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mercoledì 4 gennaio 2017

L'ultimo Saluto a Cesare Garaffoni

(a cura di Daniele Vaienti)

Cesare Garaffoni, 
1923, 
Cesena, soldato ex I.M.I.



Cesena, 3 aprile 2008
(Testimonianza raccolta da Maurizio Balestra, revisionata da Daniele Vaienti il 4 settembre 2012)

Mi chiamo Cesare Garaffoni, sono nato il 27 maggio del 1923. Prima di partire per la guerra abitavo nell'angolo di via Montalti, di fronte alla casa di Bagioli. Prima ancora abitavo lì vicino, in via Uberti, all’angolo con Via Sacchi. Ho giocato, da bambino, fra la piazzetta di Palazzo Romagnoli e la Piazzetta del Leone. Lì vicino c’era il Palazzo Urbinati, quello della Società Elettrica e un negozio di generi alimentari. Io abitavo sopra il negozio. La casa fu distrutta nei bombardamenti e quando tornai lì non c'era più. Lì vicino c’erano delle osterie: una, dalla mia parte e una sul lato opposto, quasi all’angolo con Via Uberti, l’Osteria “Da Davin”. Ho studiato ragioneria e ho fatto il soldato qui a Cesena, facevo parte del 12° Reggimento di Fanteria della Divisione Piemonte, che aveva sede a Messina, comandata dal colonnello Pozzuoli, napoletano. Sono partito da Cesena nel febbraio del ‘43, destinazione Grecia. Partiamo da qui. Arriviamo al Pireo, poi a Pyrgos e quindi a Zante, che è il luogo dove è iniziato il mio calvario.
A Zante, dato il mio titolo, vengo scelto per tenere la contabilità e lì apro il libro mastro della contabilità del Reggimento, insieme ad un capitano di cui non ricordo il nome. Tenevo anche il danaro del reggimento, custodito in una cassaforte. Solo con la firma del capitano potevamo aprirla e fare i pagamenti.
A Zante siamo rimasti diciamo… dal marzo 1943 al 29 settembre dello stesso anno. Di fatto amministravo tutto il danaro, tutti i versamenti e tutti i pagamenti del Reggimento, anche i pagamenti fatti agli operai di laggiù per i lavori di costruzione dei bunker e delle casematte, per la sistemazione della difesa, eccetera. Venivano sempre pagati da me, che ero l'amministratore del Reggimento dell'isola, tant'è che quando io mi ammalai di malaria e di dengue[1], il colonnello fece di tutto per aiutarmi. Racimolò tutto il chinino che si poteva trovare. Perché se non fossi riuscito a rientrare entro sette giorni li si sarebbe bloccato tutto. E dire che io non ero niente, ero un soldato semplice. In queste condizioni siamo andati avanti fino all’8 settembre.
[Però la voglio fermare un attimo, perché prima dell'8 settembre arriva il 25 luglio. Voi non sapete niente di quanto accade?]
Ecco noi del venticinque luglio non abbiamo avuto nessuna notizia, nessun riferimento, nulla.
L'8 settembre noi ricevemmo la notizia subito. Con una radio o in altro modo, io non so come, non ricordo, ma la cosa si propagò immediatamente. Tutti i soldati andarono in strada e si pensava “Abbiamo finito la guerra! Finisce la guerra, torniamo a casa!”
