L’ultima crisi nei rapporti fra Washington e Mosca è conseguenza del fallimento, alla fine di settembre, del tentativo di cessate il fuoco in Siria. Punto chiave dell’intesa era la città di Aleppo, attorno a cui ruotavano le trattative fin dallo scorso febbraio.
L’importanza strategica di Aleppo Aleppo ha un’importanza strategica per l’evoluzione del conflitto. Si tratta dell’ultimo grande centro urbano in cui la presenza dei ribelli non è trascurabile. Secondo stime fornite dall’inviato dell’Onu Staffan de Mistura, ve ne sono rimasti circa 9mila, asserragliati nei quartieri orientali dove risiedono anche 275mila civili. La porzione di città sotto il controllo del regime conta invece un milione e mezzo di abitanti.
Le sorti di Aleppo, a lungo incerte, cominciarono a cambiare dopo l’intervento militare russo iniziato circa un anno fa. I quartieri in mano agli insorti vennero isolati dal confine turco a nord, e progressivamente accerchiati.
Da tempo, le formazioni armate dell’opposizione ad Aleppo e nella vicina provincia di Idlib sono dominate da Al-Nusra. Questo gruppo ha recentemente cambiato nome - ribattezzandosi Jabath Fatah al-Sham - sconfessando la propria affiliazione ad Al-Qaeda. Rimane però sostanzialmente qaedista a giudizio sia di Mosca che di Washington.
Le altre milizie ribelli, fra cui i cosiddetti gruppi “moderati” addestrati e armati dalla Cia, operano in stretto coordinamento con Al-Nusra. Vi sono però anche divisioni nel fronte degli insorti. Contrasti si sono registrati ultimamente fra Al-Nusra e Ahrar al-Sham, altra formazione dominante di ispirazione salafita-jihadista, vicina alla Turchia. Questo gruppo sembra essersi disimpegnato da Aleppo.
Il fallimento del cessate il fuoco La proposta di cessate il fuoco, avanzata dall’amministrazione Obama fin da giugno, era basata su due punti chiave: la fine dei raid governativi, e l’allontanamento delle altre formazioni ribelli da Al-Nusra. L’aviazione di Damasco avrebbe lasciato il passo a un coordinamento militare russo-americano incaricato di colpire i due gruppi estremisti esclusi dalla tregua: Al-Nusra e Daesh, il sedicente califfato.
L’accordo avrebbe dovuto rassicurare il Cremlino, che aveva accusato Washington di usare anche i jihadisti pur di rovesciare il regime, e allo stesso tempo garantire alla Casa Bianca che i ribelli non sarebbero stati più colpiti ad eccezione di Al-Nusra.
Russia e Stati Uniti erano i garanti dell’accordo: Mosca avrebbe dovuto tenere a freno il regime e le milizie di Teheran, Washington gli insorti. Se la tregua avesse retto, si sarebbe potuto riavviare il negoziato.
Il Cremlino ha faticato a convincere i propri alleati, che ormai puntavano a una vittoria militare, a rispettare il cessate il fuoco. Ma l’amministrazione Obama è venuta a trovarsi in una posizione forse ancora più debole, per due ragioni. In primo luogo, essa ha dovuto fare i conti con il sostanziale rifiuto delle altre formazioni ribelli a separarsi da Al-Nusra. E secondariamente, si è trovata spaccata al proprio interno.
I vertici del Pentagono, dal segretario alla Difesa Ashton Carter al capo degli Stati maggiori riuniti, generale Joseph Dunford, hanno espresso grande riluttanza di fronte all’ipotesi di coordinamento militare con i russi concordata dal segretario di Stato John Kerry.
Due gravi episodi hanno affondato definitivamente la tregua: il bombardamento statunitense di una postazione dell’esercito siriano a Deirez-Zor, nella parte orientale del Paese, definito accidentale dalla Casa Bianca ma considerato intenzionale da Mosca e Damasco. E, pochi giorni dopo, il bombardamento di un convoglio umanitario vicino ad Aleppo, attribuito da Washington all’aviazione russa e siriana.
Aspettando Usa 2016 La conseguente escalation militare operata dalle forze filo-governative ad Aleppo ha portato alla rottura delle trattative fra Stati Uniti e Russia. Washington e i suoi alleati regionali hanno successivamente inviato nuove armi ai ribelli, che però difficilmente saranno sufficienti a cambiare le sorti del conflitto.
Opzioni più drastiche, come il lancio di missili cruise contro obiettivi del regime, sono state per il momento scartate dalla Casa Bianca perché i russi hanno fatto capire, schierando nuove difese missilistiche a Tartus, che si rischierebbe lo scontro diretto con Mosca. La situazione rimane però grave.
Ad Aleppo il regime offre due alternative: la resa e la deportazione degli insorti, come già è avvenuto in occasione di compromessi raggiunti fra Damasco e gruppi ribelli in altre zone, o la conquista militare della città.
La caduta di Aleppo, assieme alle recenti vittorie a Damasco e Hama, porterebbe il regime a consolidare ulteriormente il proprio controllo sulla cosiddetta Siria “utile”. Si tratta della regione occidentale che comprende i principali centri urbani e la maggior parte della popolazione del paese.
Il conflitto tuttavia proseguirà, visto che i sostenitori regionali dell’insurrezione e gli stessi Stati Uniti sembrano continuare ad appoggiarla. Fra i primi bisogna tuttavia registrare il parziale disimpegno della Turchia. Ankara in questo momento sembra anteporre la battaglia contro i curdi siriani a quella contro Damasco, e mantiene una posizione ambigua fra Washington e Mosca.
La Siria rimarrà dunque una ferita sanguinante nella regione almeno fino all’insediamento del prossimo presidente statunitense. Dagli orientamenti della nuova amministrazione dipenderà in buona parte l’evoluzione del conflitto e dello scontro con Mosca.
Roberto Iannuzzi è ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). È autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale (Twitter: @riannuzziGPC).
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