di Alessia Biasiolo
Saputo
dell’armistizio l’8 settembre 1943, oltre seicentomila militari italiani
scelsero la prigionia nei lager tedeschi piuttosto di proseguire la guerra tra
le fila dell’esercito tedesco, oppure nella Repubblica Sociale di Mussolini.
Una volta deposto l’alleato italiano per mano del Gran Consiglio del Fascismo e
poi per ordine del Re arrestato, i tedeschi subito pensarono ad un possibile
imminente tradimento e organizzarono in fretta quello che verrà denominato
piano Achse, un progetto da mettere
in atto in caso di capitolazione dell’Italia invasa dagli Alleati
angloamericani. Bisognava prendere immediatamente possesso, tramite l’esercito,
delle installazioni militari e dei sistemi di trasporto, rendendo innocui i
soldati italiani. A molti militi italiani, soprattutto alpini in Alto Adige,
divenne subito chiaro che i tedeschi si erano posizionati in modo da tenerli
sotto tiro. Il 9 settembre, mentre il Re e Badoglio lasciavano Roma senza
diramare direttive, Rommel comunicava a Berlino che l’esercito italiano si era
sfasciato. In una settimana il disarmo fu concluso, tra la Francia e la Grecia,
fatte salve alcune sacche di resistenza. Tra queste, famose sono quelle di
Cefalonia, Lero, Corfù e Andros che conteggiarono circa 30mila morti. A questa
situazione si aggiunsero i morti causati dai naufragi subiti dalle navi che
dovevano portare sul continente dalle isole i prigionieri italiani: molti erano
affondamenti dovuti all’azione degli Alleati, ma anche alle mine che gli
italiani stessi avevano posizionato, piuttosto che all’eccessivo carico delle
navi; i morti per queste cause furono circa 13mila, con la condotta tedesca
volta a non fare nulla perché i naufraghi si salvassero, oppure perché i fatti
non accadessero.
I
militari italiani presi prigionieri furono condotti in campi di raccolta presso
stazioni ferroviarie e, se non si dimostravano convinti a proseguire la lotta a
fianco dell’alleato tedesco, nelle fila della Wehrmacht, venivano tradotti nei
campi di concentramento tedeschi.
Il
generale Jodl comunicò che i prigionieri italiani, a novembre 1943, erano circa
550mila, di cui almeno 25mila ufficiali. A dicembre, il feldmaresciallo Keitel
portava la cifra a 750mila. Secondo dati accertati negli anni Novanta dallo
storico Schreiber, i soldati italiani internati nei campi tedeschi, a febbraio
1944, ammontavano a 615.812 unità, mentre con l’operazione Achse almeno 180mila aderirono all’esercito tedesco e almeno altri
200mila (197mila per altri esperti) scapparono. I militari italiani venivano
schedati, immatricolati e divisi in Stammlager (o Stalag) per i soldati e gli
Offizierslager (Oflag) per gli ufficiali. Questa divisione per i militari
italiani era ritenuta particolarmente necessaria per far sì che gli ufficiali,
di certo vicini al Re, non influenzassero la truppa anche durante la
detenzione. I luoghi di detenzione, in tutto 350 per i militari italiani, erano
in Germania e al confine con l’Olanda. Il viaggio per raggiungerli erano un
calvario, in carri bestiame come per gli altri tipi di deportati, transitando
in cinque giorni da Salisburgo, Monaco, Francoforte, Colonia, Münster fino, ad
esempio, a Meppen e poi al campo di Düren, appunto sul confine olandese, senza
qualcosa di simile ad un gabinetto, né acqua né cibo.
