci accompagnavano  divenivano cosa quasi continua): si era sul far del buio, si sentiva una gran massa di gente che gridava “da dove venite, quanti siete, di cosa avete bisogno? Domandate, non temete ...”. Noi nel vagone chiuso, al buio, in silenzio, si dovette quasi in generale scoppiare in un ininterrotto pianto, come poco avanti ugualmente mi successe nel ricevere un involto da una donna che insieme mi consegnò delle immagini sacre: nell’osservarle e riflettere  non seppi trattenermi. Come me tanti altri.

(Il trasferimento in Germania)
Fino al confine il dolore fu morale, essendo compassionati dai  nostri connazionali,  tanti dei quali con l’esperienza riflettevano meglio di noi giovani a che fine e a quali sofferenze noi si andava incontro. Passato il confine, tutto cambiò e il dolore non era più solo morale ma anche corporale. Le porte furono chiuse a chiave e mai più aperte: il treno marciava a strappi, non eravamo capaci di stare in piedi, il freddo cominciava a sopraffarci, i bisogni propri si dovevano fare nel medesimo posto in cui si mangiava e dormiva; per fortuna noi si aveva una damigiana che i nostri indimenticabili connazionali ci avevano consegnata piena di vino, e che, svuotata e rotta sopra, ci serviva da gabinetto pubblico.
In queste condizioni si viaggia per ancora 3 giorni; in questa attraversata non si parla più di mangiare, solo freddo e malinconia. Si sorpassano grandi città e stazioni, ma quasi tutto è morto: poca popolazione, per la maggior parte vecchi e donne che prestano servizio di stazione e bambini che spesso ci scagliano sassi e grida di cui non conosciamo il significato; in una stazione, poi, abbiamo visto un unico gruppetto di uomini, che, nel riconoscerci italiani, ci hanno fatto segno con la mano del taglio del collo. Su questi versi noi si rifletteva e ragionava sopra, e intanto la paura per il nostro avvenire aumentava sempre più.
Nel frattempo si giunge in una piccola stazione e per fortuna ci aprono le porte: siamo quasi in aperta campagna, tutti si scende, chi a prendere acqua, quasi tutti per fare i propri servizi chi da una parte chi dall’altra: dopo un minuto un fischio e una parola strana interrompe la misera libertà, nessuno crede che il treno possa partire dato che la sosta era ancora un nulla, ma subito si sentono due colpi di pistola ed il treno comincia a muovere, noi tutti, spaventati e con pantaloni in mano e merda nel culo, senza aver affatto terminato il nostro bisogno, via di corsa in treno: l’affare sarebbe stato da ridere, ma ormai nessuno ne ha più coraggio.

(Continua)