Poi perdemmo tutti i contatti con lo Stato Maggiore, non si seppe più nulla e a un certo momento ci fu una riunione degli ufficiali perché a Zante c'erano circa quaranta militari tedeschi e bisognava decidere cosa fare. Noi facemmo prigionieri i militari tedeschi e li disarmammo; questo avvenne circa negli otto-dieci giorni dopo l'8 settembre e loro si arresero senza sparare. A Zante, a presidiare tutta l’isola c’erano alcune migliaia di italiani, forse seimila, ma nel centro di Zante erano forse meno della metà. La mattina del 29 settembre del 1943, in lontananza, si vide arrivare un cacciatorpediniere con bandiera italiana, che scortava una nave trasporto che pensavamo fosse italiana e tutti andammo giù al porto, correndo e pensando: “Son venuti a prenderci, ci portano a casa.”. Questa era la voce che correva nell’isola. Io mi fermai un po’ più in alto del porto e vedevo un tratto di mare. Quando la nave arrivò in porto... ecco ho impresso nella memoria quello che accadde e il luogo, come una specie di quadro che mi è rimasto impresso. Qui avevamo la piazza Ugo Foscolo e qua, proprio davanti, c'era il mare. E qui c'era il teatro, intestato a Foscolo anche lui, ed era diventato la sede della sussistenza, con tutti i depositi delle cose da mangiare, i magazzini generali. La piazza Ugo Foscolo confina col porto canale. Dalla piazza Ugo Foscolo si vede il cacciatorpediniere che arriva a circa tre miglia e vira, va via, cambia rotta, non entra. Continua a venire avanti, invece, la nave trasporto, arriva sul porto si apre e scendono i carri armati tedeschi. Era stato tutto un trucco. Arrivano i tedeschi e coi carri armati e si piazzano nel quadrato della piazza. Le posizioni si fronteggiano e comincia uno scambio fra i nostri e i loro comandanti: “Arrendetevi!” “No, arrendetevi voi!” Finché arrivarono gli Stukas e fra quelli e i cannoni dei carri armati e la sorpresa, l'ultima decisione fu quella di arrenderci, anche se noi avevamo dei cannoni. Si fece una la riunione degli ufficiali presieduta dal colonnello Pozzuoli e si decise che ci arrendevamo. Non fu sparato un colpo. C’era lì, davanti al mare, una specie di grande palestra dove si raccolsero tutte le armi: ogni militare e sottufficiale doveva deporre tutte le armi in questo luogo e noi lasciammo lì tutto e ci disarmammo.
Nessuno reagì, Non c'era la possibilità. Eravamo in un'isola, distante dalla terraferma e senza niente, senza mezzi. Non si poteva scappare o lasciare l’isola, questa era la situazione. Non c'era possibilità di nascondersi, non a Zante. E’ una piccola isola e poi dove vai? Perché i greci, per quanto noi li abbiamo conosciuti (e lì eravamo ben visti), non potevano aiutarci e avevano il terrore dei tedeschi, quindi chi poteva aiutarci? A me non risulta che nessuno di noi sia riuscito a scappare e quindi...
Lì ci fu un primo fatto: un capitano, di cui non ricordo il nome, (che era il capitano addetto, con me, all'amministrazione generale e che non capiva nulla di contabilità, per cui ero io che dovevo seguire tutto) questo capitano si schierò con i tedeschi e assieme a lui, lo fecero una quarantina di soldati che erano tutti richiamati, con moglie e figli, siciliani, sulle migliaia che si era. Lui fece anche un po' di propaganda in giro per passare con i tedeschi. Dopo, quando la stessa nave da trasporto che aveva portato lì i carri armati, ci caricò e ci trasportò fino al porto del Pireo, sapemmo che lui era rimasto lì, a Zante. Devo anche dire che io avevo in gestione i soldi del reggimento. Li depositavo in una banca, tenendo in cassaforte solo quello che mi serviva. Prima dell’arrivo dei tedeschi avevo fatto un versamento e avevo una ricevuta per tre milioni e rotti di dracme che avevo depositato. La ricevuta di quel versamento l’ha voluta quel capitano e non so poi lui l’abbia consegnata ai tedeschi che cercavano i soldi…[2]
Sbarcammo al Pireo e dal porto, a piedi, con lo zaino in spalla, andammo ad accamparci fin sull'Acropoli. Sì, proprio sull'Acropoli e li restammo non mi ricordo quanti giorni. Per il mangiare dovevamo vivere con quello che avevamo portato nello zaino.
[E anche lì non ci fu nessuno che riuscì a scappare?]
Nessuno, anche se di lì, forse, si poteva anche scappare. Si poteva scappare anche perché da quel momento noi non eravamo strettamente sorvegliati e inquadrati. Ma in quelle condizioni e con la voce che girava che ci avrebbero riportato in Italia! Anche dopo, quando siamo partiti di lì, che ci hanno messo su dei treni e i vagoni erano aperti, c'erano una decina di sentinelle tedesche: ne avevo uno o due in testa al treno, uno due alla fine e gli altri tedeschi in un vagone per conto loro e potevamo scappare, ma dicevano che si tornava in Italia...
Qualcuno ha tentato di fuggire, per andare con quelli di Tito, poi è rientrato perché se non avevi le armi non ti prendevano. Così era successo e quelli che sono tornati hanno detto: “è inutile che scappiamo perché con Tito ci vai se hai le armi e le munizioni, se no ti mandano indietro.”.