In
alcuni casi i campi non erano finiti e i prigionieri dovettero contribuire alla
loro costruzione, così come vennero avviati al lavoro forzato nelle fabbriche
di armi. Ogni prigioniero era riconoscibile per il numero che veniva impresso
su una targhetta di metallo, legno oppure cartone. Il 20 settembre 1943 i
militari italiani vennero delegittimati, a firma dello stesso Hitler, da
prigionieri di guerra a internati militari (IMI), questo per garantire di non
dover rispettare la Convenzione di Ginevra e, allo stesso tempo, non dover
riconoscere implicitamente il governo Badoglio ammettendo di avere dei
prigionieri di guerra italiani nei campi e permettere, quindi, a Mussolini,
tornato libero e al governo della R.S.I., di avere una sorta di protettorato
sui militari prigionieri dei tedeschi. Lo status di prigionieri di guerra venne
mantenuto per circa 20mila militari italiani catturati in combattimento, o
immediatamente dopo, non essendosi arresi al momento della richiesta in questo
senso da parte dei militari tedeschi. Tra gli IMI ci fu anche Mario Rigoni
Stern che testimoniò come i militari italiani volontariamente si dichiararono
prigionieri e, in moltissimi casi, non cambiarono idea nemmeno quando venivano
lasciati senza cibo dopo che, a condizione di passare nelle fila dell’esercito
tedesco, venivano mostrate loro marmitte di pastasciutta.
Un
accordo tra Mussolini e Hitler del 20 luglio 1944 permise di smilitarizzare
d’ufficio e trasformare in lavoratori civili gli IMI, che in quel modo diventavano
una sorta di lavoratori civili liberi, ma in realtà sottoposti a lavoro coatto.
Tutti coloro che si macchiavano di atti di sabotaggio, oppure reiteratamente
non accettavano la pressante propaganda nazista, per entrare nelle fila
dell’esercito tedesco, oppure della Repubblica Sociale, per entrare
nell’esercito repubblicano neonato (invito rivolto soprattutto agli ufficiali
per poter riorganizzare i ranghi), venivano inviati in campi di rieducazione
oppure nei campi di sterminio. Si contarono tra i 30 e i 50mila morti tra i
militari italiani prigionieri in quel periodo, per malattie, fame, freddo,
trattamenti disumani nei loro confronti.
Coloro che decisero di aderire soprattutto
alla R.S.I. furono circa 100mila, tra il 1943 e l’agosto del 1944. I soldati
potevano scegliere una volta soltanto al momento della cattura oppure
all’arrivo nei campi di concentramento di migrare nelle fila tedesche o
fasciste, mentre per gli ufficiali la propaganda era più pressante e
continuativa, tanto da arrivare a contare un 30 per cento di unità che scelsero
di cambiare idea.
Le condizioni detentive e la presenza di
commilitoni più o meno influenti politicamente faceva la differenza. Ad
esempio, scelsero di optare per la soluzione proposta dai nazifascisti il 94
per cento degli internati nel campo di Biala Podlaska a differenza del 30-40
per cento di altri campi. Dei centomila optanti, almeno il 60 per cento non
venne impiegato per operazioni militari, ma per operazioni ausiliarie; almeno
42mila per ruoli di combattenti di cui 19mila nelle fila delle SS e 23mila
nelle divisioni neonate della R.S.I.
Tra coloro che aderirono subito dopo la
cattura ci furono molti reparti fascisti, mentre altri aderirono subito dopo la
nascita della R.S.I. e, dunque, del ritorno sulla scena politico-militare di
Mussolini. Pertanto le ragioni ideologiche erano molto forti ancora su quegli
optanti, i quali spesso erano desiderosi di lavare la vergogna del
doppiogiochismo italiano e del pessimo comportamento del Re e di Badoglio,
secondo il loro parere. Tra coloro che optarono al momento della cattura, molte
furono le defezioni e i ripensamenti, rendendosi conto di avere scelto con
leggerezza. Infatti, tra gli IMI furono molte le posizioni altalenanti di
adesioni e ripensamenti, forse rispondenti alla propaganda all’interno dei
campi o, sempre, alle condizioni di internamento, così come alle condizioni
durante gli addestramenti a Müsinghen. Nelle testimonianze degli optanti si
legge che la motivazione forte arrivava durante l’inverno: il freddo, il vento,
la cattiva o assente alimentazione, convincevano a cambiare parere per avere un
po’ più di cibo, in qualità appunto di optanti. Allo stesso tempo, la notizia
del ritorno di Mussolini cominciava a fare riflettere più approfonditamente sui
fatti: per molti miliari internati la scelta del Re e di Badoglio non era delle
migliori; molti piangevano i fatti del 25 luglio come se fossero stati una
tragedia personale o una disgrazia nazionale, pertanto sapere che in Italia il
Duce era ancora presente comportava l’interrogarsi sul da farsi, non soltanto
per sé, ma anche per le famiglie che erano state lasciate in Italia senza
difese dagli occupanti nazisti e con l’arrivo degli Alleati imminente. Molti si
dicevano propensi a continuare la guerra al fianco dell’alleato tedesco, perché
non ritenevano giusto, al di là delle appartenenze politiche, avere tradito
così impunemente e, appunto, si sentivano di dimostrare che gli italiani non erano
tutti vigliacchi, come molti tedeschi li avevano invece percepiti.
