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mercoledì 29 marzo 2017

Da Duce a Prigioniero

di
 Alessa Biasiolo*

Sbarcati gli anglo-americani in Sicilia, la scelta alleata fu quella di uccidere Mussolini, in modo che, fuori gioco il Duce, gli italiani si sarebbero resi conto che il fascismo non poteva continuare ad essere la scelta politica giusta per il Paese. Le missive segrete o segretissime correvano da un comando all’altro e, mentre gli Americani erano convinti di continuare a bombardare Roma allo scopo di arrivare non solo a piegare la resistenza dei nervi degli Italiani, ma anche a radere al suolo, possibilmente, Palazzo Venezia e Villa Torlonia, Churchill era perplesso sulla necessità di una soluzione così drastica. Poco importava ai comandanti come Harris di dover distruggere monumenti storici unici al mondo, perché in quel momento risultava imperativo soltanto piegare la dittatura italiana. Churchill si consultò con il ministro degli Esteri Anthony Eden che, il 14 luglio 1943, gli rispose di non essere d’accordo sull’operazione denominata “Dux”, in quanto non era sicuro che Mussolini sarebbe stato nei suoi due siti (Palazzo Venezia e la Villa), non era certo che il bombardamento ne avrebbe causato la morte e, in caso l’operazione non fosse riuscita, si rischiava di tramutare la causa dei problemi in un idolo ulteriore. Il rischio, inoltre, di causare pesanti danni al patrimonio storico di Roma senza successi militari e politici, oltre all’estrema sofferenza inferta alla popolazione civile, avrebbe tramutato i “liberatori” in nemici assoluti del popolo italiano. Questo era il clima dei nemici, mentre Mussolini e Hitler si incontravano a Feltre e, come abbiamo letto, i bombardamenti su Roma non smettevano. Infatti, se si fermavano a terra gli aerei inglesi, recuperavano terreno quelli americani, che a loro volta organizzarono bombardamenti sulla Città Eterna per il 19 luglio, pur senza l’intento di colpire Mussolini, fatto comunque inutile, dato che era a Feltre per l’incontro con l’alleato tedesco. I risultati furono, invece, di distruggere numerosi siti, in modo particolare intorno a Ciampino, mentre i quartieri civili distrutti furono molti, inutilmente. Gli anglo-americani, inoltre, avevano abbandonato l’operazione “Brimstone” sulla Sardegna, per concentrarsi nell’avanzata verso Napoli e Salerno. Alternativamente, inglesi e americani organizzavano incursioni aeree che sfiancavano la resistenza italiana, sia sul piano militare che psicologico.
Rientrato a Roma, Mussolini si trovò a dover affrontare un clima pessimo. Il generale Vittorio Ambrosio si era già incontrato con il Re prima dell’incontro di Feltre, per discutere della destituzione di Mussolini. Ambrosio era convinto che, a fronte dell’iniziativa di sganciarsi dall’alleato tedesco, sostituendo all’occorrenza Mussolini con Badoglio o Caviglia, sarebbe riuscito a convincere il Duce a dichiarare una pace separata con gli aglo-americani, ma dopo l’incontro di Feltre, rivelatosi infruttuoso, era evidente che l’unica soluzione possibile era destituire Mussolini. Nel frattempo, un’iniziativa simile venne presa dal Partito Fascista, nella persona dei componenti del Gran Consiglio del Fascismo. Vittorio Ambrosio dal 20 luglio 1943 seppe che, essendo stato vano ai fini delle mire reali l’incontro con Hitler, Vittorio Emanuele III voleva sostituirlo con il Maresciallo Badoglio, ma non seppe rompere gli indugi fino alla decisione del Gran Consiglio.
