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martedì 6 dicembre 2011

Albania Il Caso Terrusi 3

Quotidiano Standart

Venerdi, 28 ottobre 2011

Violeta Murati

Aurelia Terrusi: Vittima oppure amore italiano del Dittatore
Ieri Aldo Renato Terrusi ha fatto un passo indietro.  Perché è ritornato in Albania nel 1993? Conosceva solo la prima parte della storia, quella del '45, quando la sua famiglia, il banchiere Giuseppe Terrusi, soggiornava in Albania, come direttore della banca, insieme allo zio, giocatore della squadra nazionale di calcio. Fin qui tutto sembra fantastico. Però gli mancava tutta la storia. Perché suo padre è stato condannato nel famigerato carcere di Burrel? Come è morto? Dove giace il suo corpo senza vita? "Mancava qualcosa in me, volevo capire la verità, perché la storia rimaneva a metà", raccontava ieri, Terrusi 50-enne. Capire cosa è successo nel corso di quattro decenni prima. Un impulso che l’ha portato a scrivere il libro, "Ritorno al paese delle aquile", all’inizio un semplice diario.
Premessa, come è arrivato al libro: Giuseppe Terrusi, direttore della Banca italo-albanese a Valona viene condannano "a sorpresa" e finisce in carcere con la firma del dittatore. Il figlio, Aldo Terrusi racconta, anche altre volte nei media, questa storia, come nel libro, che sua madre, Aurelia, aveva conosciuto Enver Hoxha, che allora viveva ad Argirocastro. Enver era innamorato della madre, e voleva fidanzarsi ad ogni costo. "Mia madre aveva ammesso l'amicizia con lui, ma nessun fidanzamento" continua Terrusi.  Dopo il ritorno di Enver da uno dei suoi viaggi a Parigi, l'amicizia è stata interrotta. Aurelia era fidanzato e poi subito sposata ad Argirocastro, nel 1936,  con il padre di Aldo, Giuseppe Terrusi. Sentito offeso, Enver  promette vendetta Appena Comandante dell’Esercito Nazionale, Enver manda in prigione mio ​​padre, Giuseppe, che  in quel momento, nel 1945, è stato direttore della Banca italo-albanese di Valona, ​​con l'accusa di aver rubato i soldi del popolo albanese. Non personalmente, ma attraverso le operazioni bancarie. Erano tutte accuse false, per le quali non sono stati trovati né prove né testimoni affidabili. L’assurdità affrontata da Aldo Terrusi: come il regime assassinava  anche con un solo testimone, per di più falso.
La sua presenza, ieri a Tirana, aveva un motivo: quello del testimone. Oltre al suo viaggio in Albania alla ricerca della sua origine e storia personale;  Aldo Terrusi un bambino di 4 anni, quando il regime di Enver Hoxha rinchiude il padre nella prigione di Burrel, dove morì senza poter vedere per l'ultima volta suo figlio e sua moglie.
L’incontro con Terrusi, la presentazione del suo libro è stato reso possibile grazie all'Istituto Italiano di Cultura in collaborazione con l'Istituto degli Studi sul Crimine e sulle Conseguenze del comunismo.
In confronto alle esperienza del '93, quando venne per la prima volta in Albania, dove le vicende lo seguirono fino al '96 quando smise si cercare la "sua storia", oggi Terrusi sostiene di aver avuto un grande sostegno da parte dell'Istituto degli Studi sul Crimine e sulle Conseguenze del comunismo. Perché? E’ rimasto stupito dalla logica politica di tutto il processo sulla trasparenza verso i crimini comunisti, specificando che grazie a questo Istituto è riuscito a trovare i documenti sul processo del padre, quelli del '45.
In questa occasione, gli interventi dell’accademico Kolec Topalli, del Dott. Pjeter Pepa e del Direttore dell’ISCC, Agron Tufa, sono stati tentativi di trasparenza verso la storia, di approssimazione alla verità, ma anche di memoria per quello che la dittatura  offrò alla storia degli albanesi "... un tale serpente pericoloso, come Enver Hoxha, avrebbe aggiunto alla vergogna degli albanesi anche il  martire italiano,  Giuseppe Terrusi,  rinchiuso nella prigione di Burrel e morto il 2 marzo 1952. I  Dittatori pensano di fare la storia, ma la storia si fa. A noi non rimane che scriverla, anzi, solo se siamo onesti e capaci, di scriverla correttamente. ", ha detto Pjeter Pepa nel suo intervento.
