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martedì 24 aprile 2018

Militari italiani prigionieri dei nazisti



di Alessia Biasiolo


Saputo dell’armistizio l’8 settembre 1943, oltre seicentomila militari italiani scelsero la prigionia nei lager tedeschi piuttosto di proseguire la guerra tra le fila dell’esercito tedesco, oppure nella Repubblica Sociale di Mussolini. Una volta deposto l’alleato italiano per mano del Gran Consiglio del Fascismo e poi per ordine del Re arrestato, i tedeschi subito pensarono ad un possibile imminente tradimento e organizzarono in fretta quello che verrà denominato piano Achse, un progetto da mettere in atto in caso di capitolazione dell’Italia invasa dagli Alleati angloamericani. Bisognava prendere immediatamente possesso, tramite l’esercito, delle installazioni militari e dei sistemi di trasporto, rendendo innocui i soldati italiani. A molti militi italiani, soprattutto alpini in Alto Adige, divenne subito chiaro che i tedeschi si erano posizionati in modo da tenerli sotto tiro. Il 9 settembre, mentre il Re e Badoglio lasciavano Roma senza diramare direttive, Rommel comunicava a Berlino che l’esercito italiano si era sfasciato. In una settimana il disarmo fu concluso, tra la Francia e la Grecia, fatte salve alcune sacche di resistenza. Tra queste, famose sono quelle di Cefalonia, Lero, Corfù e Andros che conteggiarono circa 30mila morti. A questa situazione si aggiunsero i morti causati dai naufragi subiti dalle navi che dovevano portare sul continente dalle isole i prigionieri italiani: molti erano affondamenti dovuti all’azione degli Alleati, ma anche alle mine che gli italiani stessi avevano posizionato, piuttosto che all’eccessivo carico delle navi; i morti per queste cause furono circa 13mila, con la condotta tedesca volta a non fare nulla perché i naufraghi si salvassero, oppure perché i fatti non accadessero.
I militari italiani presi prigionieri furono condotti in campi di raccolta presso stazioni ferroviarie e, se non si dimostravano convinti a proseguire la lotta a fianco dell’alleato tedesco, nelle fila della Wehrmacht, venivano tradotti nei campi di concentramento tedeschi.
Il generale Jodl comunicò che i prigionieri italiani, a novembre 1943, erano circa 550mila, di cui almeno 25mila ufficiali. A dicembre, il feldmaresciallo Keitel portava la cifra a 750mila. Secondo dati accertati negli anni Novanta dallo storico Schreiber, i soldati italiani internati nei campi tedeschi, a febbraio 1944, ammontavano a 615.812 unità, mentre con l’operazione Achse almeno 180mila aderirono all’esercito tedesco e almeno altri 200mila (197mila per altri esperti) scapparono. I militari italiani venivano schedati, immatricolati e divisi in Stammlager (o Stalag) per i soldati e gli Offizierslager (Oflag) per gli ufficiali. Questa divisione per i militari italiani era ritenuta particolarmente necessaria per far sì che gli ufficiali, di certo vicini al Re, non influenzassero la truppa anche durante la detenzione. I luoghi di detenzione, in tutto 350 per i militari italiani, erano in Germania e al confine con l’Olanda. Il viaggio per raggiungerli erano un calvario, in carri bestiame come per gli altri tipi di deportati, transitando in cinque giorni da Salisburgo, Monaco, Francoforte, Colonia, Münster fino, ad esempio, a Meppen e poi al campo di Düren, appunto sul confine olandese, senza qualcosa di simile ad un gabinetto, né acqua né cibo.
