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lunedì 6 gennaio 2014

I Diario di Prigionia. L'Inizio all'Isola d'Elba

Diario di mia prigionia
del soldato Monsù Egisto, di Luigi e Maria Stacchietti, nato a Recanati il 6 giugno 1914, residente a Filottrano, provincia di Ancona (Italia)

(trascritto da lui stesso a Riedlingen -Germania- a partire dal 20/9/1944 sul quaderno in cui ora si presenta manoscritto -e che dal diario stesso risulta essere stato uno dei suoi primi acquisti  nel Settembre ’44 appena fatto passare da “internato militare” a “lavoratore civile”, con momenti quindi di libera uscita dal campo di concentramento senza più scorta armata- ricopiando dai foglietti di “carta da gabinetto” da lui stesso cuciti in forma di quadernino nei primi tempi)

Casella di testo: Prima pagina  del diarioCasella di testo: Copertina del quaderno

 

 

Narro la mia prigionia


(L’8 Settembre all’Isola d’Elba)
Io sopraddetto ero soldato all’isola d’Elba nel 108° Reggimento Costiero dal 12 agosto 1943: vita normale, ma un po’ spiacenti essendo accampati nel colmo della montagna e del bosco, scomodi per il dormire, l’acqua, la città lontana, ecc..., ma pazienza, tutto si sopportava in santa pace in attesa di quel giorno decisivo della fine di questa guerra, che tutti ci soffocava. Giorno per giorno si aspettava questo momento. Diversi camerati di tanto in tanto facevano schiamazzi e grida “è finita la guerra!” ... la speranza li spingeva a questi scherzi  (cose solite che da un po’ non si notava più).













Casella di testo: n° 1 Egisto Monsù


Giunti al giorno 8 settembre, avevo io ricevuto posta da casa scritta da Maria (la moglie), che anzi mi mandava nella busta stessa due lamette da barba e una piccola bustina di tabacco e con questa tanto mi consolava, dato che da quasi un mese si viveva spasimanti per questo. Dunque, dato il caso che mi giunge questa lettera, alla sera dopo mangiato verso le 5 mi metto nella mia tenda a scrivere in risposta, mentre quasi tutti gli altri, come solito, si erano radunati vicino alla fureria verso la strada a fare chiacchiere e comitiva. Ad un tratto nuovamente sento il solito schiamazzo (“è finita!”) ma in un modo più assoluto del solito e con un sempre più armonioso crescendo di voci, poi mi vedo arrivare di gran corsa il più amico e paesano Tittarelli, da Jesi, che mi dice: “è finita, è finita!”. Allora anch’io esco e mi accerto di quanto si diceva: in verità io non provai sul momento l’effetto dovuto, mentre tutti svaligiavano il piccolo spaccio di tutto il vino ecc..., insomma fino alla mezzanotte tutti fecero chiasso e allegria. In seguito la cosa divenne più calma e seria, e per mezzo della radio si ebbe l’ordine di cessare le ostilità contro gli angloamericani e riaprirle contro chiunque venisse a molestare.
I giorni passarono fino al giorno 15 dello stesso mese, quando apparecchi tedeschi sorvolarono l’isola gettando bigliettini, intimando la resa a tutte le forze dell’isola. Senza altri fastidi così passò la giornata.
Il 16 poi di nuovo apparecchi sorvolano l’isola e infine bombardano colpendo la città di Portoferraio e una batteria contraerea, gettano ancora bigliettini intimando nuovamente la resa e dando quattro ore per la risposta -dalle 2 dopo pranzo alle 6- dopodichè avrebbero distrutto l’isola con bombardamenti terroristici.
(La consegna delle armi ai tedeschi)
In questo frattempo il comando superiore dell’isola ha deciso la resa e la sera stessa abbiamo avuto l’ordine di non sparare e di versare armi e munizioni al ripostiglio (come fu fatto).
La mattina del 17 sveglia molto presto, tutti al lavoro a caricare armi, munizioni e il materiale di tutta la compagnia, per inviarlo all’ammasso tedesco a Marina di Campo. Dopo duro lavoro arrivammo a sistemar tutto verso le ore 10, con una gran fame, perchè per motivi di lavoro i nostri comandanti non ci diedero soddisfazione di  cucinarci il rancio, per l’ultima volta. Nel frattempo tutti si pensava e mormorava quale sarebbe stata la nostra fine: chi la vedeva in un modo, chi in un altro, chi tentava di scappare per andare in Corsica, chi per andare nelle famiglie, ma poi in fin dei conti tutti sono rientrati perché tutto era impossibile.
Alle ore 10.30 circa, tutti inquadrati, si partiva in pieno caldo con tutto il materiale per l’ammasso già detto, e in questo stesso momento apparecchi tedeschi a più riprese gettavano paracadutisti sull’isola. Noi, via, carichi come asini, ci avviamo verso il destino. Si arriva alle ore 12 circa al posto deciso e lì troviamo altri camerati, materiali, un disastro di cose; le nostre armi finora tanto curate si gettano là, come ogni sorta d’altro materiale: tutto il cumulo era là in mezzo ad un orto, affiancato ad un vigneto, là tutto si devastava senza prezzo, monti di materiali di ogni specie prefiguravano il disastro. Sentinelle in coppia circondavano questo spazio con mitraglie, fucili, camion, motociclette, cavalli che circolavano tra i campi in ogni via, e noi italiani, soldati ed ufficiali là in mezzo racchiusi, ci guardavamo intorno e schiettamente ci si prefigurava quello che ci aspettava.

