L’INTERNAMENTO IN GERMANIA
IL VERSANTE FEMMINILE
Massimo Coltrinari
L’internamento in Germania, dopo l’8 settembre 1943
nel nostro Paese è una vicenda che ancora incide nella nostra coscienza nazionale, anche se la percezione di questa
tragedia ha una peculiarità: essa è vista prettamente solo sotto l’ottica
maschile. Questo si verifica sia riguardo agli oppressori ( stato hitleriano ,
singoli nazisti) sia riguardo alle azioni ed alle reazioni delle vittime
dell’internamento.
Queste dinamiche sono state sempre presentate e
studiate come se l’Internamento interessasse solo gli uomini, relegando
l’internamento a cui furono soggette le donne a profili marginali, quasi
insignificanti, in una visione subalterna, nel substrato, forse anche
inconscio, che la guerra e le sue conseguenze sono “cose da uomini”. E’ una
costante che si perpetua dal momento della liberazione, al momento del ritorno
in Patria, agli anni del dopoguerra, e per tutti i sessanta anni che ci
separano da questa tragedia.
Analizzando nel dettaglio il versante femminile
dell’Internamento non possiamo non partire da un cenno a chi erano gli
oppressori e come consideravano la donna.
Nello stato nazista la concezione ideologia era stata approntata
primariamente e forse esclusivamente da uomini, facendo appello alla durezza,
alla spietatezza, alla mortificazione e negazione di tutto quello che poteva anche apparire
dolce, tenero e comprensivo. L’ideologia nazista quindi portava una profonda
avversione per il sesso femminile, dividendo le donne in due parti: quelle
appartenente ad una categoria superiore, e perciò in chiave di purezza della
razza, di “alto valore riproduttivo” e quelle di categoria inferiore, a cui
assegnavano in quanto tali, un “valore riproduttivo nullo”, ricorrendo in modo
sistematico alla sterilizzazione, all’aborto, e poi anche alla loro
soppressione.
Appartenenti alla seconda categoria, coloro che
erano internate, per motivi politici, religiosi, etnici ecc., in un lager avevano già contro tutto un
apparato ideologico, a prescindere se ebrea, resistente, oppositrice, o ogni
altra categoria, che infieriva contro la sua identità femminile
Appena entrata nel lager si attacca il suo aspetto
esteriore, levandogli i vestiti, ogni oggetto personale, dandogli indumenti
standardizzati ( i camicioni a righe), rasando le parti intime, tagliando a
zero i capelli, eliminando la possibilità di pulizia e cura di se; si
calpestano costumi radicati, come i denudamenti e le attese, nude, al chiuso e
all’aperto, spesso sotto gli occhi di tutti.
Il trattamento che le donne ricevano nel lager e
quindi più pesante di quello inflitto all’uomo. L’atmosfera è impegnata perennemente di paura, di
umiliazioni, di privazioni, di fatiche che in breve incidono nella sfera prima psichica poi biologica.Prima
manifestazione di questo è la scomparsa del ciclo mestruale. Nel prosieguo si
straziano i valori della maternità e del materno: i figli vengono separati
dalle madri oppure le madri li vedono morire nelle camere a gasa; le donne
incinte al loro arrivo abortiscono o vengo fatte abortire oppure i neonati
appena nati non hanno alcuna possibilità
di sopravvivenza o addirittura uccisi. I bambini vagano per il campo ma è noto
a tutti che hanno pochissime possibilità di sopravvivenza.
A questa esperienza la donna in quanto tale vi
arriva impreparata, non come i loro coetanei maschili che gli obblighi militari
di leva e l’addestramento alla guerra hanno in parte preparato. Per le
resistenti, per coloro che salgono in montagna o entrano nei nuclei cittadini,
pur nella consapevolezza di correre un rischio anche serio, non si arriva mai a
prevenire quella che poi potrebbe essere l’esperienza di un lager tedesco. Le
stesse donne ebree, che la storia e la tradizione e la luna sequenza di
persecuzioni, arrivano impreparate alla esperienza del lager.
Le forme di resistenza e le strategie di
sopravvivenza opposte al trattamento nel Lager, sono varie, la più diffusa è la
speranza ed il sogno del ritorno, ovvero ad immaginare un immediato futuro in
cui la liberazione rappresenta un momento culminate, fondamentale. Proprio
questa strategia che per molte significò la volontà e la voglia di sopravvivere
all’orrore del presente, si rilevo poi un terribile dramma.
La liberazione fa si che il popolo delle internate e
delle deportate almeno visivamente scompare, ma rimangono le profonde ferite.