In alcuni casi i campi non erano finiti e i prigionieri dovettero contribuire alla loro costruzione, così come vennero avviati al lavoro forzato nelle fabbriche di armi. Ogni prigioniero era riconoscibile per il numero che veniva impresso su una targhetta di metallo, legno oppure cartone. Il 20 settembre 1943 i militari italiani vennero delegittimati, a firma dello stesso Hitler, da prigionieri di guerra a internati militari (IMI), questo per garantire di non dover rispettare la Convenzione di Ginevra e, allo stesso tempo, non dover riconoscere implicitamente il governo Badoglio ammettendo di avere dei prigionieri di guerra italiani nei campi e permettere, quindi, a Mussolini, tornato libero e al governo della R.S.I., di avere una sorta di protettorato sui militari prigionieri dei tedeschi. Lo status di prigionieri di guerra venne mantenuto per circa 20mila militari italiani catturati in combattimento, o immediatamente dopo, non essendosi arresi al momento della richiesta in questo senso da parte dei militari tedeschi. Tra gli IMI ci fu anche Mario Rigoni Stern che testimoniò come i militari italiani volontariamente si dichiararono prigionieri e, in moltissimi casi, non cambiarono idea nemmeno quando venivano lasciati senza cibo dopo che, a condizione di passare nelle fila dell’esercito tedesco, venivano mostrate loro marmitte di pastasciutta.
Un accordo tra Mussolini e Hitler del 20 luglio 1944 permise di smilitarizzare d’ufficio e trasformare in lavoratori civili gli IMI, che in quel modo diventavano una sorta di lavoratori civili liberi, ma in realtà sottoposti a lavoro coatto. Tutti coloro che si macchiavano di atti di sabotaggio, oppure reiteratamente non accettavano la pressante propaganda nazista, per entrare nelle fila dell’esercito tedesco, oppure della Repubblica Sociale, per entrare nell’esercito repubblicano neonato (invito rivolto soprattutto agli ufficiali per poter riorganizzare i ranghi), venivano inviati in campi di rieducazione oppure nei campi di sterminio. Si contarono tra i 30 e i 50mila morti tra i militari italiani prigionieri in quel periodo, per malattie, fame, freddo, trattamenti disumani nei loro confronti.
Coloro che decisero di aderire soprattutto alla R.S.I. furono circa 100mila, tra il 1943 e l’agosto del 1944. I soldati potevano scegliere una volta soltanto al momento della cattura oppure all’arrivo nei campi di concentramento di migrare nelle fila tedesche o fasciste, mentre per gli ufficiali la propaganda era più pressante e continuativa, tanto da arrivare a contare un 30 per cento di unità che scelsero di cambiare idea.
Le condizioni detentive e la presenza di commilitoni più o meno influenti politicamente faceva la differenza. Ad esempio, scelsero di optare per la soluzione proposta dai nazifascisti il 94 per cento degli internati nel campo di Biala Podlaska a differenza del 30-40 per cento di altri campi. Dei centomila optanti, almeno il 60 per cento non venne impiegato per operazioni militari, ma per operazioni ausiliarie; almeno 42mila per ruoli di combattenti di cui 19mila nelle fila delle SS e 23mila nelle divisioni neonate della R.S.I.
Tra coloro che aderirono subito dopo la cattura ci furono molti reparti fascisti, mentre altri aderirono subito dopo la nascita della R.S.I. e, dunque, del ritorno sulla scena politico-militare di Mussolini. Pertanto le ragioni ideologiche erano molto forti ancora su quegli optanti, i quali spesso erano desiderosi di lavare la vergogna del doppiogiochismo italiano e del pessimo comportamento del Re e di Badoglio, secondo il loro parere. Tra coloro che optarono al momento della cattura, molte furono le defezioni e i ripensamenti, rendendosi conto di avere scelto con leggerezza. Infatti, tra gli IMI furono molte le posizioni altalenanti di adesioni e ripensamenti, forse rispondenti alla propaganda all’interno dei campi o, sempre, alle condizioni di internamento, così come alle condizioni durante gli addestramenti a Müsinghen. Nelle testimonianze degli optanti si legge che la motivazione forte arrivava durante l’inverno: il freddo, il vento, la cattiva o assente alimentazione, convincevano a cambiare parere per avere un po’ più di cibo, in qualità appunto di optanti. Allo stesso tempo, la notizia del ritorno di Mussolini cominciava a fare riflettere più approfonditamente sui fatti: per molti miliari internati la scelta del Re e di Badoglio non era delle migliori; molti piangevano i fatti del 25 luglio come se fossero stati una tragedia personale o una disgrazia nazionale, pertanto sapere che in Italia il Duce era ancora presente comportava l’interrogarsi sul da farsi, non soltanto per sé, ma anche per le famiglie che erano state lasciate in Italia senza difese dagli occupanti nazisti e con l’arrivo degli Alleati imminente. Molti si dicevano propensi a continuare la guerra al fianco dell’alleato tedesco, perché non ritenevano giusto, al di là delle appartenenze politiche, avere tradito così impunemente e, appunto, si sentivano di dimostrare che gli italiani non erano tutti vigliacchi, come molti tedeschi li avevano invece percepiti.