In perfezionamento alla storia, gli elementi e le prove si riferivano a quelle dell’altro detenuto Petrit Velaj di Valona, ​​che aveva assistito alla morte Giuseppe Terrusi, e che conosceva il posto dove il martire italiano era stato seppellito: “Il compito di seppellirlo toccò a me e ad altri tre detenuti, forse perché eravamo i più giovani o forse perché eravamo stati i più cattivi. Abbiamo avvolto il cadavere in un lenzuolo e abbiamo scavato una fossa vicino a un ciliegio, fra le due recinzioni del carcere. Erano i primi giorni di marzo. C’era la brina, faceva molto freddo e il terreno era duro come un sasso, perciò faticammo molto per scavare. Avevamo le mani congelate. Mentre svolgevamo questo triste compito, le guardie ci deridevano e ci insultavano, ricordandoci che presto sarebbe toccato anche a noi. Quelle guardie non ci sono più ma io sono ancora qui! Vi dirò di più, so per certo che due delle guardie di allora sono state uccise durante il regime di Enver Hoxha, ma gli assassini non furono mai trovati .. "                                                                                                                  
Ieri Terrusi ha confessato che non c'è mai stata alcuna intenzione di scrivere un libro. "All’inizio quello che ho scritto qui era solo un diario.  Avevo bisogno di mettere nero su bianco i ricordi  miei e della mia famiglia, ricordi che non riuscivamo a tenerli, come si doveva essere. Così ho pensato che era necessario scriverli. La morte della madre e poi dello zio mi ha reso consapevole che ero rimasto solo io, l’ultimo anello della catena , che potevo trasmettere quanto era successo, cioè la storia ".
Negli anni '91—‘93,  Terrusi decide di ritornare in Albania, insieme allo zio, per incontrare anche gli ex giocatori della squadra del '46.
“A quel tempo ho avuto il desiderio di toccare con le mie mani e vedere con i miei occhi dove la mia famiglia aveva vissuto, dove aveva soggiornato e passato i momenti di sua vita. Ho deciso di contattare due testimoni, che erano stati in carcere, il signor Petrit Velaj e Ëngjëll Kokoshi, imparando direttamente da loro che cosa era successo".
In una scala emozionale, in contrasto con la storia del '49 ', l'atmosfera che porta Terrusi, quella  trovata nel '93, era diversa, l’incontro, l’amicizia, le lacrime di gioia dello zio, Giacomo Poselli, quando ha incontrato i colleghi albanesi. "Sono rimasto affascinato da questa grande amicizia che mio zio mi ha raccontato. Una cosa molto bella, anche se tutti erano vecchi decisero di andare un giorno allo stadio "Qemal Stafa" e di fare una partita di calcio. Il peggio è venuto dopo, a malapena stavano in piedi dopo questo piccolo gioco. Infatti dopo pochi giorni il Comitato Olimpico ha premiato questi signori, eroi. E' stata una medaglia negata a  loro e data in  quel giorno. " Il viaggio continua a Valona, ​​rimane sorpreso dalla stessa immagine della Banca di Valona con quella di anni fa. "Un altra emozione speciale è stata quando sono entrato nella stanza dove mia madre partorì me. Si può capire l’emozione indescrivibile. Il mio obiettivo era quello di verificare cosa fosse successo a mio padre e per questo motivo siamo andati a Burrel. Prima ho avuto l'opportunità di incontrare e di sentire la testimonianza del signor Velaj, che mi raccontò il momento della morte di mio padre e che era stato proprio lui a seppellirlo”
Ha conosciuto da vicino la verità, ha avuto prove, (scritte nel libro), ha sentito storie sul carcere, come si alimentavano, si torturavano a morte. Ha visitato la cella in cui morì suo padre, il posto dove potrebbe essere sepolto.  Ha sentito la terribile storia del Sig. Kokoshi, "...Venivamo picchiati al centro di una cella situata al centro dell’intera prigione. Tutto avveniva di notte. In modo che tutti i prigionieri sentissero le grida di coloro che venivano picchiati. I primi picchiati venivano messi  all’interno di una tanica da gas e lasciati fuori. Quando era inverno queste persone, la mattina dopo, erano congelate ... "
Queste storie hanno emozionato tutti noi. Il ritorno di Terrusi ieri si associa ai ricordi, a quello che è rimasto vivo da sua madre, "mia madre ha strappato tutto, l'unica cosa salvata è un libro". Non si tratta di lettere d’amore di Enver Hoxha. "Da mia madre sono riuscito a ottenere una descrizione di pochi secondi su Enver. E 'stato un bravo ragazzo, molto affascinante ma con un carattere molto forte. Queste sono le parole dette. I commenti sono solo per il tempo in cui rimase in Albania. Lei ha chiuso la sua vita dicendo che non volva incontrare nessuno".
“Mia madre non si è mai sposata. E 'stata una donna molto bella, ma il suo amore per Giuseppe era assoluto. Per lei era un ideale", chiude Aldo Terussi il racconto su sua madre, che il dittatore trasformò in sua vittima, insieme al passato della famiglia Terussi.

