Dibattito sulla memoria Come negare il negazionismo? Gabriele Della Morte 12/03/2014 |
Come negare il negazionismo? Come assicurare che la memoria dei giorni più drammatici sia al riparo da offese, oggi, attraverso internet, sciaguratamente alla portata di tutti? È questa una domanda molto delicata alla quale l’Italia - come altri paesi - ha cercato di fornire una risposta: dapprima nel 2007, e quindi in tempi più recenti, attraverso tre progetti di legge (cfr., rispettivamente, i d.d.l. 8 ottobre 2012 n. 3511; e 15 marzo 2013 n. 54, 16 ottobre 2013 n. 54-A).
Divieto di oblio
Il tentativo è quello di dare attuazione alla decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea del 28 novembre 2008 con la quale si domanda agli stati membri dell’Unione di impegnarsi a tutelare penalmente l’interpretazione dei fatti più drammatici, avvenuti e da venire. Il tema è però complesso: ammesso e non concesso che esista un divieto di oblio, è possibile dedurre da quest’ultimo un obbligo del ricordo?
Certamente quando uno Stato istituisce - come ha fatto anche l’Italia - una giornata della memoria, si ricorre a una legge per assicurare che talune narrazioni non sfumino con il tempo. Anche solo l’approvazione di simili leggi non manca però di sollevare polemiche.
Così, nonostante il fatto che la data scelta dalla legge italiana per celebrare la giornata della memoria sia quella, simbolica, dell’apertura dei cancelli di Auschwitz, nel testo manca ogni riferimento alle parole “nazismo” o “fascismo”, mentre si richiamano “coloro che, anche in campi e schieramenti diversi [sic!], si sono opposti al progetto di sterminio”.
Inoltre, introdurre un reato significa spingersi oltre, sino a permettere il ricorso ad una sanzione che contempli la reclusione per la difesa di un bene ritenuto meritevole di questo tipo - estremo - di tutela. Eppure, qual è il ‘bene’, in questo caso? L’ordine pubblico o la memoria storica? Un’adeguata problematizzazione si rivela, più che opportuna, necessaria.
Storici, giudici e legislatori
A uno sguardo attento si ravvisano diversi nodi irrisolti nei progetti di legge presentati . Il primo di questi concerne la (necessaria!) distinzione tra lo storico, il giudice e il legislatore, tre figure deputate a svolgere funzioni ben diverse. Si tenga presente quanto segue: quello che i tre progetti di legge omettono, e che al contrario avrebbe meritato di essere specificato, è ‘chi’ avrà il potere di accertare un reato di negazionismo. Se fosse il medesimo legislatore, ci si potrebbe legittimamente domandare in cosa consista l’operazione - appunto - di accertamento giudiziario.
E che la questione non rappresenti un’elucubrazione teorica è dimostrato dal fatto che il Conseil constitutionnel français ha sancito, con una decisione del 28 febbraio 2012, l’incostituzionalità di una disposizione francese che considerava ‘innegabili’ i soli genocidi certificati dalla legge.
Diversamente, se fosse un giudice a dovere accertare quando una condotta configura uno dei reati per i quali si applica il divieto di negazionismo, occorrerebbe specificare innanzitutto se debba trattarsi di un giudice ‘interno’ oppure ‘internazionale’. Nel primo caso, ci si potrebbe domandare con quale cognizione di causa un magistrato interno possa giudicare un fatto lontano anni e chilometri; nel secondo, si porrebbe la questione del ‘se’ esista un giudice internazionale competente nel caso specie: com’è noto, data la natura essenzialmente arbitrale della funzione giurisdizionale in diritto internazionale non tutte le violazioni hanno ‘diritto’ a un giudice.
Libertà di pensiero e d’espressione
In aggiunta, non può essere taciuto l’attrito che l’introduzione di un simile reato determina in rapporto alla libertà di pensiero e d’espressione. Ancora non può essere sottovalutato ‘l’effetto megafono’: i negazionisti che, a oggi, sono stati condotti in tribunale hanno trovato nelle aule di giustizia innanzitutto una tribuna per diffondere le proprie tesi.
