LE RAGIONI DI UN CONVEGNO
La II Fase: l’approccio
della Guerra di Liberazione: una guerra su cinque fronti.
Il
fascismo e il nazismo hanno segnato la storia dell’Europa nella prima metà del
Novecento; se, in modo succedaneo, si accettano elementi che ancora
sopravvivono di queste esperienze in Europea o in Italia, o addirittura si
abbracciano queste ideologie, si deve negare in modo chiaro che non si può
parlare né di Resistenza, in Europa, né di Guerra di Liberazione, in Italia. Lo
spartiacque di questa impostazione è quello al di qual del quale non si
accettano né fascismo né nazismo; al di là li si accettano, pur nella
esperienza di oltre 60 anni di vita repubblicana
ed unitaria in Europa. Se si è al di qua di detto spartiacque allora si può
parlare di Resistenza, intesa come la lotta dei popoli europei, in generale, ed
italiano, in particolare, contro i
predetti e fascismo e nazismo. In Italia, secondo il nostro approccio, emerge
nella sua reale dimensione la crisi seguita alla dichiarazione dell’armistizio dell’8
settembre, in cui arrivò alla sua naturale soluzione la crisi del nostro Paese
dovuta al fallimento morale e materiale del fascismo culminata il 25 luglio
1943 con la destituzione di Mussolini e la cancellazione con tre decreti leggi
del fascismo come regime.
Questo è l’ulteriore spartiacque che occorre segnare per comprendere, a noi
Italiani, perché il fascismo ha fallito. Occorre riprendere alla mano tutte le
fonti, alzare il velo della ideologia e del vittimismo e giustificazionismo e
capire, con documenti alla mano, perché si arrivò a quel grande disastro
materiale che fu la seconda guerra mondiale (1940-1943) ove collezionammo una
serie di sconfitte e umiliazioni, oltre al discredito ed al disprezzo di nemici
e alleati, a cominciare dal principale alleato del fascismo, la Germania
nazista. I Nazisti disprezzarono, in generale, l’alleato fascista, in
particolare, e diedero nuova linfa al disprezzo risorgimentale ed antiunitario
verso gli Italiani nutrito dalle popolazioni germaniche. Comprendere perché non
conquistammo la loro fiducia, stima e considerazione, almeno in campo militare.
Si può vincere e si può perdere, ma forse è più importante il come si vince e
il come si perde. Noi su questo punto fummo sempre deficitarii. L’unico che
ebbe una qualche ammirazione per noi, per il Duce,in particolare, fu Hitler,
che lo manifestò fino alla fine. Ma i vertici nazisti, basta leggere i Diari di
Himmler e di Goebbels per averne un riscontro diretto. Himmler aveva donato
alla Milizia 36 carri Tigre, con istruttori tedeschi, e la Divisione di Camicie
Nere stanziata a Chiusi doveva essere un serio baluardo contro i nemici del
fascismo. Il 25 luglio non si mosse, come non si mossero i Moschettieri del
Duce, la guardia scelta che avrebbe dovuto essere l’ultimo baluardo, fino
all’estremo sacrificio della vita, ad ogni minaccia. Tutti fini in un
fallimento prima morale e poi materiale. Quando nel 1922 il Fascismo andò al
potere, l’Italia era una nazione agricolo-pastorale, divisa tra Nord e Sud,
povera e sottosviluppata, ma che si era convinta che aver vinto la Grande Guerra e la
conquista di Trento e Trieste di aver risolto tutti i suoi problemi, molti
secolari altri recenti. Il Fascismo andò al potere trainato da un gruppo di
uomini decisi, impreparati ideologicamente, lontani da filosofie, digiuni di
ogni preparazione di alto livello. Si mise all’opera per fare dell’Italia una
Potenza, e nelle apparenze, agli inizi degli anni trenta presentò ad una Europa
più sorpresa che attonita, una Italia diversa. Un Italia che l’Europa conosceva
come disordinata, portata per abitudine al compromesso ed all’inganno, alla
frode spicciola e al raggiro di bassa lega, con un tessuto sociale friabile,
messa la camicia nera era diventata in pochi anni ordinata, precisa degna di proporre all’Europa stessa qualcosa
di diverso, di rivoluzionario, sotto la guida del “Duce”. Mussolini creò quello
che poi sono stati definiti gli anni del consenso. Con ordini perentori dall’alto
“metteva in riga” il popolo italiano. Presentava la
Grande Guerra come una vittoria Italiana ove marginalmente francesi, belgi,
britannici, americani presero parte, era il protagonista della Storia, e con il
concordato l’”uomo della provvidenza”. Di fronte a lui tutti si inchinarono:
scrittori, giornalisti, uomini di cultura, preti di alto e basso clero,
insegnati e professori, il popolo tutto. L’opposizione si ridusse a pochissimi
uomini che dovettero andare in esilio, ed anche lì perseguitati dall’OVRA, e da
