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sabato 5 maggio 2018

La condizione femminile nei campi di concentramento nazisti


di Alessia Biasiolo


Le statistiche riguardanti il numero di persone rinchiuse nei campi di concentramento e di sterminio, non sono facilmente stabilibili perché i registri sono andati perduti oppure sono lacunosi. Non ci sono certezze riguardanti il numero di persone rinchiuse prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, e nemmeno nel periodo compreso tra il 1933 e il 1939, pertanto le cifre possono solo essere approssimative. Si conosce il numero totale dei sopravvissuti, miracolosamente, a quelle detenzioni disumane, e si sa che molte furono donne, anche se per un lungo periodo i libri sulla Shoa (o Olocausto come ancora si denominava) erano scritti solo da maschi. Sappiamo anche che molti sopravvissuti, anche italiani, per molto tempo non riuscirono a raccontare quello che avevano ancora davanti ai loro occhi, perché la barbarie senza fine alla quale erano stati sottoposti li aveva condannati a sentirsi in colpa per essere vivi, oppure a non avere la forza di pensarci davvero, ricordare compiutamente, parlarne. Molti, poi, rendendosi conto che senza di loro nessuno avrebbe mai ricordato i morti, oppure avendo vissuto abbastanza vita per trovare il modo di farlo, hanno iniziato a testimoniare. Preziose memorie che permettono ai giovani di conoscere e agli storici di coprire molte zone oscure di una storia per la quale non si scrive mai abbastanza e mai c’è la frase “Basta” sufficiente.
Ecco, allora, alcune storie di donne dai campi di concentramento, racconti di una vita-non vita che purtroppo per molte è finita lì, per altre è continuata ad essere tale, dato che erano state condannate alla memoria eterna dell’orrore peggiore. Un orrore che, purtroppo, non si è esaurito con le vicende naziste degli anni Trenta e Quaranta del Novecento.
Finita la parentesi della Grande Guerra, le donne in Europa, un po’ dappertutto, per la crisi e la disoccupazione incipienti, erano tornate ad essere cittadine di seconda classe. Non era possibile vederle in ruoli dirigenziali ma, se avevano l’opportunità di lavorare fuori casa, erano insegnanti, soprattutto maestre, segretarie, commesse o domestiche. Se accedevano al ruolo di attrici o ballerine erano spesso guardate con sospetto, come se fossero delle poco di buono. Improvvisamente, dal 1940, nel ghetto ebraico di Lodz si trovarono, invece, ad assumere ruoli importanti, perché ogni settore della vita del ghetto era affidato a loro. Nel ghetto ci si trovava di fronte a donne capaci ad organizzare la vita comune, dovevano ammetterlo anche gli uomini, e che volevano sopravvivere e vivere. Donne spesso nemiche tra di loro, ma anche capaci di aiutarsi e di diventare e rimanere amiche. Donne che erano capaci di organizzare il mercato nero, di denunciare, di tradire.