Casella di testo: Marina di Campo come rivista da lui stesso durante il “pellegrinaggio” del 1984
all’isola d’Elba



 (Il trasferimento in continente)
Verso le 1 circa, raggruppatici noi di compagnia, con un po’ di resti  di cucina che tutti avevamo nascosto abbiamo cucinato la pastasciutta (così anche verso le 4), poi in fretta tutti a costruirsi la tenda per dormire la notte, dato che di partenza non si parlava; invece, non appena terminato, arriva l’ordine immediato di partire. In un minuto siamo tutti pronti per la partenza col materiale indosso. Facendo strada, poco appresso si fa buio e noi tutti camminiamo accompagnati da sentinelle tedesche che viaggiavano avanti e indietro con le biciclette, come i cani che accompagnano il gregge delle pecore. In questo stato si doveva fare circa 50 chilometri, ma fatti nemmeno 10 chilometri più di un gruppetto cominciava a gettarsi a terra già stanco e poco alla volta si cominciava a vuotare gli zaini che pesavano non meno di 35-40 chili.
Insomma la nottata fu il buon giorno di tutta la prigionia.
Per arrivare a posto si camminò tutta la notte fin verso le 3 del mattino del giorno 18: ad ogni tappa c’era chi scappava da una parte o dall’altra a rubar uva, chi dormiva in un fosso, chi bestemmiava con i piedi rotti; insomma lo scompiglio e l’impressione erano indescrivibili.
Alla mattina sveglia alle 5; inquadrati dopo un immenso scompiglio e portati al porto, ci hanno consegnato due gallette e tre scatolette e verso le 10.30, imbarcati su tre zatteroni, abbiamo lasciato Portoferraio.
La  visione dell’imbarco provoca senza esagerazione  brividi alla pelle: tedeschi che ti strappano a destra e a sinistra come si fa con le bestie che vanno al macello, botte, pedate ecc...; quando lo zatterone era pieno al massimo, altri 50 uomini dovevano entrarci: 4 o 5 guardie alla porta davano spintoni col fucile, diversi venivano gettati a terra e calpestati dagli altri, e via altri 50 uomini dentro per forza. Era impossibile viaggiare in queste condizioni: l’aria diventa soffocata, chi si sente male da una parte chi dall’altra, chi vomita -come me- per il mare cattivo. Nel complesso non è facile  considerare se siamo persone o marciume.
Dopo l’insopportabile viaggio, verso le 2 dopo pranzo si giunge a Piombino. Sbarcati, si attraversa la piccola città per giungere al campo sportivo: la popolazione ci osserva e considera le ore strane da noi passate ed accorre a soccorrerci con acqua, liquori, ecc. Si giunge al campo sportivo. Appena entrati già si scorge le sentinelle con mitraglia che ci attendono nei dintorni del campo: ordine di sedersi a terra, guai a chi restasse in piedi. Invece la popolazione si affolla per parlare con l’amico, il fratello, il marito, ecc. ma nulla è permesso ed il dolore intanto aumenta. I  soldati che ci accompagnano incominciano a controllare chi ha orologi che più gli piacciono, li prelevano regalandoti qualche piccolezza se ti accontenti, altrimenti ci scappa pure qualche scapaccione.
Insomma in due giorni che siamo con loro già la cosa ci sembra insopportabile. Io, già considerata la nostra fine, scrissi una lettera ai miei di casa e a rischio di qualche maledetta botta riuscii a consegnarla ad un bambino, con la raccomandazione di spedirla non appena possibile.