Nel momento in cui le Internate provano a raccontare
a relazionarsi emergono tutte le difficoltà e tutte le incomprensioni di chi
non ha passato l’esperienza del lager.
Le donne, per lo più giovani, perché le più anziane non potevano
sopravvivere e quindi non sono tornate, erano state catturate da uomini ed
internate da uomini: il corto circuito tra internamento femminile e stupro è
quasi inevitabile; non si vuole nemmeno approfondire se vi furono cedimenti ti
o complicità nella violenza, e tutto rimane a livello di sospetti, sottintesi e
tutta la vicenda sprofonda in forme di disconoscimento. Quando poi usciranno
libri come “la case delle bambole” e film
anche di un ceto valore, come il “portiere di notte” l’eterno dolore femminile
del lager sarà esposto ad una nuova esacerbazione. Mentre per l’uomo uscito dal
lager incide il pensiero “perché proprio io sono sopravissuto” e non l’amico,
il conoscente o la persona sconosciuta, alimentando sensi di colpa infinti,
nella donna oltre a questo, impalpabile aleggia la mai detta accusa “ tu sei
sopravissuta perché sei andata a letto con un tedesco”, alimentando ancora più
devastanti sensi di colpa e sposso impossibilitando una ricostruzione psichica
e morale.
A questa incomprensione generalizzate volta
all’Internamento[1] si
deve le particolari resistenze che le Internate hanno affrontato per
relazionarsi con chi è rimasto. Prime fra tutte le Internate per motivi
politici. Le accuse nei loro confronti sono pesanti e contraddittorie: da una
parte, anche se velatamente, si rimprovera loro di essersi andate a cercare i
guai, interessandosi di guerra e politica, cose che da sempre sono di stretta
pertinenza degli uomini. Se la scelta di andare a combattere e di opporsi è
fatta al seguito di un uomo,sia esso padre, fratello, marito, amante, amico si
rimprovera loro di non essere state autonome nella scelta; se invece si è
scelto autonomamente di opporsi ai tedeschi, subendo il lager, allora si
rimprovera di aver lasciato ed abbandonato i compiti femminili.
Il reinserimento nella vita lasciata, al ritorno, il
momento tanto sognato, è spesso fonte diu ulteriori traumi: chi è stato
deportato, internato al ritorno non riconosce i luoghi lasciati, le persone,
sia materialmente che psicologicamente; chi vede ritornare il suo caro non lo
riconosce per come si presenta nel fisico e nella mente, troppo devastante è
stata l’esperienza. Da qui quel lento avvicinarsi l’un l’altro che solo a
prezzo di ulteriori sacrifici darà risultati.
Molte altre le paure e le incomprensioni del
ritorno, da quella di sapere se si potevano meno avere figli e se si, se questi
erano sani, nella riserva mentale di essere state inconsapevolmente soggette
attraverso la nutrizione a sistemi di sterilizzazione, a quella che l’impronta
di queste piaghe si trasmette alle nuove generazioni, soprattutto per via
inconscia ed ad altre ancora.
Questa esperienza non può rimanere, come tutta
l’esperienza del lager in Germania, confinata alla generazione che l’ha subita.
Anche l’esperienza dell’Internamento al femminile deve essere posta alla
attenzione delle generazioni presenti. E posta oltre che come memoria e di
rispetto per chi ha subito tanto male, come elemento per guidare ed affrontare
il presente, per prevenire e per correggere i mali che la nostra società genera
a piè sospinto. L’esperienza del lager al femminile in Germana deve essere più
approfondita nel filone di comprendere come un essere “debole” inteso non come
“essere donna”, o “femminile” o debolezza morale, ma debolezza di chi, come
scrive Anna Maria Buzzone, è debole di fronte alla brutalità dei perdenti è da
sempre perdente e proprio per questo, nel fallimento umano di tutti i programmi
che poggiano sulla potenza, ha in sé risorse non ancora utilizzate di
liberazione e di salvezza.
[1] Testimonianza di Lina
Barboncini in L. Beccarla Rolfi e A.M. Buzzone
Le Donne di Ravensbruck, ……pag. 280.
[1] Sulla
complessa questione della realtà dei bordelli in molti lager, della possibilità
che molte internate abbiamo avuto traumi sessuali, e della conseguente voglia
di rappresentazioni per lo più falsanti di questi fenomeni, e soprattutto delle
fantasia che il tema scatena anche in certe componenti della cinematografia e
della comunicazione in genere, vds: Anna Maria Buzzone, I Ritorni delle donne,
in Il Ritorno dal lager, ( a cura di
Pietro Vaenti, Società Editrice Il Ponte Vecchi, Cesena, 1995. Nella nota 32 vi
è un ampia bibliografia riferita a questo specifico argomento.
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