Nel frattempo, come ho scritto in un articolo
precedente, Graziani ottiene il permesso da parte di Hitler di organizzare un
esercito per la Repubblica Sociale e pensa, pertanto, di arruolare
immediatamente proprio gli IMI per andare a formare le quattro Divisioni
autorizzate che si sarebbero dovute addestrare in Germania. La missione
militare italiana a Berlino inizia una pressante campagna propagandistica,
diretta dal generale Morera: gli IMI avrebbero dovuto aderire senza riserve per
entrare in un rinato esercito italiano, anche al comando tedesco. Mussolini
disse che si sarebbe sentito disonorato se non avessero trovato almeno 50mila
uomini disposti ad accettare immediatamente la proposta. Nel novembre 1943, il
segretario generale del Ministero della Difesa, Emilio Canevari, si dice
ottimista sull’operazione, soprattutto perché interi battaglioni di miliziani
aderirono subito alla proposta tedesca; ad esempio 20mila uomini andarono
subito nelle fila delle SS italiane. Secondo Canevari si potevano trovare fino
a 60mila uomini. Altra tattica scelta fu quella di lasciare gli optanti ben
visibili agli altri IMI, in modo che fosse chiaro come per loro le condizioni
detentive e di vita erano immediatamente cambiate, soltanto avendo espresso una
“semplice” scelta. L’ambasciatore Filippo Anfuso fu chiaro con Mussolini: le
condizioni degli optanti non dovevano restare uguali un minuto di più e,
pertanto, era necessaria la collaborazione delle forze tedesche, che gestivano
i campi, affinché tutto cambiasse e l’idea di optare per tornare a combattere
fosse diffusa anche tra i meno propensi. Non da ultimo, per molti il desiderio
di tornare in patria, anche idealmente per aiutare i propri cari, era un’altra
leva importante sulla quale la riflessione sul cambio di idea faceva perno. Un
altro scrittore scriverà l’elenco delle motivazioni degli optanti, Giovannino
Guareschi, anch’egli un internato italiano che non cambierà idea. A quanto ho
scritto, infatti, si sommavano l’età, le malattie, il desiderio di rivedere
l’amata o i familiari, l’incapacità di sopportare i patimenti, soprattutto
freddo e fame, il desiderio di tornare a casa perché la famiglia non aveva proventi
e versava in pessime condizioni di miseria e fame, o il miraggio di migliorare
in generale la propria condizione, così cruda per una propria scelta del
momento.
Sarà appunto durante l’inverno 1943-44 che le
adesioni si moltiplicarono. Secondo i dati elaborati nel dopoguerra, le
motivazioni di quell’inverno furono per il 92 per cento per la fame, per il 62
per cento per il freddo, per il 54 per cento per il pesante lavoro coatto e per
il 46 per cento per il comportamento crudele dei carcerieri, ma al primo posto
c’era il desiderio di cercare di ritornare in famiglia. Le condizioni di vita
miglioravano con l’adesione alla proposta nazifascista: agli internati venivano
date sigarette, pane, carne, burro, zuppa, uova, permettendo alle condizioni
fisiche di migliorare anche rapidamente.