A Lodz il controllo tedesco era serrato, ma era chiaro che lo scopo era di fare morire tutti gli abitanti. Questi lavoravano per i tedeschi e veniva loro promesso cibo che non arrivava mai, così come le cure mediche. In monolocali spesso senza acqua e riscaldamento, venivano ammassate una decina di persone, rendendo la convivenza impossibile, in condizioni igieniche drammatiche. La morte per dissenteria o tifo era all’ordine del giorno.
Unica speranza era non essere selezionati alle ispezioni, oppure trovare un lavoro che servisse ai tedeschi, anche se questo significava camminare per ore per arrivarvi, in cambio di tanto lavoro e pochissimo cibo.
Nei lager, le donne ebree al comando erano membri della polizia del campo o kapò, ed obbedivano direttamente ai tedeschi: alcune erano giuste, altre godevano nell’infliggere alle loro simili tormenti, soprusi, violenze fisiche o psicologiche di ogni sorta. Molte di queste, dopo la guerra, vennero uccise o si suicidarono prima di essere arrestate; altre vennero arrestate e condannate. Le donne prigioniere erano costrette a lavorare come schiave, spesso picchiate, con poco cibo a disposizione, cattiva igiene, prigioniere della fame e delle malattie, come tubercolosi, tifo. Era alto il rischio di venire violentate da dei maschi tedeschi e spesso non esisteva nessuna pietà o nessuna compassione nemmeno da parte delle donne dei soldati tedeschi.
Le donne, all’arrivo ad Auschwitz-Birkenau, venivano separate dai figli che, spesso, venivano immediatamente inviati alle camere a gas. Talvolta anche le donne, emaciate, deboli, venivano inviate subito alla morte. Per chi era stata selezionata per la sopravvivenza, dopo l’ispezione toccavano le docce e il taglio dei capelli, veniva dato l’abito da lavoro, spesso usato, e quasi mai scarpe da mettere ai piedi. Raramente a qualcuna venivano consegnati degli zoccoli di legno. La sera veniva consegnata alle baracche la zuppa che serviva da cena: in latte di metallo come i contenitori per il trasporto del latte, la zuppa consisteva in acqua sporca con qualche pezzo di rapa. Nessun piatto o recipiente per versarvela dentro, quindi molte donne usavano le mani a coppa per averne un po’.
Come racconta Lucille Eichengreen, sopravvissuta, un gruppo di 497 donne venne selezionato da Mengele, nell’autunno del 1944, per essere inviato da Auschwitz ai magazzini-campo di concentramento di Neuengamme-Dessauer Ufer e Neuengamme-Dessauer Sasel di Amburgo. Quotidianamente raggiungevano i cantieri navali Blom&Foss, Deutsche Werft e altri, dove lavoravano ininterrottamente, a mani nude, sotto l’occhio vigile e crudele delle guardie tedesche che inventavano ogni nuovo modo per vessarle.
Il campo di lavoro di Sasel, satellite del campo di Neuengamme, consisteva in baracche senza alcun tipo di riscaldamento. Le 497 donne erano sorvegliate da 42 guardie SS di cui 14 erano donne, alcune delle quali ebree. Alla fine della guerra, alcune di loro vennero processate e colei che si era comportata con maggiore crudeltà contro le donne prigioniere, ottenne il massimo della pena: otto anni di reclusione.
In quel campo operava la dottoressa Gisa, già utilizzata come assistente di Mengele ad Auschwitz. Gisa, ebrea ungherese, era ginecologa e, dopo avere assistito ad ogni genere di orrore, aveva deciso che avrebbe aiutato ogni donna che avesse potuto a non restare a lungo incinta dopo essere stata costretta a rapporti sessuali da guardie tedesche. Infatti, Gisa aveva visto quali pratiche disumane aveva messo in atto Mengele per i suoi esperimenti sia su donne incinte che su feti, neonati, gemelli. Pertanto si impegnò a praticare aborti non appena fosse stato possibile. Questo permetteva spesso di salvare la vita alla donna che, senza cibo, non sarebbe sopravvissuta alla gravidanza e, allo stesso tempo, la metteva al riparo dagli esperimenti. La degenza anche solo di alcune ore in infermeria poteva determinare la differenza tra la vita e la morte. Il campo di Sasel venne smantellato nel 1945 e le detenute trasportate a Bergen-Belsen in camion o in treno. Affetti da tifo, molti detenuti del campo morirono. Alle detenute, che si trascinavano a malapena sulle gambe, non venne dato nemmeno qualcosa da mangiare. Le baracche erano piccole e sovraffollate, dalla puzza insopportabile. I tedeschi non vi entravano, rinunciando anche ai controlli, per timore di contagiarsi con le malattie che circolavano. Al campo erano arrivate persone da molti altri campi di lavoro che venivano via via smantellati.
Fortunatamente, in pochi giorni, il 15 aprile 1945, nel campo di Bergen-Belsen entrò l’esercito inglese. Trovarono cadaveri a migliaia e migliaia e altrettante persone morirono nelle settimane immediatamente dopo la liberazione. Anche lì dovettero usare le ruspe per spostare e seppellire i morti nelle fosse comuni.
Le SS si arresero apponendo una fascia bianca al braccio, oppure alcuni scapparono cercando di salvarsi la vita.