Il 20 luglio, Mussolini si recò a visitare le zone di Roma colpite dai bombardamenti soprattutto americani del giorno prima. Al mattino verificò gli esiti del raid aereo all’aeroporto del Littorio e all’Università, nel pomeriggio all’aeroporto di Ciampino, dove non mancarono manifestazioni in suo favore. Quindi dovette recarsi dal Re a riferirgli dei colloqui di Feltre con l’alleato. Il clima non era dei migliori. Trovò il Re accigliato, nervoso, gli disse che la situazione era tesa e: “Non può più a lungo durare”. La Sicilia perduta, il morale delle truppe scaduto, tanto che gli avieri di Ciampino erano fuggiti a Velletri durante l’attacco, sostenne: “I Tedeschi ci giocheranno un colpo mancino”, ma del resto era stato chiesto loro di inviare truppe per contenere l’avanzata nemica. Aggiunse: “L’attacco dell’altro giorno io l’ho seguito da Villa Ada, sulla quale le ondate sono passate. Non credo che fossero come si è detto quattrocento gli apparecchi incursori. Erano la metà. Volavano in perfetta formazione”, ciò a dire che nessuno li aveva in qualsiasi modo infastiditi, contrastati da terra. “La storia della ‘città santa’ è finita. Bisogna porre il dilemma ai Tedeschi…”. Questo fu l’ultimo colloquio di lavoro tra il Re e Mussolini, che si incontravano regolarmente due volte la settimana dal novembre 1922 al Quirinale, il lunedì e il giovedì, Mussolini accompagnato dal Sottosegretario alla Presidenza. Altri incontri avvenivano in altre giornate, e in estate praticamente tutti i giorni, come quel mercoledì; il rapporto tra i due era cordiale, ma non divenne mai amichevole. Vittorio Emanuele III si era sempre dimostrato restio nelle scelte di guerra, tranne per la dichiarazione del 1940, da come ne scrisse Mussolini. Quello stesso mercoledì, a mezzogiorno, il segretario del partito Scorza portò a Mussolini l’ordine del giorno del Gran Consiglio del Fascismo di Grandi. Il Duce lo lesse e lo considerò inammissibile e vile. Scorza parlò a Mussolini di un “giallo”, ma non fu ben chiaro. Nel pomeriggio, Mussolini ricevette Grandi che trattò diversi argomenti, ma non affrontò quello dell’ordine del giorno.
L’indomani, Scorza parlò ancora a Mussolini di giallo in corso, ma sempre senza precisazioni, tanto che di nuovo il Duce pensò si trattasse di una delle solite voci di cambio ai vertici; verso sera, Grandi ipotizzò di rinviare la riunione del Gran Consiglio, come manovra ennesima e, forse, tentativo di crearsi un valido alibi, ma Scorza non ebbe conferma del rinvio quando telefonò a Mussolini. Questi sostenne che, ad inviti diramati e giorno fissato, si doveva arrivare ad un chiarimento. E così fu.
La riunione del Gran Consiglio ebbe luogo a Palazzo Venezia il 24 luglio, sabato, alle ore 17, alla presenza di 28 membri, su ordine del giorno di Grandi che recitava queste parole, dattiloscritte: “Il Gran Consiglio del Fascismo riunendosi in questi giorni di supremo cimento, volge innanzi tutto il suo pensiero agli eroici combattimenti d’ogni arma che, fianco a fianco con la fiera gente di Sicilia in cui più alta risplende l’univoca fede del popolo italiano, rinnovano le nobili tradizioni di strenuo valore e l’indomito spirito di sacrificio della nostre gloriose Forze Armate.
Esaminata la situazione interna e internazionale e la condotta politica e militare della guerra:
proclama
il dovere sacro per tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l’unità, l’indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l’avvenire del popolo italiano:
afferma
la necessità dell’unione morale e materiale di tutti gli italiani in quest’ora grave e decisiva per i destini della Nazione;
dichiara
che a tale scopo è necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali;
invita
il Governo a pregare la Maestà del re, verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché Egli voglia per l’onore e per la salvezza della Patria assumere con l’effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5° dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia”.