poche centinaia di migliaia di “mormoratori”. Al tempo dell’Impero, a metà
degli anni trenta, l’adesione, il “consenso” fu massiccio. Con la vittoria in
Abissina, contro un avversario finto, il popolo italiano, credeva di poter
piegare il mondo. Il 9 maggio 1936, giorno in cui fu proclamato l’Impero, fu il trionfo del fascismo, ma anche l’inizio
del suo declino. Avviatisi sulla strada delle conquiste, il popolo italiano
doveva diventare un popoli di soldati, invece si sentiva ed era un popolo di operai
e di contadini. Chi doveva sostenere questa azione, questa trasformazione era
il Partito Nazionale Fascista, il P.N.F. Il suo compito era quello di tenere
legati i milioni di italiani che dovevano essere trasformati in soldati, in
conquistatori. Il P.N.F. arruolò, in questo immane compito, tutti, dai neonati
agli ultra ottantenni, e mise tutti in divisa, in camicia nera, in un orgia di
militarismo ossessivo e ossessionante che non vide ne prima ne poi alcun
paragone in Italia.
Per gestire le masse, non puntò, e questo
forse il campo di ricerca più interessante, ai Quadri, a coloro che dovevano
gestire e orientare queste masse di popolo in camicia nera, a coloro che,
attraverso la selezione meritocratica dovevano diventare la dirigenza del
Partito, a cui affidare il raggiungimento degli obbiettivi primari. Puntò
invece all’esterno dell’uomo, alla apparenza, trascurando i cervelli, favorendo
i mediocri, i più controllabili, i più guidabili, creando baronie a tutti i
livelli, con una proliferazione di gerarchi, gerarchetti, gerarchicini servili,
forti con i deboli e deboli con i forti, una sconfinata schiera di “yes man”,
che non riuscirono a far altro che impantanare la Nazione in una ossessiva
burocrazia di ordini, fogli d’ordini, disposizioni, ordinanze, precetti,
circolari, ordini del giorno ecc. Achille Storace, segretario del PNF dal 1930
al 1940 fu protagonista e l’animatore di tutto questo. Il Partito fallì
nell’impresa di forgiare il nuovo italiano. Le piaghe di sempre non
scomparvero, la mafia e la camorra operavano in silenzio, la corruzione correva
come sempre ha corso, le tangenti la facevano da padrone, gli scandali si
susseguivano agli scandali, anche se era vietato parlarne, in un orgia di
retorica inconcludente e vuota e stantia, con una “intellighenzia” che si
prostituiva in modo tanto vergognoso quanto criminale.
Con la Guerra di Spagna, il popolo Italiano capì che ci si era
incamminati su cose più grande di Lui. L’Alleanza con la Germania sempre più
stretta, inorgogliva ma impauriva, vedendo i tedeschi sempre come tedeschi. Con
le leggi razziali il cammino divenne arduo e gli interrogativi aumentarono,
Monaco fu un sollievo, ma di breve durata. Ma dove il fallimento del PNF fu più
marcato fu la preparazione alla guerra. Un partito che predicava il
combattimento come suprema sfida e stile di vita, non curò la preparazione
militare della Nazione e la ragione era semplice: perché non era capace. Quel
coacervo di etnie che è il nostro Paese, lì dove si fabbricano 400 tipi di
pasta, che è il piatto nazionale, aveva
abitanti che non possedevano la stoffa del Protagonista, del dominatore della
scena mondiale, deboli di carattere, carenti di volontà, con forte inclinazione
all’individualismo inconcludente e prativo, all’indisciplina, alla incapacità
di rimanere saldi nei momenti di crisi e di difficoltà. Il PNF si presentò alla
prova della Guerra Europea, lì dove si dovevano decidere i destini del futuro,
vuoto e morto. Un Partito che era tutto apparenza, in gigante dai piedi
d’argilla, ma che non era in grado di affrontare le grandi prove. I famosi
reggimenti d’acciaio, la
Gioventù Italiana del Littorio forgiata dal maglio della
rivoluzione fascista, non esisteva; le piazze erano piene, ma di scheletri, di
pupazzi in divisa, corpi senza cuore. Quando il popolo italiano seppe che
l’Italia non entrava in guerra nel settembre 1939, tirò un sospiro di sollievo
e ringraziò la buona stella. Quando il 10 giugno 1940 seppe che la guerra era
iniziata, si raccomandò al buon stellone d’Italia e sperò che Mussolini avesse
visto giusto. Ma ben presto si vide che una Nazione che doveva essere
rigenerata dalla rivoluzione fascista, non lo era. Già la campagna delle Alpi
occidentali mostrò tutti i limiti e le manchevolezze e da qui partì quella
serie di sconfitte, incapacità di operare, di essere sconfitti con dignità, di
non riuscire a condurre una operazione vittoriosa, che segno 39 mesi di guerra.