La propaganda in Italia definiva vigliacchi
tutti coloro che non aderivano, aumentando la pressione che da casa i parenti
potevano esercitare su coloro che erano nei campi di prigionia. Tuttavia la
campagna di arruolamento fu un vero fallimento, soprattutto perché osteggiata
dai tedeschi che non si fidavano della tenuta della Repubblica Sociale,
pertanto preferivano tenere gli italiani a lavorare ai fini bellici per loro.
Infatti, quando alcuni optanti si presentavano ai tedeschi per l’arruolamento,
questi non facevano nulla perché la pratica procedesse. La campagna di
arruolamento riprese nella primavera del 1944 e si giocava su continue minacce
che i giorni per poter decidere fossero pochi e, soprattutto, gli ultimi. Davanti
all’aut aut di non poter avere altra scelta futura, intere camerate dei campi
aderivano all’arruolamento volontario, nell’ossessione di dover affrontare un
altro inverno senza avere la possibilità di cambiare idea a discrezione.
Nell’estate del 1944 le condizioni di carcerazione degli IMI non optanti
divennero sempre più insopportabili: mancavano cibo e acqua, combustibile per
riscaldarsi e i carcerieri passavano alle vie di fatto per ogni sciocchezza; la
convivenza con pidocchi, cimici e topi era diventata consuetudinaria, così come
l’abitudine al commercio sotterraneo con altri prigionieri. Il fatto che gli
optanti non fossero spinti da motivazioni ideologiche forti, si rivelerà
importante al momento di scegliere chi effettivamente doveva andare all’addestramento
in Germania, così come saranno i primi a disertare una volta trovatisi nelle
fila dell’esercito repubblicano in Italia. La diserzione portava sia nelle fila
tedesche che nelle fila partigiane, ma alcuni uomini si rivelavano anche
inabili alla prosecuzione della leva per motivi di salute. Qualcuno viene
definito inidoneo spiritualmente alla RSI e Borghese si rifiuterà di arruolare
nella X MAS un gruppo di ufficiali della Marina perché non fortemente convinti,
dato il forzato volontarismo.
La situazione degli IMI nel 1945 era la
seguente: ex IMI civilizzati in Germania circa 495mila; malati rimpatriati con
treni speciali per malattia circa 1.300; ancora nei lager 41mila; da seconda
prigionia in Russia e Jugoslavia o altro circa 22mila; rimpatriati circa
560mila; morti circa 53mila.
Il 13 settembre 1998, per motu proprio del presidente della
Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, venne assegnata la medaglia d’oro al Valor
Militare all’internato ignoto. La motivazione era la seguente:
“Militare fatto prigioniero o civile
perseguitato per ragioni politiche o razziali, internato in campi di
concentramento in condizioni di vita inumane, sottoposto a torture di ogni
sorta, a lusinghe per convincerlo a collaborare con il nemico, non cedette mai,
non ebbe incertezze, non scese a compromesso alcuno, per rimanere fedele
all’onore militare e di uomo, scelse eroicamente la terribile lenta agonia di
fame, di stenti, di inenarrabili sofferenze fisiche e soprattutto morali. Mai
vinto e sempre coraggiosamente determinato, non venne meno ai suoi doveri nella
consapevolezza che solo così la sua Patria, un giorno, avrebbe riacquistato la
propria dignità di nazione libera. A memoria di tutti gli internati il cui nome
si è dissolto. Ma il cui valore ancor oggi è esempio e redenzione per
l’Italia”.
Comm. Alessia
Biasiolo, Istituto del Nastro Azzurro
Bibliografia
essenziale
Mario
Avagliano, Marco Palmieri: “L’Italia di Salò”, il Mulino, Bologna, 2017
Giorgio
Bocca: “La repubblica di Mussolini”, Mondadori, Milano, 1997
Renzo
De Felice: “Mussolini l’alleato”, Einaudi, Torino, 1997
Luca Frigerio: “Noi nei lager”, Paoline, Milano, 2008
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