Diario di mia prigionia
del soldato Monsù Egisto, di Luigi e Maria
Stacchietti, nato a Recanati il 6 giugno 1914, residente a Filottrano,
provincia di Ancona (Italia)
(trascritto da lui
stesso a Riedlingen -Germania- a partire dal 20/9/1944 sul quaderno in cui ora
si presenta manoscritto -e che dal diario stesso risulta essere stato uno dei
suoi primi acquisti nel Settembre ’44
appena fatto passare da “internato militare” a “lavoratore civile”, con momenti
quindi di libera uscita dal campo di concentramento senza più scorta armata-
ricopiando dai foglietti di “carta da gabinetto” da lui stesso cuciti in forma
di quadernino nei primi tempi)
Narro la mia prigionia
(L’8 Settembre all’Isola d’Elba)
Io sopraddetto ero soldato all’isola
d’Elba nel 108° Reggimento Costiero dal 12 agosto 1943: vita normale, ma un po’
spiacenti essendo accampati nel colmo della montagna e del bosco, scomodi per
il dormire, l’acqua, la città lontana, ecc..., ma pazienza, tutto si sopportava
in santa pace in attesa di quel giorno decisivo della fine di questa guerra,
che tutti ci soffocava. Giorno per giorno si aspettava questo momento. Diversi
camerati di tanto in tanto facevano schiamazzi e grida “è finita la guerra!”
... la speranza li spingeva a questi scherzi (cose solite che da un po’ non si notava
più).
Giunti al
giorno 8 settembre, avevo io ricevuto posta da casa scritta da Maria (la
moglie), che anzi mi mandava nella busta stessa due lamette da barba e una
piccola bustina di tabacco e con questa tanto mi consolava, dato che da quasi
un mese si viveva spasimanti per questo. Dunque, dato il caso che mi giunge
questa lettera, alla sera dopo mangiato verso le 5 mi metto nella mia tenda a
scrivere in risposta, mentre quasi tutti gli altri, come solito, si erano
radunati vicino alla fureria verso la strada a fare chiacchiere e comitiva. Ad
un tratto nuovamente sento il solito schiamazzo (“è finita!”) ma in un modo più
assoluto del solito e con un sempre più armonioso crescendo di voci, poi mi
vedo arrivare di gran corsa il più amico e paesano Tittarelli, da Jesi, che mi
dice: “è finita, è finita!”. Allora anch’io esco e mi accerto di quanto si
diceva: in verità io non provai sul momento l’effetto dovuto, mentre tutti
svaligiavano il piccolo spaccio di tutto il vino ecc..., insomma fino alla
mezzanotte tutti fecero chiasso e allegria. In seguito la cosa divenne più
calma e seria, e per mezzo della radio si ebbe l’ordine di cessare le ostilità
contro gli angloamericani e riaprirle contro chiunque venisse a molestare.
I giorni
passarono fino al giorno 15 dello stesso mese, quando apparecchi tedeschi
sorvolarono l’isola gettando bigliettini, intimando la resa a tutte le forze
dell’isola. Senza altri fastidi così passò la giornata.
Il 16 poi
di nuovo apparecchi sorvolano l’isola e infine bombardano colpendo la città di
Portoferraio e una batteria contraerea, gettano ancora bigliettini intimando
nuovamente la resa e dando quattro ore per la risposta -dalle 2 dopo pranzo
alle 6- dopodichè avrebbero distrutto l’isola con bombardamenti terroristici.
(La consegna delle armi ai tedeschi)
In questo
frattempo il comando superiore dell’isola ha deciso la resa e la sera stessa
abbiamo avuto l’ordine di non sparare e di versare armi e munizioni al
ripostiglio (come fu fatto).
La mattina
del 17 sveglia molto presto, tutti al lavoro a caricare armi, munizioni e il
materiale di tutta la compagnia, per inviarlo all’ammasso tedesco a Marina di
Campo. Dopo duro lavoro arrivammo a sistemar tutto verso le ore 10, con una
gran fame, perchè per motivi di lavoro i nostri comandanti non ci diedero
soddisfazione di cucinarci il rancio,
per l’ultima volta. Nel frattempo tutti si pensava e mormorava quale sarebbe
stata la nostra fine: chi la vedeva in un modo, chi in un altro, chi tentava di
scappare per andare in Corsica, chi per andare nelle famiglie, ma poi in fin
dei conti tutti sono rientrati perché tutto era impossibile.
Alle ore 10.30 circa,
tutti inquadrati, si partiva in pieno caldo con tutto il materiale per
l’ammasso già detto, e in questo stesso momento apparecchi tedeschi a più
riprese gettavano paracadutisti sull’isola. Noi, via, carichi come asini, ci
avviamo verso il destino. Si arriva alle ore 12 circa al posto deciso e lì
troviamo altri camerati, materiali, un disastro di cose; le nostre armi finora
tanto curate si gettano là, come ogni sorta d’altro materiale: tutto il cumulo
era là in mezzo ad un orto, affiancato ad un vigneto, là tutto si devastava
senza prezzo, monti di materiali di ogni specie prefiguravano il disastro. Sentinelle
in coppia circondavano questo spazio con mitraglie, fucili, camion,
motociclette, cavalli che circolavano tra i campi in ogni via, e noi italiani,
soldati ed ufficiali là in mezzo racchiusi, ci guardavamo intorno e
schiettamente ci si prefigurava quello che ci aspettava.