Il racconto di Aldo Renato Terrosi

"Secondi di descrizione di Enver: bravo ragazzo, molto affascinante, con un carattere difficile"

Qual è stata la vera ragione della detenzione di Giuseppe Terrusi?
… Era il 1993, quando l'autore di questo libro, accompagnato dallo zio, Giacomo Poselli, famoso portiere della squadra nazionale albanese, tornò in Albania dopo molti anni, con un unico scopo: trovare le ossa del padre, morto nel famigerato carcere di Burrel.

Arrivò come dopo una lunga guerra che avesse distrutto ogni cosa; era come entrare in un luogo spettrale, dove tutto parlava in modo diverso dal mondo civilizzato. La prima cosa che gli fece impressione furono i bunker, oggetti apocalittici che ricordavano come questo Paese fosse rimasto in stato di guerra come 50 anni prima. Distribuiti su tutto il territorio albanese, erano l’assurda espressione di un potere che aveva voluto difendere a tutti i costi la sua esistenza contro un nemico immaginario, inventato, costruito nella mente malata e diabolica di un leader “visionario" come il suo naso. Erano stati costruiti nei campi, sulle colline, sulle montagne e sulle coste marine, come se la nostra terra avesse bisogno solo di cemento e ferro.

La strada da Rinas a Tirana è la più chiara dimostrazione della estrema povertà del popolo, testimonianza scioccante di una vita trascorsa con pochissimi mezzi, sufficienti soltanto per la sopravvivenza. Un paese distrutto, con edifici lasciati a metà, come uscito da una lunga guerra. Ma nella grande piazza della capitale l'autore trova momenti di orgoglio popolare: la statua di George Castriota, simbolo di resistenza per proteggere le terre, i costumi, le tradizioni, con un processo che si concluse con la nascita dello Stato, dell'identità e dell’unità nazionali, un’ottima lezione anche per i giorni nostri.

Il primo atto si svolge al Dajti, l'hotel dove gioie e feste si incrociano con i piani e i complotti politici. I ricevimenti del Re albanese con la contessa Geraldina, le visite del Ministro degli Esteri Ciano durante il periodo dell’occupazione fascista, gli incontri di Mehmet Shehu ed Enver Hoxha con i loro sicari, gli arroganti gerarchi tedeschi e i presuntuosi commissari politici albanesi, i complotti tra gli intriganti emissari di Mosca e le spie servili jugoslave, questi sono i ricordi che evoca questo edificio, un tempo centro di Tirana.

E ovunque l’autore vada, lo segue, come un fantasma colpito a morte, l'ombra del dittatore. Appare nella piramide della capitale, che sarebbe dovuta servire come il mausoleo della sua fine. Appare nei ricordi del suo luogo di nascita, dove la famiglia Terrusi visse per qualche tempo, ed è associata a molti amari ricordi, trascorsi da più di mezzo secolo.
Il presente e il passato, la nostalgia e la tristezza, la gioia e il dolore, gli anni Novanta e gli anni Trenta, la verità dei giorni della democrazia e gli slogan ingannevoli del dittatore, tutto questo si dipana e si intreccia attraverso indimenticabili ricordi.