Giunsero ben presto le sconfitte in Africa settentrionale, in A.O.I e la disastrosa Campagna
di Grecia, che chiarì in modo inequivocabile che l’Italia non era quella che
appariva. Non facciamo altro che ricordare delle sconfitte: El Alamain,
Nikolajevka, tutto ammantando di frasi retoriche: “mancò la fortuna, non il
valore” si scrisse nel momento migliore delle nostre fortune in Africa
settentrionale. Questo va bene per loro, per i Bersaglieri. Per l’Italia,
occorre aggiungere che oltre alla fortuna mancarono tante altre cose, prima la
benzina, poi i mezzi, poi l’equipaggiamento adeguato, e, in genere, tutta la logistica necessaria a condurre una
guerra mondiale, poi l’azione di comando, poi la strategia operativa, poi la strategia. Il Fascismo
portò l’Italia, mese dopo mese, dal 1940 al 1943 alla distruzione e le
conseguenze di questo disastro si ripercuoteranno per generazioni.
Il Fascismo cadde e nei 45
giorni seguenti in cui il nostro vertice Politico doveva gestire la nostra
uscita dalla guerra contribuì con errori, alcuni davvero madornali, in sequenza
, uno dopo l’altro fino alla suprema follia della gestione dell’armistizio e la conseguente gestione della crisi
armistiziale. Il popolo italiano di fronte a tanto disastro, quando lo stesso
concetto di Unità Nazionale fu messa in discussione, si trovò costretto a
scegliere. E la genesi dei fronti della
Guerra di Liberazione. I fronti, che nel
nostro approccio individuati sono i
seguenti:
- Quello dell'Italia libera, ove gli Alleati tengono il
fronte e permettono al Governo del Re d'Italia di esercitare le sue
prerogative, seppure con limitazioni anche naturali per esigenze belliche. Il
Governo del Re è il Governo legittimo d'Italia che gli Alleati, compresa
l'URSS., riconoscono.
- Quello dell'Italia
occupata dai tedeschi. Qui il fronte è clandestino e la lotta politica è condotta dal
C.L.N., composti questi dai risorti partiti antifascisti. E' il grande
movimento partigiano dei nord Italia.
- Quello della resistenza
dei militari italiani all'estero. E' un fronte questo non conosciuto, dimenticato,
caduto presto nell'oblio. E' la lotta dei nostri soldati che si sono inseriti
nelle formazioni partigiane locali
per condurre la lotta ai tedeschi (Jugoslavia, Grecia, Albania).
- Quello della Resistenza
degli Internati Militari Italiani, che opposero un deciso rifiuto di aderire alla R.S.I., di fatto delegittimandola.
- Quello della Prigionia
Militare Italiana della seconda guerra mondiale.
Se vediamo il singolo
militare, il singolo cittadino atto alle armi vediamo che alla guerra
parteciparono per varie vie, spesso seguendo scelte le più disparate: chi come
rifiuto di consegnarsi ai tedeschi; chi, catturato, finì nei campi di concentramento in Germania e
in Polonia; chi entrò nelle file partigiane
e prese le armi; chi rientrò in Italia del Sud e nella stragrande maggioranza
entrò nelle file dell'Esercito dei
Re; chi visse, senza cedere, sui monti in Italia e all'Estero per non consegnarsi ai tedeschi e non
collaborare, chi nei campi di Prigionia degli ex-Nemici, ora alleati, accettò
di collaborare in nome del contributo che l'Italia doveva dare per un domani
migliore.
L'approccio adottato
permette di poter sviluppare le ricerche in queste cinque direzioni al fine di
vedere quanti e quali italiani portarono, come dice Luciano Bolis il loro
"granello di sabbia", oltre a quella che vide coinvolti quelli che
rimasero fedeli alla vecchia Alleanza che ha permesso di riportare alla luce
tanti episodi ormai avvolti nel buio, ma deve essere ulteriormente integrato.