(Il trasferimento in continente)
Verso le 1
circa, raggruppatici noi di compagnia, con un po’ di resti di cucina che tutti avevamo nascosto abbiamo
cucinato la pastasciutta (così anche verso le 4), poi in fretta tutti a
costruirsi la tenda per dormire la notte, dato che di partenza non si parlava;
invece, non appena terminato, arriva l’ordine immediato di partire. In un
minuto siamo tutti pronti per la partenza col materiale indosso. Facendo
strada, poco appresso si fa buio e noi tutti camminiamo accompagnati da
sentinelle tedesche che viaggiavano avanti e indietro con le biciclette, come i
cani che accompagnano il gregge delle pecore. In questo stato si doveva fare
circa 50 chilometri, ma fatti nemmeno 10 chilometri più di un gruppetto
cominciava a gettarsi a terra già stanco e poco alla volta si cominciava a
vuotare gli zaini che pesavano non meno di 35-40 chili.
Insomma la
nottata fu il buon giorno di tutta la prigionia.
Per
arrivare a posto si camminò tutta la notte fin verso le 3 del mattino del
giorno 18: ad ogni tappa c’era chi scappava da una parte o dall’altra a rubar
uva, chi dormiva in un fosso, chi bestemmiava con i piedi rotti; insomma lo
scompiglio e l’impressione erano indescrivibili.
Alla
mattina sveglia alle 5; inquadrati dopo un immenso scompiglio e portati al
porto, ci hanno consegnato due gallette e tre scatolette e verso le 10.30,
imbarcati su tre zatteroni, abbiamo lasciato Portoferraio.
La visione dell’imbarco provoca senza
esagerazione brividi alla pelle:
tedeschi che ti strappano a destra e a sinistra come si fa con le bestie che
vanno al macello, botte, pedate ecc...; quando lo zatterone era pieno al
massimo, altri 50 uomini dovevano entrarci: 4 o 5 guardie alla porta davano
spintoni col fucile, diversi venivano gettati a terra e calpestati dagli altri,
e via altri 50 uomini dentro per forza. Era impossibile viaggiare in queste
condizioni: l’aria diventa soffocata, chi si sente male da una parte chi
dall’altra, chi vomita -come me- per il mare cattivo. Nel complesso non è
facile considerare se siamo persone o
marciume.
Dopo
l’insopportabile viaggio, verso le 2 dopo pranzo si giunge a Piombino.
Sbarcati, si attraversa la piccola città per giungere al campo sportivo: la
popolazione ci osserva e considera le ore strane da noi passate ed accorre a
soccorrerci con acqua, liquori, ecc. Si giunge al campo sportivo. Appena
entrati già si scorge le sentinelle con mitraglia che ci attendono nei dintorni
del campo: ordine di sedersi a terra, guai a chi restasse in piedi. Invece la
popolazione si affolla per parlare con l’amico, il fratello, il marito, ecc. ma
nulla è permesso ed il dolore intanto aumenta. I soldati che ci accompagnano incominciano a
controllare chi ha orologi che più gli piacciono, li prelevano regalandoti
qualche piccolezza se ti accontenti, altrimenti ci scappa pure qualche
scapaccione.
Insomma in
due giorni che siamo con loro già la cosa ci sembra insopportabile. Io, già
considerata la nostra fine, scrissi una lettera ai miei di casa e a rischio di
qualche maledetta botta riuscii a consegnarla ad un bambino, con la
raccomandazione di spedirla non appena possibile.
(Il trasferimento verso il confine)
In seguito,
verso le 2, si parte in treno per destinazione ignota, si trasente dire per un
campo di concentramento a Verona, poi a Padova, Treviso, ma tutto è vano.