[Questo accade in Jugoslavia, ma in Grecia nessuno vi ha contattato?]
No. In Grecia non ci ha contattato nessuno. Né noi lo abbiamo fatto. In Grecia non c'è stata possibilità perché siamo rimasti lì solo pochi giorni, così, un po' sbandati.
Fummo caricati in dei vagoni aperti. Si poteva scendere nelle fermate. Non c'erano i soldati a controllare per farci tornare dentro, c'era la possibilità di scappare. “Ma perché?”, dicevano che ci portavano in Italia. Loro avevano detto così, o meglio la voce era che si andava in Italia e tutti erano abbastanza tranquilli. E infatti riconoscevamo la strada, perché noi l'avevamo già fatta all'andata. Era quella... almeno fino un certo punto.
Quando siamo al bivio, vicino a Trieste, è notte, non si vede nulla, la maggior parte di noi dormiva, eravamo tutti pigiati (non mi ricordo quanti fossimo, forse in quaranta in un vagone); al mattino... le date io non le ricordo... al mattino ci svegliamo a Linz. Sentiamo urla: “Achtung!”. Apriamo i vagoni, ci troviamo circondati. Il treno è tutto circondato dai tedeschi con le mitragliatrici tutte fissate attorno.
Un gruppo di tedeschi entrava in ogni vagone a fare una perquisizione. Una volta perquisiti, da quel momento, si chiudono i vagoni.
E poi arriviamo. Siamo in aperta campagna. Non so dove fosse, ma era un posto molto bello, perché c'erano degli abeti enormi. Era un centro di raccolta e destinazione, lo Stalag IV B. Era fatto proprio così come siamo abituati a vederlo, con tutte le torrette e il recinto di filo spinato, un campo, con tutti i crismi del campo di concentramento. A quel punto tutti veniamo tosati a zero, ci rasano sotto le ascelle e dappertutto con delle macchinette. Tutti a zero. E ci fanno la disinfestazione. Poi ci fanno mettere sulla schiena un triangolo rosso che significava kriegsgefangener, prigioniero di guerra.
Lì arrivò un tenente, un tenente colonnello mi pare, o un maggiore. Era siciliano. Siccome la divisione Piemonte era di stanza a Messina molti erano siciliani. Venne questo tipo, mi ricordo, eravamo tutti in fila e ancora avevamo il nostro zaino ai piedi, tutti in fila in piedi, lui venne e disse: “Sono arrivati gli americani, sono sbarcati in Sicilia, violentano tutte le nostre donne, fanno razzia, ne stuprano, ne fan di tutti i colori, noi dobbiamo andare a difendere le nostre donne, voi siciliani soprattutto! Noi siamo pronti a partire, chi è d’accordo venga da questa parte, chi invece non è d’accordo rimanga fermo.”. Io rimasi fermo.
[Ne passarono molti?]
Ne passarono una buona parte e la maggior parte erano siciliani. La maggior parte avrà anche pensato: “Quando siamo là chi sa cosa...” Però c'andarono eh!
Ma furono due i momenti in cui ci fecero questa proposta. Il primo direttamente a Zante, al momento dello smistamento. Quel capitano che parlò in quel momento era fascista e parlò da fascista, non parlò dello sbarco degli americani, anche perché non ne sapeva niente. Quello che parlò nello Stalag IV B, invece, che era anche un superiore, disse la frase che ho riferito. Parlò diverse volte e si raccomandava, si ripeteva anche nelle cose che diceva.
Noi continuammo a non andare.
Dopo ci fu lo smistamento e partimmo per un campo della Ammoniacwerke, io vado a finire a Merseburg, che confina con la Turingia. Il campo era fra la cittadina e la Ammoniacwerke, che era la più grande fabbrica chimica d'Europa e occupava un’area lunga, mi pare, quattordici chilometri con una ferrovia interna e quattro stazioni: Leuna nord, Leuna sud, Leuna est e Leuna Werke. Quattro stazioni e ognuna aveva quattro binari, tutti interni. Lì si fabbricava la benzina sintetica. Dove lavoravo io, lo stabilimento numero 820 si faceva la seta sintetica che usavano per i paracadute.