 Alcune donne delle SS cercarono di mimetizzarsi vestendo un abito da lavoro a righe, ma vennero arrestate e processate. Molti dei sopravvissuti rimasero a Bergen-Belsen che venne trasformato in un campo profughi dal quale partirono a trance verso la fine dell’anno per rientrare in Germania o andare a Parigi o verso altre destinazioni.
Molte donne sopravvissero, alcune per dimenticare quell’inferno, altre per tramandarlo ai posteri. Alcune si trasferirono negli Stati Uniti per obbedire a matrimoni combinati e continuare la loro vita di prigioniere, altre riuscirono a seguire il proprio cammino.
La dottoressa Gisa sopravvisse e dedicò il suo tempo nel reparto maternità di un ospedale di New York. Una volta andata in pensione, si trasferì nei pressi di Tel Aviv.
Lucille fu l’unica della famiglia a sopravvivere: il padre morì a Dachau, la madre nel ghetto di Lodz, la sorella a Chelmno.
Ma le storie si moltiplicano. Stanislawa Leszczyńska era nata proprio a Lodz, in Polonia, nel 1896; imparò il tedesco a Rio de Janeiro, dove i genitori si trasferirono. Tornò in Europa, a Varsavia, nel 1920, dopo essersi sposata con Bronislaw, e a Varsavia divenne ostetrica. Cattolica devotamente credente e praticante, allo scoppio della seconda guerra mondiale si adoperò per aiutare molti ebrei e per questo venne arrestata. Il marito morì nella rivolta di Varsavia; due dei quattro figli vennero mandati nei campi di concentramento di Mauthausen, lei e la figlia ad Auschwitz-Birkenau. Arrivata al campo, riuscendo a portare con sé, ben nascosti, i suoi documenti di ostetrica, si propose al dottor Mengele come assistente al parto delle donne lì rinchiuse.
Riuscì così ad opporsi all’uccisione di molti bambini, dato che una volta nati avrebbero dovuti essere trattati come se fossero morti, oppure dovevano essere uccisi, annegati in barili d’acqua, o semplicemente lasciati mangiare dai topi. I bimbi, che nascevano sani e anche robusti contro ogni previsione, morivano di fame o di freddo, oppure venivano uccisi da alcune infermiere. Stanislawa cercava di procurarsi acqua per lavare le partorienti, cercando di evitare il più possibile le infezioni e l’accanimento delle bestie che riuscivano a cibarsene perché erano impossibilitate a muoversi.
Sopravvissuta al campo di sterminio, morì nel 1974 di cancro e nel 1992 venne avviato il processo di beatificazione.
Sopravvisse anche alla crudele marcia della morte, organizzata dai nazisti quando ormai per loro non c’era più scampo, la donna tatuata sul braccio con il numero 75190, Liliana Segre. Una ragazzina che si era vista rifiutare l’ingresso in Svizzera, era stata arrestata e inviata al campo della morte di Auschwitz-Birkenau, dove delle altre ragazzine francesi le spiegarono subito cos’era quell’odore di bruciato che si sentiva nell’aria. Liliana e le colleghe appena arrivate pensavano fossero pazze, per ricredersi purtroppo molto in fretta. Tutto quello che sembrava inaudito fu. Il papà era rimasto con lei per qualche tempo, durante la detenzione in Italia, a Varese e poi a San Vittore, fino a quando non furono caricati con altri 604 ebrei su un carro in partenza dal Binario 21 di Milano. Il papà continuerà a trasmetterle tutto il suo bene, fino alla separazione, una volta arrivati al campo: lei da una parte e papà dall’altra, avviato subito alla fucilazione.
A Birkenau ottenne la baracca 30 il dottor Clauberg, classe 1898, medico specializzato in ostetricia e ginecologia nel 1925. Aderente al partito nazista dal 1933, ottenne una sfolgorante carriera fino a diventare tenente generale della riserva delle SS e professore di Ginecologia all’università. Si occuperà soprattutto di sterilità, mettendo a punto dei preparati per cercare di combatterla. Himmler gli chiese, però, nel 1941, di cominciare a risolvere il problema di tutte quelle persone che, per la legge del luglio 1933, sarebbe stato meglio non si riproducessero, cercando una tecnica di sterilizzazione permanente e rapida. Dopo la baracca 30, venne assegnata al dottor Clauberg parte della baracca, o blocco, 10. Inizialmente le donne trasferite al blocco 10 furono 264, soprattutto ebree e rom francesi, olandesi, greche e belghe tra i 20 e i 40 anni. Gli esperimenti messi in atto avevano lo scopo di trovare un metodo di sterilizzazione efficace, ottenuto con metodi disumani e il più delle volte letali per le donne cavie degli esperimenti. Margita Neumann e Chopfenberg Chana hanno testimoniato che venivano praticate loro delle iniezioni nella pancia o nel basso ventre con siringhe dai lunghi aghi. Dopo l’iniezione venivano colte da dolori lancinanti che le facevano urlare, mentre qualcuno le teneva ferme e cercava di tappare loro la bocca. Dopo un anno, era stata trovata la giusta soluzione di farmaci per ottenere la sterilizzazione delle donne ritenuta efficace. All’avvicinarsi dell’Armata Rossa, Clauberg scappò nel campo di Ravensbrück per continuare i suoi esperimenti, poi si diede definitivamente alla fuga con la rotta dell’esercito tedesco. Mentre tentava di raggiungere Himmler, venne catturato dall’esercito alleato ai confini della Danimarca; consegnato ai sovietici, venne processato e condannato a 25 anni in un gulag. Tuttavia, nel settembre 1955, beneficiò dell’accordo Adenaur-Bulganin che stabiliva anche il rimpatrio degli ultimi prigionieri di guerra ancora reclusi nei campi di lavoro sovietici. Venne pertanto trasferito nel campo di Friedland da dove divenne poi un uomo libero. In tutta la vicenda non aveva mai utilizzato il suo vero nome e questo gli permise di credere di avere ormai lasciato alle spalle il suo passato di crudele sperimentatore di dolore e morte. Nel preparare i documenti per aprire un proprio centro clinico, Clauberg utilizzò il suo vero nome per ritornare a praticare come ginecologo. Nel novembre 1955, il Consiglio Centrale Ebraico lo denunciò alle autorità tedesche per crimini di guerra. Di nuovo arrestato, poco prima dell’inizio del processo, nell’agosto del 1957, Clauberg morì per un attacco cardiaco. Solo nel 2010, in una casa vicina al campo di Auschwitz, sono stati ritrovati oltre cento ferri chirurgici e ginecologici, forse proprio quelli utilizzati nel campo di sterminio da Clauberg per i suoi inenarrabili esperimenti sulle donne.



Comm. Alessia Biasiolo

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