“Un lungo interminabile abbraccio e lacrime di gioia”. Questo è il primo incontro di Giacomo Poselli con il suo vecchio amico della squadra nazionale, Xhavit Demneri. La sua storia familiare è quella di ogni albanese durante il regime comunista. Una volta confiscati l'hotel e ogni altra ricchezza, si trovò insieme alla sua famiglia in totale povertà.

Gli episodi si susseguono, si dispiega l’amaro passato. Poselli arriva a Tirana, mentre Giuseppe è imprigionato in carcere insieme a tutti i dirigenti della banca italiana con accuse assurde. Una speranza che si accende per liberare dal carcere il cognato non riesce: la speranza dell’amicizia con il Ministro dell'Economia Nako Spiro, che Giuseppe aveva conosciuto a scuola a Corfù, si spegne con il suo cosiddetto suicidio. E di nuovo l'ombra del dittatore: Spiro “era comunista ma certamente poco gradito a Enver”, scrive l'autore, di conseguenza fu accusato di deviazioni sciovinistiche. E fu sepolto con la grandezza di un leader. Era il metodo conosciuto di tutti i carnefici, uccidere di notte e piangere di giorno.
Ma quale era la vera ragione della detenzione di Giuseppe Terrusi?
Bisogna tornare indietro di qualche anno, negli anni '30 quando diverse famiglie italiane, fra cui quella di Aurelia, madre dell’autore, si erano trasferite nella città meridionale di Argirocastro. Aurelia aveva 16 anni, era una ragazza di rara bellezza, elegante, intelligente e con una perfetta educazione, che aveva imparato nella sua nobile famiglia e nella scuola di suore francesi. Si distingueva dalle altre ragazze della città.La sua bellezza, il suo comportamento, tutto in lei attirava l'attenzione dei giovani, in quanto ognuno voleva ricevere da lei uno sguardo, un sorriso, una parola dolce.
E la morte cominciò quando la bellezza di Aurelia attirò l'attenzione di un falco perverso e paranoico, che portava il nome di Enver Hoxha.
Approfittando del vicinato e dell’amicizia dei genitori, Hoxha cercò in tutti i modi di creare un rapporto con la innocente ragazza, la cui educazione e la cui visione del mondo non potevano andare d’accordo con la prepotenza e la violenza di questo giovane. Falliti i suoi tentativi, fu costretto ad allontanarsi per sempre da lei, non senza la promessa di vendetta. E la vendetta arrivò molti anni dopo, quando il marito di Aurelia, Giuseppe Terrusi fu arrestato e imprigionato nell’inferno albanese di Burrel fino al giorno della sua morte. Per fame? Per tortura? Per malattia? Lo sa Dio.
È la storia che si ripete più tardi con Sabiha Kasimati, uccisa con altri 21 con l’accusa di aver lanciato una bomba nell'ambasciata sovietica; si ripete con Musinè Kokalari, scrittrice di talento, che muore in isolamento, e chissà con quante altre persone, tutte vittime del dittatore.

Per Giuseppe arrivò il carcere a vita. Aveva avuto la possibilità di allontanarsi dalla piaga comunista che aveva colpito il nostro paese. Anzi, un amico di famiglia lo aveva pregato di partire per l'Italia, ma lui era deciso a non abbandonare i suoi collaboratori e amici della banca, così era rimasto, senza sapere quale tragedia si stava preparando per lui, per la sua famiglia, per i suoi amici e per tutti gli albanesi. “Per moltissimi stava per iniziare un lungo calvario” - dice l'autore.
In base ad un accordo tra la Banca d’Italia e il Governo albanese una parte degli impiegati doveva essere di nazionalità albanese. Successe che uno di essi, in collaborazione con altri due del movimento di liberazione nazionale, organizzò un furto alla banca. Si decise di licenziare l’impiegato, ma quello, per ordine del dittatore, continuò a lavorare. Era il tempo dei ladri, di quelli che sequestravano i beni dei commercianti, massacrati in carcere, condannati e uccisi, per poter confiscare tutto in nome del popolo, senza rispetto per le leggi e per i diritti umani.