Seguono la data e le firme dei partecipanti: Grandi, Presidente della Camera; Federzoni, Presidente dell'Accademia; De Bono, quadrumviro; De Vecchi, quadrumviro; il genero di Mussolini Ciano, membro a titolo personale; De Marsico, Ministro della Giustizia; Acerbo, Ministro delle Finanze; Pareschi, Ministro dell'Agricoltura; Cianetti, Ministro per le Corporazioni; Balella, della Confederazione dei Datori di Lavoro dell'Industria; Gottardi, Confederazione dei Lavoratori dell'Industria; Bignardi, Confederazione degli Agricoltori; De Stefani, Alfieri, Rossoni, Bottai membri a titolo personale; Marinelli, ex-segretario amministrativo del Partito fascista; Albini, Sottosegretario agli Interni; Bastianini, Sottosegretario agli Esteri. Albini e Bastianini erano stati invitati, pur non appartenendo al Gran Consiglio. Mentre Farinacci, membro a titolo personale non firmò, ma si astenne anche di presentare il suo ordine del giorno in difesa del regime. Non firmarono il documento Scorza, Segretario del Partito fascista; Biggini, Ministro dell'Educazione; Polverelli, Ministro della Cultura Popolare; Tringali Casanova, Presidente del Tribunale Speciale; Frattari, della Confederazione dei Datori di Lavoro dell'Agricoltura; Buffarini, membro a titolo personale; Galbiati, Comandante della Milizia. Si astenne il Presidente del Senato Suardo. Anche l’ordine del giorno di Scorza, che voleva difendere l’operato del regime, non venne preso in considerazione.
In realtà, il documento riporta il principale ruolo italiano al Re, ma senza citare la cancellazione del regime. Sembra che i membri del Gran Consiglio non si fossero resi conto che, volendo deporre Mussolini come scelta per cercare di migliorare le sorti dell’Italia, sarebbero stati strumento del Re che aveva già preso le sue decisioni e che non aspettava fors’altro che il momento opportuno per attuarle. Sembra che ognuno riponesse fiducia in ciò che doveva fare qualcun altro, nell’intento forse di creare un triunvirato o di cercare il modo di salvare il partito e l’Italia, sacrificando soltanto la posizione di Mussolini. Il quale viene messo in minoranza dal Gran Consiglio per 19 voti a sfavore, 8 a favore e 1 astenuto. Sono quasi le tre di notte del 25 luglio. L’ordine del giorno Grandi viene approvato, Mussolini deve rimettere il mandato al Re. Cianetti cambiò idea di lì a poche ore, ma il risultato non cambiava lo stesso. Grandi affidò al Ministro della Real Casa Pietro d’Acquarone, lo stesso portavoce tra il re e il generale Ambrosio, il compito di informare il Re della decisione del Gran Consiglio.
Cos’era accaduto? Intanto, la riunione si doveva tenere come al solito alle 22, e invece era stata debitamente anticipata, prevedendo che la discussione sarebbe stata lunga. Negli intenti di Mussolini, doveva essere quasi una riunione segreta per chiarirsi tra loro, invece tutti i membri del Gran Consiglio erano puntuali, in uniforme, la classica sahariana nera. Non mancava nessuno. Il discorso iniziò da Mussolini, che espose una serie di documenti.
Mussolini dichiarò che la guerra era giunta ad una fase critica, dato che l’ipotesi che sembrava assurda di invasione del territorio metropolitano si era avverata. La vera guerra era iniziata dalla perdita di Pantelleria.
“In una situazione come questa tutte le correnti ufficiali, non ufficiali, palesi e sotterranee ostili al Regime fanno massa contro di noi e hanno già provocato sintomi di demoralizzazione nelle stesse file del Fascismo, specialmente tra gli ‘imborghesiti’, cioè fra coloro che vedono in pericolo le loro personali posizioni”.