Nel frattempo, come ho scritto in un articolo precedente, Graziani ottiene il permesso da parte di Hitler di organizzare un esercito per la Repubblica Sociale e pensa, pertanto, di arruolare immediatamente proprio gli IMI per andare a formare le quattro Divisioni autorizzate che si sarebbero dovute addestrare in Germania. La missione militare italiana a Berlino inizia una pressante campagna propagandistica, diretta dal generale Morera: gli IMI avrebbero dovuto aderire senza riserve per entrare in un rinato esercito italiano, anche al comando tedesco. Mussolini disse che si sarebbe sentito disonorato se non avessero trovato almeno 50mila uomini disposti ad accettare immediatamente la proposta. Nel novembre 1943, il segretario generale del Ministero della Difesa, Emilio Canevari, si dice ottimista sull’operazione, soprattutto perché interi battaglioni di miliziani aderirono subito alla proposta tedesca; ad esempio 20mila uomini andarono subito nelle fila delle SS italiane. Secondo Canevari si potevano trovare fino a 60mila uomini. Altra tattica scelta fu quella di lasciare gli optanti ben visibili agli altri IMI, in modo che fosse chiaro come per loro le condizioni detentive e di vita erano immediatamente cambiate, soltanto avendo espresso una “semplice” scelta. L’ambasciatore Filippo Anfuso fu chiaro con Mussolini: le condizioni degli optanti non dovevano restare uguali un minuto di più e, pertanto, era necessaria la collaborazione delle forze tedesche, che gestivano i campi, affinché tutto cambiasse e l’idea di optare per tornare a combattere fosse diffusa anche tra i meno propensi. Non da ultimo, per molti il desiderio di tornare in patria, anche idealmente per aiutare i propri cari, era un’altra leva importante sulla quale la riflessione sul cambio di idea faceva perno. Un altro scrittore scriverà l’elenco delle motivazioni degli optanti, Giovannino Guareschi, anch’egli un internato italiano che non cambierà idea. A quanto ho scritto, infatti, si sommavano l’età, le malattie, il desiderio di rivedere l’amata o i familiari, l’incapacità di sopportare i patimenti, soprattutto freddo e fame, il desiderio di tornare a casa perché la famiglia non aveva proventi e versava in pessime condizioni di miseria e fame, o il miraggio di migliorare in generale la propria condizione, così cruda per una propria scelta del momento.
Sarà appunto durante l’inverno 1943-44 che le adesioni si moltiplicarono. Secondo i dati elaborati nel dopoguerra, le motivazioni di quell’inverno furono per il 92 per cento per la fame, per il 62 per cento per il freddo, per il 54 per cento per il pesante lavoro coatto e per il 46 per cento per il comportamento crudele dei carcerieri, ma al primo posto c’era il desiderio di cercare di ritornare in famiglia. Le condizioni di vita miglioravano con l’adesione alla proposta nazifascista: agli internati venivano date sigarette, pane, carne, burro, zuppa, uova, permettendo alle condizioni fisiche di migliorare anche rapidamente.