(Il trasferimento verso il confine)
In seguito, verso le 2, si parte in treno per destinazione ignota, si trasente dire per un campo di concentramento a Verona, poi a Padova, Treviso, ma tutto è vano. Intanto il viaggio diventa sempre più duro: in 40 in un vagone con tutto il materiale. Insomma sempre più preoccupati si giunge, la mattina del 19 Settembre, nelle stazioni di Verona, Padova, Treviso, Udine,Tarvisio, e in queste ultime sarà indimenticabile per tutta la vita le cure e i soccorsi di quella gente: masse di popolo di ogni genere, uomini, donne, giovani e vecchi di ogni condizione, tutti ad attenderci lungo le stazioni. Quando giunge il treno, tutti si affollano al binario; c’è chi chiede bigliettini con l’indirizzo della famiglia e nostra firma per dare comunicazione ai nostri cari: quasi in tutte le stazioni vicino ai confini vi erano delle squadre di giovani donne con carta e matita addette a questo servizio; ci sono altri che domandano se c’è il tizio o il caio e tutti, generalmente carichi di ceste o valigie, ci consegnano a destra e a sinistra pane imbottito, bottiglie di vino e liquori, mele, pasta, uova e tutto ciò che si poteva trovare, sigarette, insomma non si descrive quanti soccorsi abbiamo avuto, perfino vesti da donna e uomo per cambiarci e scappare; c’era chi ci assicurava di portarci a casa loro e mantenerci in tutto; insomma ogni conforto si aveva, ma tutto era impossibile. Le donne e i vecchi quasi in generale ci confortavano e parlavano con le lacrime agli occhi, spesso si sentivano grida e si vedevano donne o giovani colpiti dalle pistole o i fucili delle guardie che ci accompagnavano e che quasi continuamente sparavano davanti alle nostre porte acciocchè la popolazione non si affollasse e qualcuno non se la squagliasse (come di fatto tanti tentavano e riuscivano, mentre tanti venivano colpiti dalle guardie e portati all’ospedale o anche forse ...). Insomma la cosa era impressionante, noi temevano per loro; e spesso si gridava “non venite, chè vi sparano”, ma questa gente nulla sentiva e non teneva conto di quelli che colpiti nella massa venivano trasportati all’ospedale, ecc., tutti facevano e rischiavano pur di soccorrerci, quella gente insomma era da ammirarsi e c’è da non credere a ciò che faceva per noi: io stesso credo che trovandomi in un simile caso non avrei avuto il coraggio di spingermi a tanto. Verso sera, giunti verso il confine, il vagone era un disastro di pacchi, casse, fiaschi, damigiane, ecc.. Giunti all’ultima fermata prima del confine, le porte non ci furono aperte forse per sospetto (dato anche che le sparatorie delle guardie che ci accompagnavano  divenivano cosa quasi continua): si era sul far del buio, si sentiva una gran massa di gente che gridava “da dove venite, quanti siete, di cosa avete bisogno? Domandate, non temete ...”. Noi nel vagone chiuso, al buio, in silenzio, si dovette quasi in generale scoppiare in un ininterrotto pianto, come poco avanti ugualmente mi successe nel ricevere un involto da una donna che insieme mi consegnò delle immagini sacre: nell’osservarle e riflettere  non seppi trattenermi. Come me tanti altri.

(Il trasferimento in Germania)
Fino al confine il dolore fu morale, essendo compassionati dai  nostri connazionali,  tanti dei quali con l’esperienza riflettevano meglio di noi giovani a che fine e a quali sofferenze noi si andava incontro. Passato il confine, tutto cambiò e il dolore non era più solo morale ma anche corporale. Le porte furono chiuse a chiave e mai più aperte: il treno marciava a strappi, non eravamo capaci di stare in piedi, il freddo cominciava a sopraffarci, i bisogni propri si dovevano fare nel medesimo posto in cui si mangiava e dormiva; per fortuna noi si aveva una damigiana che i nostri indimenticabili connazionali ci avevano consegnata piena di vino, e che, svuotata e rotta sopra, ci serviva da gabinetto pubblico.
In queste condizioni si viaggia per ancora 3 giorni; in questa attraversata non si parla più di mangiare, solo freddo e malinconia. Si sorpassano grandi città e stazioni, ma quasi tutto è morto: poca popolazione, per la maggior parte vecchi e donne che prestano servizio di stazione e bambini che spesso ci scagliano sassi e grida di cui non conosciamo il significato; in una stazione, poi, abbiamo visto un unico gruppetto di uomini, che, nel riconoscerci italiani, ci hanno fatto segno con la mano del taglio del collo. Su questi versi noi si rifletteva e ragionava sopra, e intanto la paura per il nostro avvenire aumentava sempre più.
Nel frattempo si giunge in una piccola stazione e per fortuna ci aprono le porte: siamo quasi in aperta campagna, tutti si scende, chi a prendere acqua, quasi tutti per fare i propri servizi chi da una parte chi dall’altra: dopo un minuto un fischio e una parola strana interrompe la misera libertà, nessuno crede che il treno possa partire dato che la sosta era ancora un nulla, ma subito si sentono due colpi di pistola ed il treno comincia a muovere, noi tutti, spaventati e con pantaloni in mano e merda nel culo, senza aver affatto terminato il nostro bisogno, via di corsa in treno: l’affare sarebbe stato da ridere, ma ormai nessuno ne ha più coraggio.

(Continua)


1 commento:

  1. Leggo ora queste righe e, in esse, rivivo i racconti di mio padre, anche lui fatto prigioniero all'isola d'Elba e trasportato in un campo di prigionia in Prussia. In fondo a queste testo leggo (continua) mi piacerebbe poter leggere anche il seguito. mi sto occupando di sociale ed in modo particolare di diffondere tra i giovani delle scuole la memoria di quei tragici momenti per non dimenticare. Grazie per questa testimonianza. Sergio Sironi figlio di Giulio Sironi ex deportato in prussia

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