Intanto il viaggio diventa sempre più duro: in 40 in un vagone con tutto il
materiale. Insomma sempre più preoccupati si giunge, la mattina del 19
Settembre, nelle stazioni di Verona, Padova, Treviso, Udine,Tarvisio, e in
queste ultime sarà indimenticabile per tutta la vita le cure e i soccorsi di
quella gente: masse di popolo di ogni genere, uomini, donne, giovani e vecchi
di ogni condizione, tutti ad attenderci lungo le stazioni. Quando giunge il
treno, tutti si affollano al binario; c’è chi chiede bigliettini con
l’indirizzo della famiglia e nostra firma per dare comunicazione ai nostri
cari: quasi in tutte le stazioni vicino ai confini vi erano delle squadre di
giovani donne con carta e matita addette a questo servizio; ci sono altri che
domandano se c’è il tizio o il caio e tutti, generalmente carichi di ceste o
valigie, ci consegnano a destra e a sinistra pane imbottito, bottiglie di vino
e liquori, mele, pasta, uova e tutto ciò che si poteva trovare, sigarette,
insomma non si descrive quanti soccorsi abbiamo avuto, perfino vesti da donna e
uomo per cambiarci e scappare; c’era chi ci assicurava di portarci a casa loro
e mantenerci in tutto; insomma ogni conforto si aveva, ma tutto era
impossibile. Le donne e i vecchi quasi in generale ci confortavano e parlavano
con le lacrime agli occhi, spesso si sentivano grida e si vedevano donne o
giovani colpiti dalle pistole o i fucili delle guardie che ci accompagnavano e
che quasi continuamente sparavano davanti alle nostre porte acciocchè la
popolazione non si affollasse e qualcuno non se la squagliasse (come di fatto
tanti tentavano e riuscivano, mentre tanti venivano colpiti dalle guardie e
portati all’ospedale o anche forse ...). Insomma la cosa era impressionante,
noi temevano per loro; e spesso si gridava “non venite, chè vi sparano”, ma
questa gente nulla sentiva e non teneva conto di quelli che colpiti nella massa
venivano trasportati all’ospedale, ecc., tutti facevano e rischiavano pur di
soccorrerci, quella gente insomma era da ammirarsi e c’è da non credere a ciò
che faceva per noi: io stesso credo che trovandomi in un simile caso non avrei
avuto il coraggio di spingermi a tanto. Verso sera, giunti verso il confine, il
vagone era un disastro di pacchi, casse, fiaschi, damigiane, ecc.. Giunti
all’ultima fermata prima del confine, le porte non ci furono aperte forse per
sospetto (dato anche che le sparatorie delle guardie che ci accompagnavano divenivano cosa quasi continua): si era sul
far del buio, si sentiva una gran massa di gente che gridava “da dove venite,
quanti siete, di cosa avete bisogno? Domandate, non temete ...”. Noi nel vagone
chiuso, al buio, in silenzio, si dovette quasi in generale scoppiare in un
ininterrotto pianto, come poco avanti ugualmente mi successe nel ricevere un
involto da una donna che insieme mi consegnò delle immagini sacre:
nell’osservarle e riflettere non seppi
trattenermi. Come me tanti altri.
(Il trasferimento in Germania)
Fino al
confine il dolore fu morale, essendo compassionati dai nostri connazionali, tanti dei quali con l’esperienza riflettevano
meglio di noi giovani a che fine e a quali sofferenze noi si andava incontro.
Passato il confine, tutto cambiò e il dolore non era più solo morale ma anche
corporale. Le porte furono chiuse a chiave e mai più aperte: il treno marciava
a strappi, non eravamo capaci di stare in piedi, il freddo cominciava a
sopraffarci, i bisogni propri si dovevano fare nel medesimo posto in cui si
mangiava e dormiva; per fortuna noi si aveva una damigiana che i nostri
indimenticabili connazionali ci avevano consegnata piena di vino, e che,
svuotata e rotta sopra, ci serviva da gabinetto pubblico.
In queste
condizioni si viaggia per ancora 3 giorni; in questa attraversata non si parla
più di mangiare, solo freddo e malinconia. Si sorpassano grandi città e
stazioni, ma quasi tutto è morto: poca popolazione, per la maggior parte vecchi
e donne che prestano servizio di stazione e bambini che spesso ci scagliano
sassi e grida di cui non conosciamo il significato; in una stazione, poi,
abbiamo visto un unico gruppetto di uomini, che, nel riconoscerci italiani, ci
hanno fatto segno con la mano del taglio del collo. Su questi versi noi si
rifletteva e ragionava sopra, e intanto la paura per il nostro avvenire
aumentava sempre più.
Nel
frattempo si giunge in una piccola stazione e per fortuna ci aprono le porte:
siamo quasi in aperta campagna, tutti si scende, chi a prendere acqua, quasi
tutti per fare i propri servizi chi da una parte chi dall’altra: dopo un minuto
un fischio e una parola strana interrompe la misera libertà, nessuno crede che
il treno possa partire dato che la sosta era ancora un nulla, ma subito si
sentono due colpi di pistola ed il treno comincia a muovere, noi tutti,
spaventati e con pantaloni in mano e merda nel culo, senza aver affatto
terminato il nostro bisogno, via di corsa in treno: l’affare sarebbe stato da
ridere, ma ormai nessuno ne ha più coraggio.
(Continua)
Leggo ora queste righe e, in esse, rivivo i racconti di mio padre, anche lui fatto prigioniero all'isola d'Elba e trasportato in un campo di prigionia in Prussia. In fondo a queste testo leggo (continua) mi piacerebbe poter leggere anche il seguito. mi sto occupando di sociale ed in modo particolare di diffondere tra i giovani delle scuole la memoria di quei tragici momenti per non dimenticare. Grazie per questa testimonianza. Sergio Sironi figlio di Giulio Sironi ex deportato in prussia
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