Si controllava il sistema chimico che produceva la sostanza, che poi veniva raccolta e si solidificava. Si lavorava in grandi ambienti. Alcuni erano ad un piano superiore e da lì la sostanza colava giù da una specie di imbuto e si raccoglieva nel piano inferiore, dove ero io. C’erano manometri e rubinetti da aprire e chiudere quando i livelli erano arrivati al punto giusto e il liquido, che inizialmente era bianco, diventava rosso. Allora si faceva un urlo e di sopra, dove lavoravano dei francesi, chiudevano. Si facevano dei turni continui di dodici ore e in coppia con me c’era questo francese, di Parigi. Io andavo avanti così facendo i miei turni. Questo finché non arrivarono i bombardamenti.
Finché non incominciarono a bombardare questa fabbrica io ho continuato a lavorare lì e con me lavoravano anche i tedeschi. Si facevano i turni e a un certo punto c’era un intervallo, avevano un intervallo nell’arco delle dodici ore di lavoro, e nell’intervallo i tedeschi mangiavano. Anche noi avevamo l’intervallo, solo che noi non mangiavamo perché non avevamo niente da mangiare. Allora mi ricordo che c'era qualcuno che veniva vicino a me e qualche volta mi hanno passato da mangiare. C’era una signora, un'anziana, che avrà avuto una cinquantina d'anni e che ogni tanto mi dava un pezzo di pane. Un giorno mi portò addirittura un filone, perché all'uscita non facevano sempre le ispezioni. Una volta che questa donna mi da il pane, io lo nascondo qui sotto la giacca. Quello che sorvegliava era vicino a me, me lo ricordo, era zoppo, (poveretto, era giovane, era tornato dal fronte). Forse aveva visto che avevo preso il pane e dice “Alt, che dobbiamo fare le perquisizioni!”. E allora dal cenno che faccio lui capisce tutto, viene lì da me, mi dà una spinta e mi dice di dargli il pane “E st'altra volta”, mi dice, “dammelo prima”. Poi, appena usciti, mi fa un cenno e mi ridà il pane, passato il controllo. Questi uomini che ci controllavano erano rientrati dal fronte feriti, forse per questo erano più umani.
Qui successe anche un altro episodio. Mi ero ferito a un piede e si era infettato. In infermeria mi avevano tagliato l’ascesso e medicato alla meglio, prima di rimandarmi a lavorare. Dalle baracche al capannone della fabbrica dove si lavorava c’era da fare un lungo percorso a piedi. Il percorso costeggiava la ferrovia interna, lungo un terrapieno dove mentre passavamo tutti in fila, i ragazzi del luogo, tutti attorno, ci gridavano “Keine lost!” “Forbaiten” “Italiener Fareda” “Vagabondi italiani! Traditori!” “Non han voglia di lavorare gli italiani, traditori!”… Io camminavo in fondo al gruppo, con zoccoli di legno e a causa della gamba ferita ero rimasto indietro. La guardia tedesca, rientrata ferita dal fronte russo, mi spingeva e mi urlava, spinto anche dalle grida dei ragazzi. Ad un certo punto mi minaccia, mi butta contro una rete, prende il fucile… Io sono allo stremo, non penso neanche più a morire, quasi vorrei far finire quel supplizio. Basta una reazione e forse mi sparerebbe. Non so neppure io come e perché, ma mi volto verso la guardia e mi apro i vestiti e gli offro il petto. Rimane interdetto, si smonta, cala un grande silenzio tutt’intorno... Mi dà una botta nella schiena e mi spinge avanti...
In quel momento, non pensavo di poter morire, forse lo desideravo anche e feci quel gesto.
[Questo è per quanto riguarda il lavoro. E la vita nel campo com'era?]
La vita nel campo... potrei dire molto lavoro e niente pane. Per il pane noi avevamo costruito delle bilancine, perché il pane non veniva distribuito ad ognuno il suo pezzo, (adesso, fra l'altro, non ricordo neanche la pezzatura precisa)...
[Davano un pezzo di pane per ogni baracca?]
No, no, no... La baracca era unica e poi avevamo delle specie di stanze a uno, due, tre, quattro castelli e se, per esempio, eravamo sedici, davano il pane per sedici. A filoni interi, per cui noi dovevamo dividerlo e doveva durare per tre giorni. Il problema era dividerlo nel modo giusto. Allora insieme a me, ricordo che c'era un ingegnere e un certo Farina, uno che aveva dei mulini su nel Trevigiano, che poi è diventato anche presidente del Milan. Farina assieme all’ingegnere presero un bastoncino e si il trovò il modo di fissarne uno trasversale, con due “cosi” che pendevano e con questa bilancia si pesava il pane. Così riuscivamo a fare pezzi giusti.