E aggiunse: “In questo momento io sono certamente l’uomo più detestato, anzi odiato in Italia, il che è perfettamente logico, da parte della masse ignare, sofferenti, sinistrate, denutrite, sottoposte alla terribile usura fisica e morale dei bombardamenti ‘liberatori’ e dalle suggestioni della propaganda nemica”.
Egli era il responsabile della guerra ed era anche stato delegato al comando delle Forze Armate dal Re, ma su idea di Badoglio. A quel punto, Mussolini ricordò le varie fasi della decisione del Re, la volontà di Badoglio di avere un ruolo di primo piano nel conflitto, e molti altri dettagli della sua attività politica ultima, mettendo infine in chiaro che l’ordine del giorno Grandi sarebbe stato un pericoloso passo per l’esistenza del Fascismo stesso. Grandi prese la parola con notevole violenza, come volesse sfogarsi da tempo per ruoli interni. La discussione divenne accesa, fino a quando, verso mezzanotte, il Segretario Scorza propose il rinvio, che venne negato, e anche Mussolini era di quell’avviso. Dopo una pausa di un quarto d’ora, necessaria alla lettura dei telegrammi dalle zone operative, la seduta riprese, continuando la discussione, che finì con le parole di Mussolini stesso, alla lettura dell’esito della votazione dell’ordine del giorno Grandi da parte di Scorza: “Voi avete provocato la crisi del regime. La seduta è tolta!”. Dispensò anche i presenti dal saluto al Duce che Scorza voleva chiamare e si ritirò nel suo studio, dove venne raggiunto dai membri del Gran Consiglio che avevano votato in suo favore. Mussolini lasciò Palazzo Venezia verso le 3, accompagnato a Villa Torlonia da Scorza stesso.
La mattina della domenica, 25 luglio, Mussolini si recò come al solito al lavoro a Palazzo Venezia, dove arrivò per le 9. Alle 11 gli portarono il mattinale con la brutta notizia del bombardamento di Bologna. Arrivò notizia del ripensamento di Cianetti, mentre Grandi era irreperibile e Albini venne interrogato direttamente dal Duce circa la decisione di votargli contro, fatto non concesso, dato che non era membro del Gran Consiglio, e Albini, tra le scuse e il rossore, ammise solo l’ipotetico errore, ma anche l’assoluta fedeltà. In realtà elemosinerà un posto a Badoglio nel giro di poco tempo.
Mussolini incaricò quindi il suo segretario particolare di telefonare al generale Puntoni per chiedere quando il Re sarebbe stato disposto a riceverlo, in abiti civili. L’appuntamento venne fissato a Villa Ada per le 17 dello stesso giorno.
Alle 13, incontrò l’ambasciatore giapponese Hidaka, al quale riferì l’incontro di Feltre, quindi si recò in visita al quartiere Tiburtino, particolarmente colpito dal bombardamento del 19 luglio. Rientrò a Villa Torlonia per le 15, dove, alle 16.50, giunse il segretario particolare che lo accompagnò a Villa Ada.
Il suo animo era tranquillo, pensava di riferire sui fatti della notte e di rimettere il comando delle Forze Armate, se il Re lo avesse richiesto, o forse anche lo stesso, come pensava di fare da tempo. Il Re lo aspettava sulla porta della Villa, vestito da maresciallo; in giro un rinforzo di Carabinieri. Lo fece accomodare in salotto, il volto teso, e gli disse: “Caro Duce, le cose non vanno più. L’Italia è in tocchi. L’esercito è moralmente a terra. I soldati non vogliono battersi. Gli alpini cantano una canzone nella quale dicono che non vogliono più fare la guerra per conto di Mussolini”, e canticchiò dei versi della canzone in dialetto piemontese. Aggiunse che a Mussolini non era rimasto altro amico che lui stesso, con la rassicurazione che lo avrebbe fatto proteggere. L’uomo della situazione, in quel momento, era il maresciallo Badoglio che avrebbe cominciato a formare un Ministero di funzionari per l’amministrazione e avrebbe continuato la guerra. Tutti si attendevano un cambiamento, essendo venuti