Vediamo più da vicino questi fronti.
Il Primo Fronte: L'Italia
del Sud. Qui ricomincia a funzionare il vecchio stato, ma accanto si sviluppa
la dialettica dei partiti. Partecipano alla guerra prima il I Raggruppamento
Motorizzato, poi il C.I.L., poi i Gruppi di Combattimento. Sono, in nuce, i
soldati del futuro esercito italiano, che operano secondo le regole classiche
della guerra. E' indubbio che combatto contro i tedeschi, anche se il rapporto
con gli Alleati è sempre di sudditanza. Con la liberazione di Roma e l'avanzata
nell'Italia centrale la lotta al
nazifascismo non è disgiunta da una appassionata discussione sul futuro
politico dell'Italia e sulle prospettive di vero rinnovamento democratico. Le
forze partigiane e dei partiti antifascisti coesistono, oltre che con
l'organizzazione militare del Regno, anche con la Chiesa Cattolica,
fattori entrambi che condizionano in senso moderato l'attività antifascista.
Il Secondo Fronte:
L'Italia del Nord. Al momento dell'Armistizio, l'Italia fu tagliata in due. Al
nord i tedeschi impongono la Repubblica Sociale. Qui si ha la forma più
compiuta di resistenza. Si hanno le formazioni partigiane organizzate dai
partiti antifascisti in montagna, mentre nelle pianura e nelle città si
organizzano i GAP e le SAP. Oltre a ciò la popolazione civile partecipa alla
guerra collaborando con il movimento partigiano in mille forme, e subendo terribili
e inumane rappresaglie; inoltre gli operai con i loro scioperi e la loro
resistenza passiva contribuiscono a rallentare lo sforzo bellico dell'occupante
e a minare anche la propria sicurezza. Si ha il coinvolgimento di ampi strati
della popolazione nella guerra al nazifascismo, che si integra con il
particolare profilo delle bande in montagna, che non sono solo gruppi di
combattenti ma anche luoghi di dibattito e di formazione politica.
Il Terzo Fronte:
L'Internamento. Nei mesi di settembre ed ottobre l'Esercito tedesco fa
prigionieri ed interna in Germania oltre 600.000 militari italiani, dando
origine al fenomeno dell'Internamento Militare Italiano nella seconda guerra
mondiale. Questi militari non hanno lo statu di prigionieri, ma di internati,
ovvero nella scala del mondo concentrazionario tedesco, sono sullo stesso
livello dei prigionieri sovietici ( La URSS non aveva firmato la convenzione di
Ginevra del 1929) e poco al di sopra degli ebrei. Ovvero il loro trattamento
era durissimo. In queste circostanze per uscire da questo infermo ci si sarebbe
aspettato una adesione plebiscitaria alle proposte di collaborazione sia dei
Nazisti sia degli esponenti della R.S.I. Invece la quasi totalità degli
Internati oppose il rifiuto ad una qualsiasi forma di collaborazione, subendone
le più terribili conseguenze. Fu un fronte di resistenza passivo, ma
determinato, che nella realtà dei fatti delegittimò sul piano interno ma anche
agli occhi dei germanici la Repubblica Sociale.
Infatti una decisione in massa degli Internati ai fascisti di
Salò avrebbe permesso alla R.S.I. di avvalorare le tesi della propaganda, che
era l'unica rappresentate della vera Italia. In realtà questa non adesione, in
sistema con la lotta partigiana, isolò Mussolini relegandolo a semplice rappresentate
di se stesso e dei suoi accoliti.
Il Quarto Fronte: La
Resistenza dei Militari Italiani all'Estero
Se nel nord Italia si sviluppò il movimento partigiano attraverso
bande armate, all'estero, i militari italiani sorpresi dall'armistizio dell'8
settembre e sottrattisi alla cattura tedesca si opposero ai tedeschi in armi,
inizialmente, poi dando vita, in armonia con i movimenti di resistenza locali a
vere e proprie formazioni armate. Per la resistenza di formazioni organiche
sono noti i fatti di Lero e di Cefalonia. Meno noti tanti altri fatti in cui
unità militari italiane organiche resistettero ai tedeschi fino al limite della
capacità operativa. Un esempio per tutte: La Divisione "Perugia",
stanziata nel sud dell'Albania tenne in
armi il porto di Santi Quaranta fino al 3 ottobre 1943, in attesa di un
aiuto da parte italiana ed alleata. Una divisione di oltre 10.000 uomini, che
dominava un area abbastanza vasta e che
avrebbe potuto dare un forte aiuto ad un intervento alleato dall'altra parte dell'Adriatico.