Un'altra delle condizioni in cui si viveva è questa: si facevano turni di lavoro di dodici ore, ma fra il prima e il dopo, cioè il cammino di andata e di ritorno e i momenti nei quali si doveva aspettare, alla fine c'erano poche ore per riposarsi. Poi bisognava lavarsi qualcosa perché quello che avevi addosso era tutto quello che avevi. Non ci han mai dato niente e così bisognava accomodare i vestiti. C'è chi ci riusciva, perché era capace di cucire. C'era chi aveva del filo, del cotone... Io non ero capace… non avevo niente… me a n’aveiva gnint... Mi aiutavano due di Cesena che si chiamavano Trevisani Medante e Sama Guerrino e uno di San Vittore, che non mi ricordo il nome.
[E oltre il pane cosa vi davano ancora da mangiare?]
Ah!... una sbobba, quando c'era. Ma una sbobba con niente, insulsa, non c'era niente: barbabietole o carote... una gamella, ma non c'era la sostanza...
[Mi diceva che a un certo punto cominciano i bombardamenti...]
Allora, donca… i tedeschi avevano creato questa grande fabbrica: la Ammoniacwerke, tutt'attorno alla fabbrica, anche a quattro-cinque chilometri avevano delle bombole enormi che potevano emettere dei fumogeni che annuvolavano tutto e non si vedeva più niente. Quando si sentivano “uuu” le sirene d'allarme, venti-venticinque minuti prima, loro spargevano i fumogeni. C'era questo preavviso e lì noi eravamo liberi di andare dove volevamo ma i bunker che c'erano erano solo per i tedeschi. Noi potevamo spargerci in giro per i campi. Venivano a bombardare tutti i giorni, anche due volte al giorno. Io correvo come un diavolo, come gli altri, a volte mi trovavo anche solo, non con gente. I francesi mi chiamavano, le diable rouge, perché avevo una camicia rossa. Le bombe all’inizio arrivarono fuori bersaglio, non lo colpivano o lo colpivano solo marginalmente. Ma dopo i primi due o tre bombardamenti, fu un disastro. Si lavorava che poco o niente, noi minavamo le macerie... per poter ricostruire le parti danneggiate. Dovevamo scavare per terra per rifare le fondamenta. Mi ricordo che era talmente freddo che la terra era dura, gelata. Noi avevamo dei bidoni da duecento litri che contenevano la benzina. Li aprivamo e facevamo fuoco per ammorbidire il terreno se no col piccone non riuscivamo a romperlo. Dovevamo fare così. Facevamo così quasi tutti i giorni.
E andammo avanti così, in continuazione finché finì la guerra.
Lì vicino hanno bombardato anche con il fosforo. I bombardamenti al fosforo noi li vedevamo a distanza. Poi si correva via. Mi ricordo che andavamo sul fiume Saale. C'era una grotta, ci si infilava dentro e a volte, sentivamo l'aria che spostavano e mi son trovato più di una volta a contatto con la parete.
Poi avviene che io mi ammalo e seriamente, anche. Mi sono ammalato a Merseburg e in un primo momento mi hanno portato in un'infermeria a Merseburg. Lì han detto “No. Bisogna trasportarlo all'ospedale di Lipsia”. Insieme a me, di ammalati, ce n'erano altri, anche di altre nazionalità. Ci hanno caricato e ci hanno portato in un capannone. Ho pensato e mi sono detto “Guarda. Qui è dove hanno gassato la gente”… Il capannone era così: di qua si entrava e di là si usciva. Aperto. Qui c'era un ingresso e là un'uscita, in un angolo, qui, in pochi minuti entravi, tutto nudo, perché prima venivi passato in una disinfezione. Poi loro avevano un pennello grande che lo intingevano e lo passavano sotto le ascelle e sotto, lì, nelle parti… e dappertutto. E poi in alto c'erano dei buchi così, delle docce nel soffitto... e noi stavamo sotto… ci si lavava e ci si disinfettava, perché anche quell’acqua aveva un disinfettante e poi uscivamo da quell'altra parte. Questo fu per entrare all'ospedale.
All'ospedale, mi han fatto delle cure, lì si mangiava anche, però non mi hanno trattenuto molto, mi han fatto... delle punture. Dicevano che io ero malato ai polmoni… quello l’ho capito. Ricordo che era verso la fine di novembre, i primi di dicembre. Feci il Natale lì quell'anno. I francesi nell'ospedale fecero uno spettacolo e cantarono e portarono da mangiare per tutti e per noi fu una gran cosa... il Natale del '44... Io sono stato lì ventisei-ventisette giorni e il primo dell'anno ero già a lavorare di nuovo, mi rimandarono nella stessa zona.