a conoscere della notte del Gran Consiglio e si sarebbe visto cosa sarebbe accaduto di lì a sei mesi. Mussolini mise davanti al Re le sue perplessità sulla scelta politica e militare, che avrebbe significato la sensazione di una vittoria per i nemici e per gli italiani l’idea che la guerra stava finendo, ma il Re lo congedò, livido in volto. Erano le 17.20. Mussolini, andando verso la sua automobile, venne avvicinato da un carabiniere che gli comunicò la volontà del Re di proteggere la sua persona, e lo fece salire su un’ambulanza. Si unirono il segretario De Cesare, un capitano, un tenente, tre carabinieri e due agenti in borghese. Erano armati di mitra. Dopo mezz’ora di tragitto, l’ambulanza si fermò ad una caserma dei carabinieri circondata da sentinelle con fucili a baionetta innestata; dopo una sosta di un’ora, venne portato alla caserma degli allievi carabinieri.
Ancora convinto di essere sotto protezione, Mussolini ricevette la visita di alcuni carabinieri che gli dimostravano simpatia, ma non toccò cibo. Di notte, arrivò un messaggio di Badoglio che scriveva: “Il sottoscritto Capo del Governo tiene a far sapere a V. E. che quanto è stato eseguito nei Vostri riguardi è unicamente dovuto al Vostro personale interesse essendo giunte da più parti precise segnalazioni di un serio complotto contro la Vostra Persona. Spiacente di questo, tiene a farVi sapere che è pronto a dare ordini per il Vostro sicuro accompagnamento, con i dovuti riguardi, nella località che vorrete indicare. Il Capo del Governo: Maresciallo d’Italia Badoglio”.
Implicitamente, si voleva rassicurare Mussolini che il regime continuava, dato che Badoglio ne faceva parte, avendone anche ricoperto ruoli importanti, allo stesso tempo rassicurando che la parola del Re veniva mantenuta.
All’una di notte del 26 luglio, Mussolini rispose al Maresciallo, dopo averlo ringraziato, che l’unica residenza di cui poteva disporre era la Rocca delle Caminate, dove era disposto a trasferirsi anche immediatamente. Assicurava anche, in nome della collaborazione avuta precedentemente, che non avrebbe posto al lavoro di governo di Badoglio, alcuna difficoltà.
Aggiunse che era contento della decisione presa di continuare la guerra con gli alleati tedeschi, riconoscendo il grave ruolo che Badoglio aveva assunto per ordine e in nome del Re “del quale durante 21 anni sono stato leale servitore e tale rimango”. Al Re non mandò alcuna missiva.
Forse ingenuamente, Mussolini credeva che la politica di Badoglio non sarebbe cambiata, sia per quanto riguardava la politica interna, mantenendo il fascismo, sia con gli alleati tedeschi contro gli anglo-americani. La partenza che sembrava sempre imminente, tardò fino al 27 luglio, quando un carabiniere, dopo le 20,  comunicò all’oramai ex Duce che dovevano partire.
Accompagnato da alcuni ufficiali, Mussolini era sempre convinto di essere portato a Rocca delle Caminate, invece, da uno spiraglio del finestrino dell’auto, vide che la direzione non era verso la Flaminia, ma verso l’Appia. Soltanto all’imbocco della strada per Albano chiese dove stessero andando.
La risposta l’ebbe da colui che era stato comandato di accompagnarlo, il generale Polito, diventato generale da ispettore di Polizia per equiparazione di grado. Era una vecchia conoscenza, noto per avere arrestato a Campione Cesare Rossi e aver sgominato la banda Pintor in Sardegna, e tanti altri aneddoti raccontò a Benito durante il viaggio, che evidentemente aveva altra meta dall’immaginata. Mussolini, infatti, era stato inviato all’isola di Ponza, passando da Gaeta e dal Molo Ciano, quasi un’ironia della sorte. Dal molo, l’ammiraglio Maugeri accompagnò l’illustre ospite alla corvetta “Persefone” che salpò all’alba.