E infine, sotto un profilo internazionalistico, ci sembra opportuno ricordare che la decisione del Consiglio dell’Unione europea richiamata in precedenza si differenzia alquanto dai progetti oggi discussi dal legislatore italiano. Infatti, la pena stabilita dalla decisione del Consiglio “reclusione da uno a tre anni” (art. 3, par. 2), è più lieve di due anni rispetto a quella richiesta dal legislatore italiano, che nell'ultima proposta giunge a prevedere una reclusione da uno a cinque anni. E ancora, l’elemento di pericolo è più marcato: l’art. 1, par. 1 lett. c e d, della decisione si riferisce a condotte idonee “a istigare alla violenza o all’odio”.
D’altra parte, se si osservano comparativamente le legislazioni nazionali che si sono dotate di simili strumenti, è difficile scorgere un indirizzo unitario, e di tale difformità sono testimoni le Corti costituzionali e gli organi internazionali di tutela dei diritti umani che hanno mutano in diverse occasioni orientamento. Da ultimo, si consideri quanto asserito dalla Corte europea dei diritti umani nei due casi Garaduy c. Francia (decisione del 24 giugno 2003) e Perinçek c. Suisse (sentenza del 13 dicembre 2013).
Oltre l’olocausto
A dieci anni di distanza si è passati dal ritenere legittima una condanna per negazionismo al suo contrario. Se nel primo caso si è trattato di olocausto, nel secondo si è dibattuto del genocidio del popolo armeno. È anche questo un tema sul quale riflettere approfonditamente: è possibile limitare la protezione offerta dal negazionismo al solo olocausto?
Due rischi si palesano, al riguardo. Il primo, di carattere formale, concerne il fatto che la decisione-quadro anzidetta concerne anche fattispecie minori (si pensi ai ‘crimini di guerra’, che si estendono sino al saccheggio). E il secondo, di tipo sostanziale, concerne il rilievo per cui un reato siffatto rappresenterebbe l’espressione di un diritto penale simbolico, de-attualizzato e volto a ‘custodire la storia’. Ma la storia non passa, tanto meno in giudicato (giacché - come insegnano gli storici - non è possibile ‘fare storia’ senza anche ‘fare la storia’). A chi giova tribunalizzarla?
Gabriele Della Morte è ricercatore confermato in diritto internazionale presso la Facoltà di giurisprudenza dell'Università Cattolica di Milano.
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Divieto di oblio
Il tentativo è quello di dare attuazione alla decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea del 28 novembre 2008 con la quale si domanda agli stati membri dell’Unione di impegnarsi a tutelare penalmente l’interpretazione dei fatti più drammatici, avvenuti e da venire. Il tema è però complesso: ammesso e non concesso che esista un divieto di oblio, è possibile dedurre da quest’ultimo un obbligo del ricordo?
Certamente quando uno Stato istituisce - come ha fatto anche l’Italia - una giornata della memoria, si ricorre a una legge per assicurare che talune narrazioni non sfumino con il tempo. Anche solo l’approvazione di simili leggi non manca però di sollevare polemiche.
Così, nonostante il fatto che la data scelta dalla legge italiana per celebrare la giornata della memoria sia quella, simbolica, dell’apertura dei cancelli di Auschwitz, nel testo manca ogni riferimento alle parole “nazismo” o “fascismo”, mentre si richiamano “coloro che, anche in campi e schieramenti diversi [sic!], si sono opposti al progetto di sterminio”.
Inoltre, introdurre un reato significa spingersi oltre, sino a permettere il ricorso ad una sanzione che contempli la reclusione per la difesa di un bene ritenuto meritevole di questo tipo - estremo - di tutela. Eppure, qual è il ‘bene’, in questo caso? L’ordine pubblico o la memoria storica? Un’adeguata problematizzazione si rivela, più che opportuna, necessaria.