10.000 militari italiani che rimasero compatti per tre settimane oltre l'armistizio,
in armi e che pagarono duramente questa loro resistenza. Infatti tutti gli
Ufficiali della Perugia furono fucilati, e gli uomini internati in Polonia.
Per le unità che passarono in montagna e si unirono
ai movimenti partigiani locali, noti sono gli avvenimento della divisione
"Venezia" e "Taurinenze", che diedero vita alla Divisione
Partigiana Garibaldi; meno note le vicende della divisione "Firenze"
ed "Arezzo" in Albania e delle divisioni italiane stanziate in
Grecia. Militari Italiani diedero vita alla divisione "Italia" in
Jugoslavia. Oltre che nei Balcani, militari italiani parteciparono ai fronti di
resistenza locali. Così in Corsica, ove oltre 700 militari caddero per la
liberazione di Aiaccio, cosi nella Provenza, in centro Europa la presenza di
militari italiani è certa.
Il Quinto Fronte: La Prigionia. Vi
erano, al momento dell’Armistizio, circa 600.000 prigionieri nelle mani delle
Nazioni Unite. Soldati per lo più caduti nelle mani del nemico a seguito
dell’offensiva in Nord Africa (1940-’41) alla resa in Tunisia ed al tracollo
del luglio agosto 1943 in
Sicilia. Per lo più, tranne i 10-12.000 soldati in mano all’URSS, erano in mano
anglo-americana. Questi soldati, questi italiani all’annuncio dell’Armistizio
dovettero, come tutti, fare delle scelte. La stragrande maggioranza scelse di
cooperare con gli ex-nemici, contribuendo anche loro a costruire un futuro
migliore. Una aliquota molto bassa non volle cooperare, non solo perché fedeli
alla vecchia alleanza, ma per variegate motivazioni. Ad esempio a Hereford
(USA) vie erano circa 4.000 italiani che gli americani consideravano "sout
court" fascisti. In realtà, fra questi non cooperatori vi erano sì fascisti,
ed anche prigionieri delle Forze della R.S.I., ma anche monarchici, liberali,
moderati, repubblicani, socialisti, comunisti o laici in senso stretto che
avevano fatto una scelta personale. I prigionieri in mano agli Angloamericani
furono organizzati in ISU, Italiana Service Units, compagnie di 150 uomini
addetti ad un particolare lavoro. Il loro contributo si esplicò negli Stati
Uniti e in Gran Bretagna con l'impegno nei grandi arsenali o nelle basi, oppure
in Nord Africa e quindi in Italia, parte integrante della organizzazione
logistica alleata. Anche loro, con il loro lavoro, portarono il contributo alla
vittoria finale. Soprattutto i prigionieri che operarono in Italia nel campo
delle comunicazioni, dei trasporti e del genio, confluirono poi nelle unità del
nuovo esercito italiano, gestendo il materiale di guerra americano
Ovvero, anche il prigioniero
che, in un contesto particolare, combatte.
A tutti i fronti si accede perché
volontari. Si hanno diverse figure giuridiche, che già descriviamo, come il
partigiano, il patriota, il prigioniero, l'internato, l'ostaggio, il deportato,
tutte figure che si delineano a seconda del fronte con cui si combatte. Un
fronte che rimane unitario, nella volontà ferma di sconfiggere il nazifascismo.
E in nome di questa unità, ricordiamo in questa data unitaria chi, pur nella
diversità di grado ma non di natura, diede il suo contributo, il suo granello
di sabbia, su fronti diversi, affinchè si realizzasse una Italia migliore.
A Suo tempo si scrisse: “Questo il quadro generale
di ricerca che si propone, in una visione storico-scientifica unitaria, al fine
di consegnare alle nuove generazioni un approfondimento, oltre che una
conoscenza, di fatti che generarono gli anni della vicenda repubblicana la cui
matrice non si può non conoscere se si vogliono affrontare i problemi che
abbiamo di fronte.”
Questa seconda fase
iniziò nel 2001-2002 e si concretizzò
con la partecipazione a numerosi convegni, e nella pubblicazione di due volumi,
quello dedicato all’Albania e quello dedicato alla divisione “Perugia” ed altri della Collana “Storia in
Laboratorio”
Questa fase ebbe termine
intorno al 2011-2012, venendo a terminare l’apporto delle Associazioni
Combattentistiche, per il naturale passare del tempo e con la scomparsa dei testimoni
e protagonisti.