* Comm. Alessia Biasiolo, Vice Presidente della Federazione di Brescia dell'Istituto del Nastro Azzurro

mercoledì 22 marzo 2017

"Il Mio Magone albanese" di Aldo Terrusi. Una pseudo testimonianza



Un Commissario politico albanese, non meglio identificato, fornisce la sua deposizione scritta al Consiglio del Tribunale Militare di Valona accusando Giuseppe ed altri civili di vari “misfatti” (App. 1).

Circolare 1 (App.1)

            Riguardo ai movimenti di alcuni italiani a Valona, la situazione si presenta nel modo seguente: a Valona si trovano più di 20 individui e  tra questi si distinguono come i più pericolosi:
1, D’Andrea, venditore di radio a Valona, 2, Belluzzi, ex Vice Console a Valona con il grado di Tenente Colonnello, 3, Terrusi, Direttore della Banca Nazionale a Valona, che ha consegnato il contante della banca ai tedeschi per non farlo prendere all’Esercito di Liberazione Nazionale (1*). Molto pericoloso. 4, Sinopoli, intermediario vicino al Clero Cattolico, 5, altri due Cattolici. Tutti loro sono molto legati gli uni con gli altri, hanno promosso, tra gli italiani di Valona, riunioni con obiettivi politici reazionari, 6, Monai e Verdi sono pericolosi e subdoli, lavorano in incognito, 7, Orlandi, molto pericoloso e manipolatore fa il doppio gioco, al momento aiuta l’Esercito di Liberazione Nazionale in modo apparentemente trasparente, è uno di quelli che seguono l’ideologia fascista. Per alcuni di loro è arrivato l’ordine, da parte del Generale Bonomi (2*), di arrestarli come criminali di guerra per i crimini che hanno commesso sulle spalle del popolo italiano. Il motivo per cui non sono stati arrestati e  sono stati lasciati liberi è stato per poter aiutare Verdi, ex Capitano di SIMI, a propagandare il fascismo. Tutti coloro sono alleati reazionari e molto dannosi per noi, altri italiani li accusano degli stessi reati,  un totale di 24 dichiarazioni che vengono allegate (3*).
Tra  queste dichiarazioni alcune contengono i misfatti nel distretto di Valona evidenziando gli abusi che sono stati perpetuati. Gli italiani che hanno rilasciato questi rapporti sono i sotto elencati: l’Ing. Delogu, l’impiegato bancario Chilovi,  l’impiegata bancaria Marina Piceci (4*).
Tutti e tre sono intellettuali e odiano gli imputati. Sono persone amanti della libertà e chiedono con insistenza di prendere misure restrittive contro di loro. Gli imputati sono reazionari e molto dannosi per la situazione odierna e soprattutto nel distretto di Valona, questi devono essere arrestati e devono essere trasferiti per un breve periodo in un altro luogo; l’allontanamento dal distretto di Valona cambierebbe totalmente la situazione riattivando il popolo italiano del Fronte Nazionale Comunista per la Liberazione.
Francesco e Rosati Diego (infermieri), il Maggiore Granata Raffaele e il Capitano dei Carabinieri Verdi (rappresentante dell’esercito), il Commissario Vasta Giuseppe per l’assistenza tra gli italiani, si sono riuniti negli uffici del Capitano Verdi e di Vasta, in accordo con Terrusi, Belluzzi e Giudice. Tutti loro hanno fatto parte delle file fasciste con alti incarichi di responsabilità. Nessuno di loro, tranne un amico e un partigiano, aveva un potere limitato o era un operaio (5*).
Quel Comitato si è riunito per fondare il Circolo Garibaldi (6*) (7*).

 (1*) Come prova dell’odio di Giuseppe verso i tedeschi esistono tre lettere autografe, private, indirizzate alla sorella Chiara in Italia, già citate nel presente volume, che portano date anteriori alla carcerazione, nelle quali è palese l’avversione di Giuseppe verso il nazismo e l’occupazione tedesca dell’Albania. Ovviamente essendo Giuseppe, Direttore di una Banca importante, la denuncia più ovvia ed infamante è quella di aver consegnato spontaneamente dei soldi al nemico.
E’ evidente come, certe accuse, miravano a distorcere e rovesciare la realtà dei fatti con ipotesi perverse senza il supporto di alcuna documentazione.

Lettera ( a )
Valona 22 ottobre 1944… Siamo stati liberati da circa 10 giorni e i briganti tedeschi sono andati via vergognosamente....
Lettera ( b )
Valona 27 novembre 1944… I vigliacchi tedeschi ne hanno combinate di tutti i colori e commesso tutte le atrocità possibili: abbiamo passato giorni di incubo e di terrore e anch’io sono stato sul punto di essere confinato…
Lettera ( c ) è inserita in originale (App.17).
Valona 8 gennaio 1945…Dal giorno della liberazione di Valona da parte delle truppe partigiane che hanno messo in fuga i briganti tedeschi (briganti nel senso peggiore), voglio sperare che tutti ve la passiate in buona salute e che quanto prima ci si possa riabbracciare…


(2*) Il riferimento è al “Protocollo preliminare di intesa” concluso il 2 agosto 1920 tra Italia ed Albania che stabiliva un’amnistia reciproca per reati di tipo militare. In particolare è completamente falsa e fuorviante l’accusa del presuntuoso Commissario politico.

(3*) Le dichiarazioni allegate che vedremo più avanti, non sono atti di accusa ma piuttosto di merito per Giuseppe...tranne una evidentemente prezzolata!

(4*) Il rapporto del Commissario si basa anche sulle informazioni fornite dell’Ing. Delogu, dell’impiegato bancario Chilovi e dell’impiegata bancaria Marina Piceci, che sono tutte testimonianze per “sentito dire”.
Non ha alcuna importanza chi siano i “testimoni”, come agiscono, da che parte stanno, l’importante che denuncino.