Storici, giudici e legislatori
A uno sguardo attento si ravvisano diversi nodi irrisolti nei progetti di legge presentati . Il primo di questi concerne la (necessaria!) distinzione tra lo storico, il giudice e il legislatore, tre figure deputate a svolgere funzioni ben diverse. Si tenga presente quanto segue: quello che i tre progetti di legge omettono, e che al contrario avrebbe meritato di essere specificato, è ‘chi’ avrà il potere di accertare un reato di negazionismo. Se fosse il medesimo legislatore, ci si potrebbe legittimamente domandare in cosa consista l’operazione - appunto - di accertamento giudiziario.
E che la questione non rappresenti un’elucubrazione teorica è dimostrato dal fatto che il Conseil constitutionnel français ha sancito, con una decisione del 28 febbraio 2012, l’incostituzionalità di una disposizione francese che considerava ‘innegabili’ i soli genocidi certificati dalla legge.
Diversamente, se fosse un giudice a dovere accertare quando una condotta configura uno dei reati per i quali si applica il divieto di negazionismo, occorrerebbe specificare innanzitutto se debba trattarsi di un giudice ‘interno’ oppure ‘internazionale’. Nel primo caso, ci si potrebbe domandare con quale cognizione di causa un magistrato interno possa giudicare un fatto lontano anni e chilometri; nel secondo, si porrebbe la questione del ‘se’ esista un giudice internazionale competente nel caso specie: com’è noto, data la natura essenzialmente arbitrale della funzione giurisdizionale in diritto internazionale non tutte le violazioni hanno ‘diritto’ a un giudice.
Libertà di pensiero e d’espressione
In aggiunta, non può essere taciuto l’attrito che l’introduzione di un simile reato determina in rapporto alla libertà di pensiero e d’espressione. Ancora non può essere sottovalutato ‘l’effetto megafono’: i negazionisti che, a oggi, sono stati condotti in tribunale hanno trovato nelle aule di giustizia innanzitutto una tribuna per diffondere le proprie tesi.
E infine, sotto un profilo internazionalistico, ci sembra opportuno ricordare che la decisione del Consiglio dell’Unione europea richiamata in precedenza si differenzia alquanto dai progetti oggi discussi dal legislatore italiano. Infatti, la pena stabilita dalla decisione del Consiglio “reclusione da uno a tre anni” (art. 3, par. 2), è più lieve di due anni rispetto a quella richiesta dal legislatore italiano, che nell'ultima proposta giunge a prevedere una reclusione da uno a cinque anni. E ancora, l’elemento di pericolo è più marcato: l’art. 1, par. 1 lett. c e d, della decisione si riferisce a condotte idonee “a istigare alla violenza o all’odio”.
D’altra parte, se si osservano comparativamente le legislazioni nazionali che si sono dotate di simili strumenti, è difficile scorgere un indirizzo unitario, e di tale difformità sono testimoni le Corti costituzionali e gli organi internazionali di tutela dei diritti umani che hanno mutano in diverse occasioni orientamento. Da ultimo, si consideri quanto asserito dalla Corte europea dei diritti umani nei due casi Garaduy c. Francia (decisione del 24 giugno 2003) e Perinçek c. Suisse (sentenza del 13 dicembre 2013).
Oltre l’olocausto
A dieci anni di distanza si è passati dal ritenere legittima una condanna per negazionismo al suo contrario. Se nel primo caso si è trattato di olocausto, nel secondo si è dibattuto del genocidio del popolo armeno. È anche questo un tema sul quale riflettere approfonditamente: è possibile limitare la protezione offerta dal negazionismo al solo olocausto?
Due rischi si palesano, al riguardo. Il primo, di carattere formale, concerne il fatto che la decisione-quadro anzidetta concerne anche fattispecie minori (si pensi ai ‘crimini di guerra’, che si estendono sino al saccheggio). E il secondo, di tipo sostanziale, concerne il rilievo per cui un reato siffatto rappresenterebbe l’espressione di un diritto penale simbolico, de-attualizzato e volto a ‘custodire la storia’. Ma la storia non passa, tanto meno in giudicato (giacché - come insegnano gli storici - non è possibile ‘fare storia’ senza anche ‘fare la storia’). A chi giova tribunalizzarla?
Gabriele Della Morte è ricercatore confermato in diritto internazionale presso la Facoltà di giurisprudenza dell'Università Cattolica di Milano.
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