[A fare le stesse cose?]
No, no, no... Dopo ci liberarono... ci fu la liberazione, cioè noi... ci fu la trasformazione in civili... sissignore, sissignore, ci fu la trasformazione.
[E questo quando avvenne?]
Non mi ricordo se fosse prima o dopo Natale. Sai che adesso sono un po' indeciso se fosse prima o dopo. An m'arcord gnenca pió[3].
[Ad un certo punto, dunque, vi lasciarono liberi, quindi voi eravate meno pressati, meno sorvegliati?]
Sì, non avevamo più i tedeschi che ci badavano… con la storia dei bombardamenti, si capisce. Si andava a lavorare e si ottenevano dei buoni… che se no come fai a vivere senza i buoni? Non ci pagavano, ci davano dei buoni, dei buoni, che non potevi prendere niente, però ne avevi bisogno per mangiare.
Poi verso aprile ci fu la liberazione degli americani... Gli americani attraversarono il Saale e andarono incontro ai russi che arrivavano dall’altra parte. Non ci furono combattimenti. Noi non abbiamo sentito niente, non si è sparato un colpo. Ci siamo svegliati al mattino siamo andati a vedere e c'erano queste file di soldati nella strada principale. Erano loro, gli americani, in fila indiana una da una parte della strada e una dall'altro lato, coi loro fucili in spalla e andavano: noi non abbiamo visto nient'altro.
[In precedenza avevate avuto notizie sulla loro avanzata?]
Noi si sapeva già, sapevamo dov'erano e dove non erano, cosa facevano… I francesi, in particolare, avevano i giornali che gli arrivavano. L’Eco di Nancy, lo ricordo ancora, l’Eco di Nancy  e dato che io parlavo francese, allora riuscivo a capire… e poi venivano tutti gli altri da me per sentire le notizie. Aspettavamo e sapevamo che erano in arrivo, perché verso Lipsia c'erano già i russi.
[Quando arrivarono vi siete presentati a loro?]
Assolutamente no. No. Loro volevano altro, loro avevano un compito... I tedeschi erano spariti, non c'erano più, non c'era più niente. E noi siamo rimasti lì.
[I bombardamenti avevano distrutto tutto prima che arrivassero gli americani?]
Sì. Non la città, ma la Ammoniacwerke, la fabbrica, quella sì...
[I soldati tedeschi erano scomparsi ma la gente del posto?]
La gente... non c’erano giovani? Lì c'erano solo i vecchi, gli anziani, le donne, anche loro con una fame tremenda, perché non avevano più niente.
Vicino al campo c’erano dei punti dove loro, gli americani, avevano la roba e dove noi abbiamo trovato marmellata e dei fusti, dei bidoni da venti litri, con la farina e... Insomma portavamo via sta roba e si mangiava. Noi fummo rimpatriati a giugno.
Gli americani avevano proseguito. Erano andati via perché la guerra ancora non era ancora finita. E noi abbiamo sgomberato tutto.
Un altro episodio che mi ricordo è di un individuo che aveva trovato un coniglio, lo ammazzò e lo fece bollire, prese un bidone, quelli da dieci litri o venti, non ricordo, tipo quelli dell'Arrigoni e lo riempì d'acqua. Poi se lo mangiò tutto e morì soffocato perché non era abituato a mangiare così tanto!
Anch'io lì usavo questi bidoni. Con la farina facevamo un impasto, lo facevamo bollire e si mangiava…
[E quanto tempo siete rimasti lì?]