(5*) Per l’informatore è importante sostenere le accuse: sono intellettuali italiani, quindi fascisti, pertanto sono “pericolosi e dannosi” a prescindere. Gli albanesi amici degli italiani, sono collaborazionisti perciò meritano la stessa sorte. 
Il fantomatico giustiziere parla di Delogu, Chilovi e Piceci di “persone amanti della libertà” perché testimoni in favore delle proprie tesi, contrapponendole al gruppo che lui aveva individuato come “persone pericolose”.
Il poveretto non immagina nemmeno quanto la sua gente soffrirà i 50 anni della utopistica e fanatica dittatura di Enver “amante della libertà”, e quanti lutti colpiranno le famiglie albanesi!
Chilovi e Piceci confermano l’accusa solo a voce, senza firmare le loro dichiarazioni che sono sostanzialmente basate su ciò che hanno sentito. Essi indecisi e insicuri, privi di prove concrete, inducono il Commissario a chiedere al tribunale l’allontanamento del Direttore Terrusi e del Vice Direttore Belluzzi dalla Banca di Valona “per motivi di ordine pubblico” e “per qualche tempo”.
Tale richiesta è evidentemente legata ai difficili rapporti personali tra loro e la direzione della Banca e non ha nulla a che fare con le questioni politiche e militari albanesi.

(6*) L’informatore inoltre indica il Circolo Garibaldi quale covo nel quale si riuniscono persone “per l’assistenza agli italiani” da cui deduce il reclutamento di soldati italiani. Inoltre, afferma, che gli atti di pietà intrapresi dal Circolo, sono “dannosi per la comunità”, e che i soci, “fanno riunioni con obiettivi politici reazionari”.
In seguito alla furibonda e bestiale ritorsione nazista dopo il famigerato 8 settembre 1943, una grande gara di solidarietà ebbe luogo tra gli abitanti di Valona: grazie a essa molti militari italiani portarono a casa la pelle, salvandosi dai rastrellamenti e dalle deporta­zioni.
Il Circolo Garibaldi di Valona, nato con scopi ricreativi e culturali, che Emma Covi, moglie di Vitaliano Poselli, aveva fondato nel 1939 e ne era stata eletta presidente, aveva cambiato volto, era diventato una succursale per la sopravvivenza di molti militari italiani ed albanesi disperati al fine di proteggerli dalle persecuzioni, dai rastrellamenti e dalle deportazioni che si stavano perpetuando nei loro confronti dai nazisti. Tutto ciò veniva fatto solo per umana pietà e carità cristiana e nulla aveva a che fare con azioni di guerriglia, spionaggio o reclutamento.
Vennero organizzate raccolte di fondi per acquistare vestiti, scarpe, ecc. nonché per soccor­rere, alimentare e curare tanti giovani sbandati che erano rimasti letteralmente senza niente.
Due di essi, in particolare gli ufficiali dei carabinieri Nino Tagliani e Mario Verdi, trovarono,  per qualche tempo, ospitalità nella cantina della villetta che Emma occupava con il marito Vitaliano, geniale imprenditore, che si trovava accanto alla Ban­ca Nazionale di cui Giuseppe Terrusi era il direttore. Le loro armi: spade e pistole furono nascoste nel pozzo della villetta. La spola dei due capitani tra la villetta e la Banca (attraverso un passaggio nel giardino) avveniva a secondo delle modalità di perquisizione delle truppe tedesche.
Per la generosità e l’abnegazione dimostra­ta, Emma ottenne in seguito un riconoscimento ufficiale dalle autorità italiane.