Due mesi dopo la nascita di Aldo, nel marzo del '45, cominciò la vendetta primitiva di colui che era a capo dello Stato di polizia. Con un mandato di arresto a firma del dittatore Hoxha, si presentarono due del movimento di liberazione nazionale e ammanettarono il direttore della banca. Come consuetudine, dopo un’indagine associata a torture disumane, a porte chiuse, si tenne un processo-farsa senza avvocati, in cui i testimoni furono solo due impiegati, scelti dal dittatore, che avevano collaborato con i ladri per derubare la banca. Nessuno degli altri impiegati accettò la ricompensa del procuratore per sostenere l’accusa, mentre coloro che volevano testimoniare in favore di Giuseppe non furono accettati. Furono tacciati subito di collaborazionismo e fu chiusa loro la bocca. Il tribunale condannò Giuseppe a 10 anni di carcere. Il suo ultimo incontro fu quello con l'amico di famiglia Melis. Giuseppe, ammanettato, gli affidò la cura della famiglia, il figlio neonato in particolare. Era come un ultimo testamento, e non vide mai più nessuno.

 Molti furono i tentativi di liberarlo, come accadde a molti dei suoi compatrioti, che furono graziati. A Giuseppe non accadde.

Una volta andò al comitato centrale la stessa Aurelia, con la speranza di esser ricevuta da qualcuno, forse dallo stesso dittatore, ma invano. Più tardi uno dei carnefici, gerarca del regime, la convocò varie volte, facendole proposte inaccettabili in cambio della liberazione del marito, ma ricevette da lei solo risposte negative.

Arrivò il giorno del rimpatrio. Finalmente si partiva. Ma senza Giuseppe. Aurelia si imbarcò, con la speranza che un giorno l’avrebbe raggiunta anche il marito, che soffriva nelle carceri albanesi. Ma non lo vide mai, né vivo né morto. Dal carcere di Valona fu trasferito a quello di Burrel, dove morì tra le braccia di un altro carcerato, Petrit Velaj, che racconta: “Due giorni prima di morire, fu trasferito nella cella destinata a coloro che erano in punto di morte. Soffriva molto, non riusciva a respirare. Ebbe un forte dolore al petto e poi cominciò a sanguinare dalla bocca. Il giorno dopo morì. Era il 2 marzo del 1952. Morì all'età di 52 anni. La triste notizia arrivò alla famiglia in Italia attraverso un telegramma di poche parole, freddo come quel giorno di marzo nella lontana Burrel, dove morì. Mentre tre prigionieri scavavano nella terra gelata, guardie carcerarie li deridevano e insultavano dicendo che presto sarebbe venuto il loro turno”. Tale era il carcere di Burrel.
Il compagno di prigionia continua: “Quelle guardie non ci sono più, sono morte. Io invece sono ancora vivo. Per caso ho saputo che tutte e due erano state uccise durante il regime di Enver Hoxha da assassini che non furono mai trovati”. È la storia dei cannibali che si mangiano l'un l'altro.

Il quadro dei martiri viene chiuso dalla testimonianza di un altro compagno di prigionia, Angelo Kokoshi. “La prigione di Burrel era la più temuta. Ci davano da mangiare una volta al giorno, un brodo con fagioli oppure patate con una fetta di pane nero, tanto che ancora oggi perdo sangue a causa dell’ulcera. Le finestre erano senza vetri in un paese in cui l'inverno è molto rigido”. E continua: “Per tuo padre sono stato un vero amico. Abbiamo diviso il boccone e le sofferenze. Avevo 21 anni quando mi condannarono a morte. Per 76 giorni mi tennero legati mani e piedi. Per costringermi a denunciare i miei compagni, mi fecero scavare per tre volte la mia fossa davanti a un plotone di esecuzione. Ma io non reagii. In carcere c’erano anche mio padre e mio zio. Quando commutarono la mia condanna a morte in ergastolo, seppi della morte di mio padre e due giorni dopo uccisero mio fratello. Tre giorni dopo essere uscito dall'isolamento, morì tra le mie braccia mio zio, e qualche giorno dopo mia madre morì per il dolore”.

Concludendo, a nome dell'Istituto per gli studi dei crimini e delle conseguenze del comunismo in Albania, invito tutti a non dimenticare le sofferenze dei nostri padri e madri, fratelli e sorelle. Lasciate che siano loro la nostra memoria, senza la quale non si possono costruire il presente e il futuro.
Parte dell’intervento dell’Accademico Kolec Topalli




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