Io son rientrato a giugno. Dopo Lipsia[4] e il ricovero all'ospedale. Io e gli altri italiano aspettavamo. Io stavo male, sputavo sangue e allora andai da un medico privato e gli dissi: “Io non la posso pagare, perché sono...” lui mi disse “No, non si preoccupi…”. E’ visiteva tot. Era un tedesco, un anziano, avrà avuto settanta–ottant’anni... Io di tedesco qualcosa capivo e lui mi dice: “Quando in Italia... Sanatorio” um dis. E allora mi fa un certificato. “Questo certificato per quando arrivi” dice. Si organizza un treno per il rientro, un treno ospedale. Io ho una gran fretta di arrivare a casa mia e quando sono a Verona, taglio la corda e mi metto sulla strada che porta giù, verso Modena e Bologna. Parte di lì un camion carico di sacchi di grano, io salgo su questo camion didietro. Sopra eravamo in diversi e questo camion ci porta fino a Modena. A Modena lui si ferma e ci scarica. Mi faccio portare sulla via Emilia per vedere di andare a Bologna e trovo nella strada uno di quei camion che aveva delle panche a sinistra e a destra… Si poteva salire... io salgo e viene uno che vuole i soldi perché bisognava pagare. Allora gli dico: “Vedi come son messo, vengo dalla Germania, dalla prigionia, non ho una lira, mi dica come si chiama che glieli manderò. Come faccio io a dargli i soldi?”. Lui dice di no, poi comincia a far casino e allora c'è una signora lì di fianco che dice: ”Lasci stare, lasci stare, che per lui pago io”. Questa signora pagò per me e io arrivai a Bologna. A Bologna prendo vado in stazione, prendo il treno, un treno merci dove ci sono delle assi come sedili, insieme a delle suore che dovevano andare a Gambettola. Mi dicono” Andiamo a Gambettola però non sappiamo quando scendere]..” “Non vi preoccupate perché io scendo a Cesena e voi, alla stazione successiva scendete.” Alla stazione, appena sceso la prima persona che incontro è Venturi, il capostazione, che abitava vicino, nella casa prima della mia ed eravamo amici. Mi viene incontro e mi dice: “Lo sai? Tuo babbo è morto... e la tua casa è stata distrutta, non abiti più lì.” Questo è il primo incontro...
Mio padre è morto su a Celincordia il 18 ottobre[5], i tedeschi gli han sparato nella schiena e la ferita fu tamponata dagli inglesi, perché era aperta ... Gli inglesi l'hanno soccorso. Si chiamava Paolo. A Celincordia, dove erano sfollati, lui aveva messo la famiglia dentro al rifugio. Lui, all’imboccatura del rifugio, aveva fatto una specie di nicchia dove faceva da mangiare, che non si poteva far da mangiare fuori. Non si sa se i tedeschi lo abbiano preso. Forse hanno pensato che facesse dei segnali… Oppure è stata una granata. Chi lo sa? Qualche cosa è successo… Fatto sta che gli si è aperta la schiena ed è rimasto lì. C'erano gli inglesi sono arrivati e subito l'han tamponato... Comunque lui è morto lì. Era il 18 ottobre del ’44. Io, invece, son tornato meno di un anno dopo... era il giugno del 1945.

Cesare è deceduto a Cesena il giorno 4 gennaio 2017







[1] La febbre dengue, più conosciuta semplicemente come dengue, è una malattia infettiva tropicale causata dal virus Dengue. Si presenta con febbre, cefalea, dolore muscolare e articolare, oltre al caratteristico rash simile a quello del morbillo. In una piccola percentuale dei casi si sviluppa una febbre emorragica pericolosa per la vita, con trombocitopenia, emorragie e perdita di liquidi, che può evolvere in shock circolatorio e morte. La malattia è trasmessa da zanzare del genere Aedes, in particolar modo la specie aegypti. – Da Wikipedia (http://it.wikipedia.org/wiki/Dengue)

[2] “Molti anni dopo sono ritornato a Zante insieme a mia moglie e a Renato Antoniacci, il titolare della ditta di autotrasporti e per curiosità, abbiamo cercato quella banca. Ma il 12 agosto del 1953 c’era stato un terremoto ed era stata distrutta.”

[3] In realtà il cambiamento di status da Internati militari a liberi lavoratori, avvenne nell’estate del 44. La confusione è probabilmente determinata dal fatto che questo cambiamento non comportò nella realtà un effettivo progresso delle condizioni di vita dei prigionieri, mentre per loro le cose cambiarono effettivamente, con l’arrivo dei bombardamenti alleati. I bombardamenti oltre agli edifici, riuscirono a disgregare alche la capillare organizzazione tedesca e da questo momento si sentirono e furono effettivamente più liberi, si veda il sistema dei “buoni” di cui parlerà più sotto, adottato nell’inverno ’44-’45.
[4] Lipsia è occupata dalle truppe corazzate americane il 18 aprile 1945.
[5] Nei giorni in cui si combatteva per Cesena,  liberata il 20 ottobre 1944.