(7*)  I due Capitani dei carabinieri, Tagliani e Verdi, accomunati nel loro tragico destino, rimasero in contatto con la nostra famiglia, protetti dagli amici del Circolo “Garibaldi”, fino ad ottobre del 1949 quando ci rimandarono in Italia come profughi, avvisati della partenza della nave “Stadium” per l’Italia, si presentarono all’imbarco in abiti civili ma riconosciuti furono fermati. Da notizie filtrate dagli amici albanesi: dopo la loro cattura furono deportati in un campo di concentramento. Sospettati come spie, furono incarcerati e condannati a lunghi anni di detenzione durante i quali vennero sottoposti ad umiliazioni e torture. Pur ridotti in pietose condizioni fisiche, i carnefici albanesi, non riuscirono mai a piegare la loro fierezza e il loro ammirevole esempio di fedeltà. Essi sono tra i tanti militari italiani di cui si sono perse le tracce.
A questo proposito è molto interessante la lettera autografa del Capitano Orombelllo G.Battista all’amico, Maresciallo Dibilio Salvatore:
Due comunicazioni ufficiali avevano comunicato la mia morte “Catturato dai Tedeschi in Albania e dagli stessi fucilato”. Dopo che ci siamo separati in seguito al pericoloso sbandamento del gennaio 1944, vissi molte ore gravissime e rischiose. Con una banda catturai il presidio tedesco del Ponte Drayote sulla Vaiussa (presso Tepelenë), rendendo così possibile il passaggio dell’intero Raggruppamento di Battaglioni verso Argirocastro, salvandolo dall’accerchiamento. In combattimenti immediatamente successivi, trovandomi con la retroguardia in seguito a grave contusione al ginocchio sinistro, tenni a bada i Tedeschi e salvai ancora il Raggruppamento (col quale procedevano i capitani Verdi e Tagliani, ma fui catturato per la terza volta, assieme a 24 partigiani albanesi, e dopo due giorni di gravi sevizie, che mi costarono alcuni denti, perché comandante militare di partigiani, perché persistetti a non voler collaborare coi Tedeschi, perché trovata una pistola vicino al posto della mia terza cattura, perché non volli svelare i nomi dei capi Partigiani né l’itinerario che il Raggruppamento seguiva, né i depositi dei Partigiani, fui, il 31 gennaio 1944, condotto al posto di fucilazione contro un muro di Tepelenë.
Per miracolo mi sottrassi all’esecuzione, o meglio per premio alla mia assoluta fermezza di fedeltà al giuramento. Quella stessa fermezza che ebbi anche nell’ottobre 1943 quando, come ricorderà, nella valle di Ramitza-Smokina, appena ricevuto l’invito del generale Azzi, vi dissi che era una “questione di onore e di dignità nazionale andare a combattere col Comando Truppe Italiane della Montagna contro i Tedeschi”. E tutti mi avete seguito; anche Lei, che rinunziò ad andare, coi venti compagni, ad Himara per tentare l’imbarco per l’Italia meridionale. Perché vi era l’onore d’Italia da difendere!


mercoledì 8 marzo 2017

"Il Mio magone albanese" di Aldo Terrusi La Sentenza di Condanna

La corte, dopo aver analizzato la difesa dell'imputato e dell'avvocato difensore afferma che: l'avvocato cerca di far apparire l'imputato come apolitico e non avverso alla Guerra Nazionale per la Liberazione. La corte afferma che la difesa non rispecchia la realtà sopradescritta.
          La posizione dell'imputato, la sua missione, lo stretto legame con il fascismo sono fatti inconfutabili.
          Per quanto riguarda una quantità di dichiarazioni rilasciate da persone fidate, esse dicono del comportamento personale dell'imputato dal punto di vista sociale e non del suo passato politico. Così che non possono assolvere l'imputato dalla responsabilità delle opere.
          Dato che la colpa di cui viene accusato è prevista dall'articolo 14,15 della Legge nr.41 14/1/45
La Corte
          Per tutte le ragioni di cui sopra
Dichiara
          Colpevole l'imputato Giuseppe Terrusi e gli infligge 10 anni di carcere e la perdita dei diritti civili e politici per il tempo della detenzione. 


(27*) Nonostante tutte le testimonianze a favore,  il 28 novembre 1946, in nome del popolo Albanese, il Consiglio del Tribunale Militare di Valona emette la sentenza e infligge a Giuseppe, considerato colpevole, una pena di 10 anni di carcere basandosi sull’unico testimone d’accusa, già citato (App. 9), Shefik Muharemi, quel vecchio dipendente ubriacone, spergiuro e prezzolato, licenziato, anni prima, dalla Banca di Valona.

Alla carcerazione di Giuseppe e dei suoi impiegati seguì lo sfratto dalla banca di tutta la famiglia che fu costretta a vivere in ristrettezze nella casa dei nonni a Valona. Nel 1946 la famiglia fu trasferita a Tirana. Nel 1949 tutti i componenti della famiglia furono imbarcati, come  profughi, per il trasferimento in Italia.
Dopo 7 anni di carcere duro, Giuseppe morì a Burrel il 2 marzo 1952.