La propaganda in Italia definiva vigliacchi tutti coloro che non aderivano, aumentando la pressione che da casa i parenti potevano esercitare su coloro che erano nei campi di prigionia. Tuttavia la campagna di arruolamento fu un vero fallimento, soprattutto perché osteggiata dai tedeschi che non si fidavano della tenuta della Repubblica Sociale, pertanto preferivano tenere gli italiani a lavorare ai fini bellici per loro. Infatti, quando alcuni optanti si presentavano ai tedeschi per l’arruolamento, questi non facevano nulla perché la pratica procedesse. La campagna di arruolamento riprese nella primavera del 1944 e si giocava su continue minacce che i giorni per poter decidere fossero pochi e, soprattutto, gli ultimi. Davanti all’aut aut di non poter avere altra scelta futura, intere camerate dei campi aderivano all’arruolamento volontario, nell’ossessione di dover affrontare un altro inverno senza avere la possibilità di cambiare idea a discrezione. Nell’estate del 1944 le condizioni di carcerazione degli IMI non optanti divennero sempre più insopportabili: mancavano cibo e acqua, combustibile per riscaldarsi e i carcerieri passavano alle vie di fatto per ogni sciocchezza; la convivenza con pidocchi, cimici e topi era diventata consuetudinaria, così come l’abitudine al commercio sotterraneo con altri prigionieri. Il fatto che gli optanti non fossero spinti da motivazioni ideologiche forti, si rivelerà importante al momento di scegliere chi effettivamente doveva andare all’addestramento in Germania, così come saranno i primi a disertare una volta trovatisi nelle fila dell’esercito repubblicano in Italia. La diserzione portava sia nelle fila tedesche che nelle fila partigiane, ma alcuni uomini si rivelavano anche inabili alla prosecuzione della leva per motivi di salute. Qualcuno viene definito inidoneo spiritualmente alla RSI e Borghese si rifiuterà di arruolare nella X MAS un gruppo di ufficiali della Marina perché non fortemente convinti, dato il forzato volontarismo.
La situazione degli IMI nel 1945 era la seguente: ex IMI civilizzati in Germania circa 495mila; malati rimpatriati con treni speciali per malattia circa 1.300; ancora nei lager 41mila; da seconda prigionia in Russia e Jugoslavia o altro circa 22mila; rimpatriati circa 560mila; morti circa 53mila.
Il 13 settembre 1998, per motu proprio del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, venne assegnata la medaglia d’oro al Valor Militare all’internato ignoto. La motivazione era la seguente:
“Militare fatto prigioniero o civile perseguitato per ragioni politiche o razziali, internato in campi di concentramento in condizioni di vita inumane, sottoposto a torture di ogni sorta, a lusinghe per convincerlo a collaborare con il nemico, non cedette mai, non ebbe incertezze, non scese a compromesso alcuno, per rimanere fedele all’onore militare e di uomo, scelse eroicamente la terribile lenta agonia di fame, di stenti, di inenarrabili sofferenze fisiche e soprattutto morali. Mai vinto e sempre coraggiosamente determinato, non venne meno ai suoi doveri nella consapevolezza che solo così la sua Patria, un giorno, avrebbe riacquistato la propria dignità di nazione libera. A memoria di tutti gli internati il cui nome si è dissolto. Ma il cui valore ancor oggi è esempio e redenzione per l’Italia”.


Comm. Alessia Biasiolo, Istituto del Nastro Azzurro


Bibliografia essenziale
Mario Avagliano, Marco Palmieri: “L’Italia di Salò”, il Mulino, Bologna, 2017
Giorgio Bocca: “La repubblica di Mussolini”, Mondadori, Milano, 1997
Renzo De Felice: “Mussolini l’alleato”, Einaudi, Torino, 1997
Luca Frigerio: “Noi nei lager”, Paoline, Milano, 2008

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